Ascoltatemi bene, banda di snob, vi parlerò di Kai Althoff, nato nel 1966 a Colonia, quell’artista che gioca con i nostri nervi da più di tre decenni ormai. Dimenticate tutto ciò che pensate di sapere sull’arte contemporanea, perché Althoff è l’antitesi perfetta dell’artista-imprenditore che la nostra epoca venera con una devozione cieca e patetica.
Immaginate un creatore che preferisce lavorare in un modesto appartamento di due stanze piuttosto che in uno di quegli atelier luccicanti dove i galleristi vengono a fare i loro acquisti settimanali. Un artista che ha osato urinare sulle sue stesse tele prima di venderle, che ha trasformato una galleria in un bar underground, e che, paradosso dell’insolenza, ha presentato una semplice lettera di rifiuto come opera d’arte alla Documenta. Se non state già strappandovi i capelli dall’indignazione, continuate a leggermi.
In questa prima parte, immergiamoci in ciò che fa l’unicità di Althoff: la sua relazione unica con lo spazio espositivo e la sua concezione radicale della presentazione artistica. Nel 2016, durante la sua retrospettiva al MoMA, ha fatto l’impensabile: ha lasciato alcune opere nelle loro casse di imballaggio, trasformando l’austero tempio dell’arte moderna in un magazzino poetico. Questa decisione non era un semplice sfregio all’istituzione, ma una riflessione profonda sul modo in cui consumiamo l’arte oggi.
Lo spazio museale, sotto la direzione di Althoff, diventa un teatro dell’assurdo dove le convenzioni vengono sistematicamente deviate. Copre i soffitti con tessuti bianchi, creando tende improvvisate che evocano sia i souk orientali sia le capanne dei bambini. Questa trasformazione richiama le teorie di Claude Lévi-Strauss sul bricolage come modo di pensiero creativo, in cui gli elementi vengono distolti dalla loro funzione primaria per creare nuovi sistemi di significato.
La scenografia di Althoff è una sfida alla nostra concezione asettica dell’arte contemporanea. Alla Whitechapel Gallery nel 2020, ha creato un dialogo improbabile tra le sue opere e quelle del vasaio Bernard Leach, accostando l’artigianato tradizionale e l’arte contemporanea in una danza macabra che avrebbe fatto urlare i puristi. Le vetrine che ha progettato, patinate da una ruggine artificiale e drappeggiate con tessuti tessuti da Travis Joseph Meinolf, sono come reliquiari profani che celebrano la bellezza dell’imperfezione.
Questo approccio iconoclasta all’esposizione si inserisce in una tradizione filosofica che risale a Walter Benjamin e al suo concetto di “aura” dell’opera d’arte. Althoff non cerca di preservare l’aura tradizionale dell’arte; la decostruisce consapevolmente per crearne una nuova, più ambigua, più perturbante. Le sue installazioni sono labirinti temporali dove le epoche si scontrano, dove il passato e il presente danzano un valzer vertiginoso.
Nelle sue esposizioni, le opere si accumulano come strati geologici, creando un’archeologia fittizia della memoria collettiva. I dipinti sono appesi a diverse altezze, a volte così vicini al suolo che bisogna accovacciarsi per vederli, altre volte così in alto che sembrano fluttuare nello spazio. Questa disposizione anarchica obbliga lo spettatore a diventare un esploratore attivo, mettendo in discussione la passività tradizionale della contemplazione artistica.
La seconda caratteristica dell’opera di Althoff risiede nel suo approccio unico alla rappresentazione umana e alle dinamiche comunitarie. I suoi quadri sono popolati da figure che sembrano uscite da un sogno febbrile: monaci medievali si affiancano a punk, scolari in uniforme si mescolano a ebrei chassidici. Questa improbabile confluenza di personaggi crea una tensione narrativa che evoca le teorie di Michail Bachtin sul carnevalesco e la polifonia.
Prendiamo ad esempio le sue serie dedicate alla comunità chassidica di Crown Heights, dove vive dal 2009. Queste opere non sono semplici documenti etnografici, ma meditazioni complesse sull’alterità e l’appartenenza. Le figure che dipinge sembrano sospese tra diversi stati di coscienza, come se fossero simultaneamente presenti e assenti, familiari e straniere.
La tecnica pittorica di Althoff è tanto singolare quanto i suoi soggetti. Usa una palette che sembra essere stata sbiadita dal tempo: ocra smorzata, verdi muschio, blu scoloriti. Questi colori creano un’atmosfera di malinconia che richiama le teorie di Roland Barthes sulla fotografia e la nozione di “ça-a-été”. Ma a volte un colore vivo esplode nella composizione come un grido nel silenzio, creando una tensione drammatica che elettrizza l’insieme.
I suoi personaggi sono spesso rappresentati in momenti di intensa ma ambigua interazione. In un’opera senza titolo del 2018, due giovani condividono un momento di intimità in un campo di fiori, sotto un cielo di un giallo apocalittico. Questa scena, al tempo stesso tenera e inquietante, illustra perfettamente la capacità di Althoff di creare immagini che oscillano tra diversi registri emotivi.
L’artista non si limita a dipingere comunità, le crea attivamente attraverso la sua pratica artistica. Le sue collaborazioni con altri artisti, musicisti e artigiani testimoniano un profondo desiderio di trascendere l’individualismo dominante nel mondo dell’arte contemporanea. La sua partecipazione al gruppo musicale Workshop e le numerose performance collettive mostrano che per lui l’arte è prima di tutto un’esperienza condivisa.
