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Martedì 18 Novembre

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Katherine Bernhardt e l’anarchia gioiosa del pop

Pubblicato il: 15 Aprile 2025

Di: Hervé Lancelin

Categoria: Critica d’arte

Tempo di lettura: 10 minuti

Katherine Bernhardt trasforma l’universo consumistico in un carnevale pittorico sfavillante. Le sue tele esuberanti, dove si accatastano angurie, sigarette e Pantere Rosa, orchestrano una sfilata delirante di oggetti in uno spazio privo di gerarchie, rivelando uno sguardo di sconvolgente freschezza sul nostro mondo saturo di immagini.

Ascoltatemi bene, banda di snob: Katherine Bernhardt non è l’artista che credete di conoscere. Le sue tele esuberanti, traboccanti di colori aciduli e immagini tratte dal nostro universo consumistico, non sono semplicemente composizioni ludiche di oggetti pop. No, ciò che Bernhardt ci offre è una decostruzione gioiosa delle gerarchie estetiche, una gioia cromatica che fa esplodere le convenzioni artistiche con una disinvoltura deliberata che nasconde una profondità insospettata. Questa originaria del Missouri, considerata da alcuni come la “cattiva ragazza” dell’arte contemporanea, sfugge a ogni facile categorizzazione, non è né del tutto pop, né completamente astratta, né veramente figurativa. Occupa un territorio pittorico singolare, uno spazio dove il caos regna sovrano ma in cui ogni elemento trova misteriosamente il suo posto.

Nel suo atelier di St. Louis, questa artista ha sviluppato un approccio pittorico che alcuni definirebbero caotico, altri liberatorio. Bernhardt lavora come una forza della natura, una tempesta colorata che si abbatte sulla tela con un’energia quasi meteorologica. Davanti alle sue immense tele adagiate sul pavimento, alcune lunghe fino a dieci metri, come quella presentata ad Art Basel Unlimited nel 2018, traccia con lo spray i contorni approssimativi di angurie, sigarette, Pantere Rosa o squali martello, prima di riversarvi acrilico diluito che si stende, si diffonde e forma pozze multicolori. Non combatte gli incidenti, li provoca, li accoglie, danza con loro. L’acqua diventa la sua complice essenziale, come lei stessa confessa: “Amo l’acqua nelle mie pitture. L’acqua lavora sulle mie pitture per me, e le trasforma.” Questa collaborazione con gli elementi, questa accettazione del caso, conferisce alle sue opere una dimensione quasi atmosferica, come se stessimo osservando un fenomeno meteorologico strano piuttosto che un quadro.

Questo metodo richiama ciò che Georges Bataille chiama in L’Expérience intérieure la “sovranità”, quella parte dell’esistenza che sfugge alla razionalità utilitaristica e si abbandona al gioco, alla spesa improduttiva. “Non posso dipingere qualcosa di utile”, sembra dirci Bernhardt attraverso le sue opere dove si accumulano alla rinfusa Doritos, pezzi di anguria e telefoni cellulari, come in una bancarella caotica di un supermercato dopo un terremoto. Per Bataille, la sovranità è quella parte di noi che sfida l’ordine stabilito, che rifiuta la sottomissione alle finalità produttive. I dipinti di Bernhardt celebrano proprio questa sovranità, questa libertà sfrenata che si affranca dai vincoli della “buona pittura” [1].

L’approccio di Bernhardt richiama anche ciò che Susan Sontag descriveva nelle sue Notes on Camp come una sensibilità che “vede tutto tra virgolette” e che valorizza ciò che è “buono perché è orribile” [2]. C’è qualcosa di indubbiamente kitsch nel modo in cui Bernhardt si appropria di questi simboli di consumismo pacchiano, i Crocs, Pac-Man, E.T., Garfield, le angurie, gli smartphone, per trasfigurarli in un vero e proprio carnevale pittorico. Questi totem della nostra contemporaneità consumista, lei li strappa alla loro banalità per infondere loro una vita nuova, esplosiva, vibrante. Non si limita a rappresentare questi oggetti, orchestra la loro parata delirante in uno spazio privo di gerarchia visiva o simbolica. In questo gioioso caos visivo, una barra di Xanax può affiancare un personaggio di cartone animato, un pacchetto di Doritos può fluttuare accanto a una sigaretta o a uno squalo martello, tutti trattati con lo stesso entusiasmo formale, la stessa esultanza cromatica. È proprio questa assenza di gerarchia che conferisce alla sua opera una dimensione profondamente contemporanea, riflettendo un mondo in cui le categorie tradizionali crollano, dove le distinzioni tra alta e bassa cultura si attenuano.

Ma non illudetevi: dietro l’apparente noncuranza tecnica si nasconde una padronanza consummata del mezzo. Come sottolinea il suo gallerista Phil Grauer: “La gente è semplicemente affascinata dalla sua passione e ammira il modo in cui le sue opere sono allo stesso tempo intrinsecamente imperfette e intrinsecamente belle, dipinte con una maestria perfetta”. Questa tensione tra controllo e abbandono conferisce alle sue opere un’energia grezza che conquista immediatamente.

A differenza di molti artisti contemporanei che costruiscono faticosamente un discorso teorico intorno alle loro opere, Bernhardt rifiuta ostinatamente di intellettualizzare la sua pratica. Lo afferma senza mezzi termini in un’intervista per Artspace nel 2015: “Penso che la buona pittura non abbia bisogno di tutto questo. Penso che i migliori pittori non intellettualizzino la propria arte, semplicemente fanno delle cose. Si tratta più di scelte di colori e combinazioni di colori.” Questa posizione non è una semplice provocazione, ma una vera e propria etica artistica. Rifiuta i discorsi pomposi che spesso circondano l’arte contemporanea, preferendo attenersi all’essenziale: il colore, la forma, la materia.

