Ascoltatemi bene, banda di snob, è giunto il momento di parlare di Anish Kapoor (nato nel 1954), quell’artista che ci fa oscillare tra estasi ed esasperazione da quasi mezzo secolo. Lasciate che vi dica perché questo mago dello spazio, questo manipolatore di percezioni, merita di essere approfondito, anche se alcuni di voi preferiscono ancora contemplare i loro ritratti di famiglia Luigi XVI convincendosi che l’arte si sia fermata con Boucher.
Anish Kapoor si erge come un colosso dai piedi in acciaio inossidabile, e sto pesando bene le mie parole. Non è un caso che questo figlio di un padre indiano e di una madre ebrea irachena sia arrivato ai vertici dell’arte mondiale. Ma fermiamoci un attimo su ciò che davvero rende unica la sua singolarità, al di là delle cifre vertiginose del mercato dell’arte e dei commissari d’asta sudati.
La prima caratteristica che definisce l’opera di Kapoor è la sua relazione ossessiva con il vuoto e lo spazio. E quando dico ossessiva, non parlo del tipo di fissazione che certi collezionisti hanno per il loro ultimo acquisto da 50.000 euro che nemmeno hanno capito. No, parlo di una ricerca filosofica profonda che ricorda i concetti di Martin Heidegger sull’essere e il nulla. Prendete “Cloud Gate” (2006) a Chicago, soprannominato “The Bean” da coloro che sentono il bisogno di ridurre tutto al loro livello di comprensione culinaria. Questa monumentale opera di 100 tonnellate di acciaio lucido non è solo un punto per selfie per influencer in cerca di like. È una meditazione sul vuoto che contiene tutto, una riflessione, nel senso più letterale e figurato, sul nostro posto nello spazio urbano. Maurice Merleau-Ponty probabilmente avrebbe avuto una crisi di epifania davanti a questa opera che incarna perfettamente la sua fenomenologia della percezione.
Quando Kapoor crea queste superfici riflettenti che deformano e inghiottono lo spazio, non sta solo giocando con i nostri sensi come un prestigiatore della domenica. Ci costringe a confrontarci con la nostra percezione della realtà, a mettere in discussione ciò che pensiamo di sapere del mondo che ci circonda. Qui l’esperienza è viscerale, fisica, impossibile da ridurre a un jpeg su Instagram.
La seconda caratteristica del suo lavoro è il suo uso rivoluzionario del colore come materia. E qui, miei cari amici, entriamo in un territorio che farebbe tremare Yves Klein nella tomba. Kapoor non si limita ad applicare il colore su una superficie come un pittore della domenica che segue tutorial su YouTube. No, fa del colore un’entità fisica, una presenza quasi mistica. Le sue opere monocrome, in particolare quelle che usano quel rosso profondo che è diventato la sua firma, non sono semplici esercizi di stile. Sono manifestazioni di ciò che Gaston Bachelard chiamava “materia-durata”, una fusione tra sostanza e tempo.
Prendete “Svayambh” (2007), questa massa di cera rossa che si muove lentamente attraverso gli spazi espositivi come un leviatano sanguinante. Quest’opera non è solo una performance tecnica impressionante, anche se indubbiamente lo è. È una meditazione sul tempo, sulla trasformazione, sulla violenza insita in ogni creazione. Il colore qui non è un semplice attributo estetico, è l’opera stessa, la sua carne, il suo sangue, la sua ragione d’essere. È ciò che Gilles Deleuze avrebbe chiamato un “blocco di sensazioni”, un’esperienza che trascende la semplice rappresentazione per diventare una realtà autonoma.
E non fatemi iniziare sul suo uso del Vantablack, quel materiale che assorbe il 99,965% della luce visibile. Quando Kapoor ottenne i diritti esclusivi per il suo uso artistico, alcuni urlarono allo scandalo, alla privatizzazione del colore. Ma queste critiche trascurano l’essenziale: non è la proprietà che conta, ma ciò che se ne fa. E ciò che Kapoor ne fa è creare abissi visivi che sfidano la nostra stessa comprensione di cosa significa vedere. È come se Kazimir Malevich avesse avuto accesso alla tecnologia del XXI secolo, il suo “Quadrato nero su fondo bianco” appare quasi timido al confronto.
L’impatto di Kapoor sull’arte contemporanea è paragonabile a quello di Richard Serra per la scultura monumentale o di James Turrell per l’arte della luce. Ma dove Serra impone e Turrell illumina, Kapoor trascende. Le sue installazioni non sono semplicemente collocate nello spazio, lo trasformano, lo deformano, lo reinventano. È ciò che Peter Sloterdijk chiamerebbe una “sférologia” artistica, un’esplorazione degli spazi in cui esistiamo e delle bolle che creiamo intorno a noi.
