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Karen Kilimnik: L’alchimista del caos culturale

Pubblicato il: 6 Dicembre 2024

Di: Hervé Lancelin

Categoria: Critica d’arte

Tempo di lettura: 5 minuti

Karen Kilimnik trasforma il caos in un commento sociale incisivo, creando ambienti immersivi dove fotocopie, abiti e oggetti si intrecciano in un disordine calcolato. La sua tecnica pittorica, spesso definita goffa, è in realtà una strategia sofisticata di decostruzione culturale.

Ascoltatemi bene, banda di snob, è giunto il momento di parlare di Karen Kilimnik, nata nel 1955 a Filadelfia, quell’artista che ridefinisce i confini tra alta cultura e cultura popolare con un’insolenza magistrale. Se pensate di aver capito tutto della sua arte riducendola a scarabocchi da adolescente o a “scatter art” superficiale, sbagliatevi. Kilimnik è una maga che trasforma il caos in un commento sociale incisivo, un’alchimista che trasmuta il kitsch in oro concettuale.

Nelle sue installazioni degli anni 1980-1990 creava già ambienti immersivi che facevano a pezzi le nostre certezze estetiche. Prendete “The Hellfire Club Episode of the Avengers” (1989), quell’opera emblematica dove fotocopie, vestiti e oggetti vari si intrecciano in un apparente disordine. Ma non lasciatevi ingannare: non è il covo di una fanatica disturbata, è una dissezione chirurgica del nostro rapporto con le immagini e la cultura popolare. Walter Benjamin parlava dell’aura dell’opera d’arte nell’era della sua riproducibilità tecnica, ma Kilimnik va oltre. Non si limita a mettere in discussione l’autenticità, crea una nuova forma di aura dai detriti della cultura di massa.

Le installazioni di Kilimnik funzionano come macchine per decostruire le nostre gerarchie culturali. Accumula riferimenti eterogenei con la precisione di un archeologo del presente: serie televisive britanniche, balletti classici, crimini famosi, moda haute couture, tutto passa sotto la sua lente. Questa accumulazione non è casuale. Rispecchia ciò che Claude Lévi-Strauss chiamava “pensiero selvaggio”, quella capacità di creare senso arrangiandosi con i materiali disponibili. Solo che Kilimnik si arrangia con le icone del nostro tempo, trasformando il bricolage culturale in un commento sociale tagliente.

La sua tecnica pittorica, spesso definita goffa da critici miopei, è in realtà una strategia sofisticata. Quando dipinge i suoi ritratti di celebrità o i suoi paesaggi romantici con un’apparente goffaggine, non si limita a copiare, ma reinventa. I suoi pennellate approssimative e i suoi colori talvolta sgargianti sono scelte deliberate che richiamano le teorie di Jacques Rancière sulla “condivisione del sensibile”. Lei sconvolge i codici di rappresentazione stabiliti, creando una nuova estetica che sfida le convenzioni del “buon gusto”.

Prendiamo le sue serie sui balletti classici. Non sono semplici omaggi nostalgici a un’arte tradizionale. Mescolando l’iconografia del balletto con elementi contemporanei, crea quello che Roland Barthes avrebbe chiamato un “testo” visivo complesso in cui i significati si moltiplicano e si scontrano. I tutù e le punte diventano simboli ambigui, allo stesso tempo venerati e sovvertiti. È una critica sottile del nostro rapporto con la tradizione e con l’autorità culturale.

Il modo in cui Kilimnik tratta la cultura popolare è particolarmente rivelatore. Lei non cade mai nella trappola dell’ironia facile o dello snobismo al contrario. Al contrario, affronta i suoi soggetti con un mix unico di sincera fascinazione e distanza critica. Le sue installazioni basate sulla serie “The Avengers” non sono solo omaggi da fan, ma esplorazioni complesse della nostra relazione con le mitologie contemporanee. Diana Rigg come Emma Peel diventa sotto il suo pennello una figura tanto significativa quanto una Madonna del Rinascimento.