Questa dimensione collettiva del suo lavoro si estende fino al modo in cui concepisce il ruolo dello spettatore. Nelle sue installazioni, il pubblico non è un semplice osservatore ma diventa parte integrante dell’opera. I visitatori che si muovono nei suoi spazi labirintici diventano attori involontari in un teatro della memoria dove i confini tra realtà e finzione si sfumano.
I materiali che Althoff utilizza contribuiscono anch’essi a questa estetica dell’ambiguità. Dipinge su supporti non convenzionali: tessuti usurati, carte ingiallite, cartoni recuperati. Queste superfici portano già con sé una propria storia, creando una testimonianza visiva dove il passato traspare sotto gli strati di pittura. Questo approccio materiale richiama le riflessioni di Georges Didi-Huberman sulla sopravvivenza delle immagini e la loro capacità di portare la memoria del tempo.
L’artista spinge ancora oltre questa esplorazione dei materiali integrando oggetti trovati nelle sue installazioni. Manichini vintage, mobili usurati, tessuti antichi creano ambienti che sembrano capsule temporali difettose, lasciando filtrare frammenti di storia nel presente. Questa accumulazione di oggetti non è senza richiamare le teorie di Walter Benjamin sul collezionista come figura malinconica della modernità.
La pratica di Althoff è profondamente radicata in una riflessione sulla temporalità. Le sue opere sembrano esistere in un tempo sospeso, né del tutto nel passato né completamente nel presente. Questo approccio temporale fa eco alle riflessioni di Maurice Merleau-Ponty sulla percezione e la temporalità, dove il tempo non è una successione lineare di istanti ma una dimensione fondamentale del nostro essere-nel-mondo.
Il suo ostinato rifiuto delle convenzioni del mondo dell’arte non è solo una posizione ribelle. È una posizione etica che mette profondamente in discussione i nostri modi di produzione e ricezione dell’arte. Quando sceglie di presentare una lettera di rifiuto come opera d’arte, non si limita a provocare, ci costringe a ripensare la nostra relazione con l’arte e la sua presentazione.
Le installazioni di Althoff funzionano come macchine del tempo difettose, creando cortocircuiti temporali dove diverse epoche si scontrano. In questi spazi, lo spettatore diventa un archeologo del presente, scavando tra le stratificazioni di significato per costruire il proprio racconto. Questo approccio ricorda il concetto di “montaggio” caro ad Aby Warburg, dove diverse immagini ed epoche sono giustapposte per creare nuove costellazioni di senso.
La dimensione narrativa del suo lavoro è particolarmente affascinante. Le sue opere suggeriscono storie senza mai narrarle completamente, lasciando allo spettatore il compito di colmare i vuoti. Questo approccio frammentario al racconto evoca le teorie di Walter Benjamin sulla storia come costellazione di momenti piuttosto che come progressione lineare.
L’influenza dell’espressionismo tedesco è evidente nel suo lavoro, ma Althoff non si limita a riciclare uno stile storico. Piuttosto crea una sintesi unica che incorpora anche elementi dell’arte medievale, dell’illustrazione per bambini e dell’arte popolare. Questa fusione di stili crea un linguaggio visivo unico che trascende le categorie tradizionali della storia dell’arte.
La presenza ricorrente di figure religiose nella sua opera, monaci, rabbini, mistici, non è aneddotica. Essa testimonia una ricerca spirituale che attraversa tutto il suo lavoro, una ricerca di trascendenza in un mondo disincantato. Questa dimensione spirituale non è senza richiamare le riflessioni di Giorgio Agamben sulla profanazione come atto di resistenza nella società contemporanea.
L’arte di Althoff ci ricorda che la memoria non è un semplice deposito di immagini ed esperienze, ma un processo attivo di ricostruzione e reinterpretazione. Le sue opere ci invitano a ripensare la nostra relazione con il tempo, con la comunità e con l’arte stessa. In un mondo ossessionato dalla novità e dalla rottura, ci ricorda che il passato non è mai davvero passato, che continua a infestare il nostro presente come un fantasma benevolo.
Di fronte alle sue opere, siamo come quelle figure che dipinge, sospesi tra diverse temporalità, cercando il nostro posto in una storia che si rifiuta di cristallizzarsi. La sua arte ci ricorda che la vera contemporaneità forse non risiede nella corsa sfrenata verso il futuro, ma nella nostra capacità di mantenere un dialogo fecondo con il passato, di riconoscere gli echi e le risonanze che attraversano il tempo.
E se pensate che io sia troppo indulgente con questo artista che sembra trarre un piacere malizioso dal turbare le convenzioni, sappiate che è proprio questo ciò di cui il nostro mondo dell’arte ha bisogno: creatori che osano mettere in discussione le nostre certezze, che ci costringono a guardare oltre le apparenze, che trasformano il nostro rapporto con l’arte in un’esperienza vivente e destabilizzante.
L’arte di Althoff è un antidoto necessario alla crescente standardizzazione del mondo dell’arte contemporanea. In un contesto in cui le opere sono sempre più concepite per i social network e le fiere d’arte, il suo approccio intransigente e personale è un salutare promemoria che l’arte può ancora essere un’esperienza profondamente trasformativa. Il suo lavoro mantiene viva la possibilità di un’esperienza autentica, anche se questa deve passare attraverso la deviazione del sogno e della nostalgia.
