Kapoor crea esperienze che resistono alla riproduzione digitale. In un mondo in cui tutto è istantaneamente condivisibile, apprezzabile, consumabile, le sue opere richiedono una presenza fisica, un confronto diretto. Ci ricordano che l’arte non è solo un’immagine su uno schermo, ma un’esperienza che coinvolge tutto il nostro essere. È ciò che Roland Barthes avrebbe chiamato il “punctum” dell’opera, quel dettaglio che ci trafigge, ci penetra, ci trasforma.
Prendiamo “Memory” (2008) al Guggenheim. Questa installazione monumentale in acciaio corten, che sembra contemporaneamente emergere e sprofondare nelle mura del museo, non è solo un’impresa tecnica. È una meditazione sulla memoria stessa, su come i nostri ricordi occupano lo spazio mentale, si deformano, si trasformano. È del Jacques Derrida in tre dimensioni, una decostruzione fisica delle nostre certezze sullo spazio e sulla percezione.
E che dire delle sue opere più recenti, come “Descension” (2014), quel vortice d’acqua nera che sembra risucchiare il pavimento stesso del museo? È del Georges Bataille in azione, una rappresentazione fisica dell’informe, di quella forza che sfida i nostri tentativi di categorizzazione e di ordinamento del mondo. È l’arte che non si limita a rappresentare il caos, ma che lo crea, lo controlla, lo trasforma in esperienza estetica.
Kapoor crea anche opere che funzionano simultaneamente su più livelli. A livello immediato, viscerale, sono spettacolari, seducenti, impossibili da ignorare. Ma più ci si sofferma, più si scoprono strati di significato, risonanze con la storia dell’arte, la filosofia, la scienza. È ciò che Theodor Adorno avrebbe chiamato il carattere enigmatico dell’arte, quella capacità di essere contemporaneamente evidente e impenetrabile.
Il suo uso dei materiali riflette questa complessità. L’acciaio lucidato non è solo un materiale high-tech, è un mezzo per mettere in discussione la natura stessa della rappresentazione, come faceva Velázquez in “Las Meninas”, ma con gli strumenti del XXI secolo. La cera rossa non è solo un mezzo scultoreo, è una metafora della trasformazione, della mutabilità, della violenza insita in ogni creazione. È ciò che Joseph Beuys avrebbe potuto fare se avesse avuto accesso alle ultime tecnologie.
Ma non fatevi ingannare, Kapoor non è un semplice erede di queste tradizioni. Le reinventa, le trasforma, le spinge ai loro limiti. Quando crea un’installazione più che monumentale e immersiva come “Leviathan” (2011) al Grand Palais di Parigi, non si limita a riempire lo spazio, lo reinventa. È ciò che Michel Foucault avrebbe chiamato un’eterotopia, uno spazio che esiste sia dentro che fuori dalla realtà quotidiana.
Il suo lavoro con l’architettura, in particolare in progetti come la torre Orbit a Londra, ufficialmente denominata l’ArcelorMittal Orbit, per le Olimpiadi di Londra 2012, dimostra la sua comprensione di ciò che Rem Koolhaas chiama la “bigness”, quella scala in cui l’architettura diventa qualcos’altro, qualcosa che supera la semplice funzione o estetica. È arte che non ha paura della sua ambizione, che non si scusa per voler essere monumentale.
Ed è forse qui che risiede la vera importanza di Kapoor: nella sua capacità di creare un’arte che non chiede il permesso di esistere. Un’arte che si impone non con la forza bruta, ma con la sua capacità di trasformare la nostra percezione del mondo. È ciò che Guy Debord avrebbe chiamato un détournement dello spettacolo, ma un détournement che non nega il piacere estetico, lo abbraccia e lo trascende.
Quindi sì, si può criticare Kapoor per il suo monopolio sul Vantablack, per l’aspetto spettacolare di alcune sue opere, per la sua presenza dominante nel mercato dell’arte. Ma sarebbe perdere di vista l’essenziale: è uno dei pochi artisti contemporanei che riescono a creare opere che cambiano fondamentalmente il nostro modo di vedere il mondo. E non è forse questo il ruolo dell’arte?
Kapoor ci ricorda l’importanza dell’esperienza diretta, fisica, dell’arte. Le sue opere sono manifesti per un’arte che non si limita a essere vista, ma che deve essere vissuta, sentita, sperimentata. Anish Kapoor non è semplicemente un artista che crea oggetti straordinari, anche se lo fa con una maestria incomparabile. È un filosofo che usa lo spazio, la materia e la luce come altri usano le parole. Le sue opere sono domande poste alla nostra percezione, sfide lanciate alla nostra comprensione del mondo, inviti a vedere in modo diverso.
E se alcuni persistono a vedere nel suo lavoro solo specchi deformanti e macchie di colore, peggio per loro. Come diceva Marcel Duchamp, sono coloro che guardano a fare i quadri. Nel caso di Kapoor, sono quelli che osano veramente guardare che scoprono interi universi nelle sue opere. Il resto può sempre tornare a contemplare i propri ritratti di famiglia fingendo che l’arte non sia evoluta da tre secoli.
