L’uso che Kilimnik fa della violenza mediata merita di essere discusso. I suoi riferimenti agli omicidi di Charles Manson o le sue installazioni che evocano scene del crimine non sono provocazioni gratuite. Si inseriscono in una tradizione teorica che risale a Georges Bataille, esplorando i legami complessi tra bellezza e violenza, glamour e orrore. Giustapponendo elementi della cultura pop con riferimenti alla violenza reale, crea un commento pungente sulla nostra società mediatica che trasforma tutto in spettacolo.

La dimensione temporale nell’opera di Kilimnik è affascinante. Mescola le epoche con una libertà disarmante: un ritratto di Leonardo DiCaprio può stare accanto a una riproduzione di Gainsborough, una scena di balletto classico può essere invasa da riferimenti alla moda contemporanea. Non è un postmodernismo facile, è una riflessione profonda su quello che Walter Benjamin chiamava il “tempo-ora”, quella capacità di far dialogare diverse temporalità in uno stesso spazio.

Il suo trattamento degli spazi espositivi è altrettanto rivoluzionario e innovativo. Le sue installazioni trasformano le gallerie in ambienti immersivi dove i confini tra arte e vita quotidiana si sfumano. Crea quello che Michel Foucault avrebbe chiamato “eterotopie”, spazi altri dove le regole abituali della rappresentazione sono sospese. Un angolo di galleria può diventare un boudoir del XVIII secolo, una scena del crimine o un set di una serie TV, spesso tutto questo insieme. Le sue installazioni non sono semplici accumuli di oggetti, ma ambienti accuratamente orchestrati che creano quello che Maurice Merleau-Ponty avrebbe chiamato “campi fenomenali”, spazi dove la nostra percezione abituale del mondo viene sospesa e riconfigurata. Un semplice angolo di galleria può diventare un portale verso altri mondi, altri tempi, altre possibilità.

Il rapporto di Kilimnik con la moda e il glamour è particolarmente complesso. I suoi ritratti di modelle come Kate Moss non sono semplici celebrazioni della bellezza commerciale. Funzionano come commenti sottili su quella che Guy Debord chiamava la società dello spettacolo. Dipingendo queste icone della moda in uno stile deliberatamente imperfetto, lei rivela le crepe nella facciata del glamour, creando al contempo una nuova forma di bellezza più ambigua.

Le ultime opere di Kilimnik continuano a esplorare questi temi con un’intensità rinnovata. Le sue installazioni recenti, con le loro audaci combinazioni di riferimenti storici e contemporanei, i loro giochi sull’autenticità e la copia, creano ciò che Jean Baudrillard avrebbe chiamato “simulacri”, non copie di originali, ma originali di un nuovo tipo, che mettono in discussione la stessa nozione di originalità.

Kilimnik crea opere che operano su più livelli simultaneamente. Per lo spettatore poco informato, le sue installazioni possono sembrare caotiche o superficiali. Ma per chi si prende il tempo di guardare attentamente, rivelano strati successivi di significato, come un manoscritto medievale le cui pagine sono state sovrapposte da graffiti contemporanei.

Il suo uso di materiali “poveri” come fotocopie, ritagli di riviste o oggetti trovati non è una scelta predefinita ma una strategia consapevole che riecheggia le teorie di Theodor Adorno sulla cultura di massa. Trasformando questi materiali banali in opere d’arte complesse, mostra come la cultura popolare possa essere riappropriata e sovvertita.

Karen Kilimnik appare come un’artista molto più complessa e sovversiva di quanto i suoi detrattori vogliano vedere. La sua opera costituisce una critica acuta ai nostri sistemi di valori culturali, creando al contempo una nuova forma di espressione artistica che trascende le tradizionali dicotomie tra arte alta e bassa. Ci mostra che la vera radicalità nell’arte non risiede nel rifiuto ostentato delle convenzioni, ma nella loro sovversione sottile e sistematica. La sua capacità di trasformare il caos apparente in un commento sociale sofisticato, di far dialogare epoche e registri culturali diversi, la rende una delle artiste più importanti del nostro tempo.

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Riferimento/i

Karen KILIMNIK (1955)
Nome: Karen
Cognome: KILIMNIK
Genere: Femmina
Nazionalità:

  • Stati Uniti

Età: 70 anni (2025)

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