Quando le si chiede perché dipinge oggetti della vita quotidiana, risponde con una semplicità disarmante: “Hanno dei bei colori e delle belle forme. La carta igienica è un ovale quadrato. Una sigaretta è una linea. Una pinna dorsale è un triangolo, così come un Dorito.” Questo approccio formale, quasi ingenuo, che riduce gli oggetti alle loro caratteristiche visive elementari, rivela uno sguardo di straordinaria freschezza sul nostro mondo saturo di immagini. Bernhardt possiede quella che lo scrittore Milan Kundera chiamava “la saggezza dell’incertezza”, quella capacità di vedere il mondo senza il filtro delle idee preconcette, delle teorie preconfezionate.

La pittura di Bernhardt ci ricorda anche ciò che Maurice Blanchot chiamava “lo spazio letterario”, un luogo in cui le cose sono liberate dalla loro utilità, dove esistono in una pura presenza. In Lo spazio letterario, Blanchot scrive che l’arte “non è la realtà delle cose, ma la loro metamorfosi, la loro non-realtà magnificata, il loro ritirarsi verso la purezza della loro essenza” [3]. Non è esattamente ciò che fa Bernhardt quando strappa gli oggetti quotidiani dal loro contesto funzionale per proiettarli nello spazio pittorico? Un Garfield, nelle sue tele, non è più un personaggio di fumetto, ma diventa una macchia arancione vibrante, un segno puro, scollegato dal suo significato iniziale.

Questa decontestualizzazione radicale mi richiama anche gli scritti dell’italiano Italo Calvino in La Macchina Letteraria, dove parla della capacità della letteratura di “straniare” gli oggetti quotidiani, rendendoli nuovamente visibili strappandoli alla loro banalità [4]. A forza di vedere angurie, squali o pacchetti di patatine, non li vediamo più realmente. Dipingendoli con questa strana combinazione di precisione e approssimazione, Bernhardt ci obbliga a guardarli di nuovo, a riscoprire la loro strana essenza.

Alcuni critici hanno visto nelle sue opere un commento sul consumismo americano. È possibile, ma Bernhardt stessa rifiuta questa lettura troppo ovvia. “Forse”, dice quando le viene suggerita un’interpretazione ecologica dei suoi squali che nuotano tra rotoli di carta igienica. Ciò che è certo è che i suoi dipinti catturano l’esperienza contemporanea in tutta la sua cacofonia visiva e sovraccarico di informazioni. In un mondo in cui siamo costantemente bombardati da immagini, loghi e merci, Bernhardt assorbe questo caos e lo trascrive sulle sue tele con un’energia frenetica che evoca la nostra esperienza quotidiana.

Il critico d’arte Christopher Knight ha scritto che i suoi dipinti mostrano “il mondo sommerso dal paradiso e dall’inferno dei prodotti di consumo”. Questa espressione coglie perfettamente l’ambivalenza suscitata dalle sue tele: celebrano la vitalità colorata della nostra cultura materiale suggerendo al contempo la frenesia alienante del nostro rapporto con gli oggetti. C’è qualcosa di profondamente americano in questa tensione tra meraviglia e critica, tra fascinazione e distanza.

Italo Calvino, ancora lui, parlava in Lezioni Americane delle qualità essenziali della letteratura del futuro: leggerezza, rapidità, esattezza, visibilità, molteplicità [5]. Non si potrebbe dire che i dipinti di Bernhardt incarnano proprio queste qualità? La leggerezza nel suo tocco fluido e acquoso, la rapidità nella sua esecuzione energica, l’esattezza nella sua sintesi delle forme, la visibilità nei suoi colori brillanti e la molteplicità nella sua giustapposizione di elementi disparati.

Il suo metodo di lavoro stesso rientra in questa molteplicità: Bernhardt è una collezionista compulsiva, una raccoglitrice di immagini e riferimenti, un’assorbitrice insaziabile di cultura visiva. È costantemente in movimento, fisicamente e intellettualmente. Come dice lei stessa: “Sono una gran lavoratrice e non mi fermo finché non sono esausta.” Questa energia frenetica si ritrova nei suoi dipinti, in composizioni che sembrano sempre sul punto di esplodere, di traboccare dalla cornice.

Dai suoi viaggi in Marocco, dove importa tappeti berberi per il suo negozio Magic Flying Carpets (avventura commerciale parallela alla sua carriera artistica), ai suoi soggiorni a Porto Rico, dove ha acquistato una casa brutalista a San Juan, assorbe le influenze cromatiche e formali di culture diverse. Questo nomadismo non è solo un semplice gusto per l’esotismo, ma un vero metodo di lavoro, un modo per alimentare costantemente il suo immaginario visivo. La sua casa rosa di St. Louis, diventata famosa dopo un reportage del New York Times, è essa stessa un’estensione del suo universo pittorico: un ambiente totale dove si accumulano opere d’arte, mobili vintage, oggetti trovati e tessuti colorati.

La sua tavolozza saturata evoca tanto i tessuti africani quanto i colori dei Caraibi, mentre il suo approccio al motivo ripetitivo richiama i tessuti batik e i tappeti marocchini. Questa geografia personale, questa cartografia affettiva si ritrova nelle sue tele: uno spazio dove i confini tra culture svaniscono, dove i riferimenti si mescolano liberamente, creando un nuovo esperanto visivo che parla a tutti senza distinzione di origine, età o classe sociale.

Con le sue stesse parole: “Cerco sempre di dipingere le cose più ovvie, le più trascurate, e di renderle divertenti o animate nelle mie pitture.” Questa ricerca del banale trasfigurato è al centro del suo approccio. Come i ready-made di Duchamp, i suoi dipinti ci invitano a ripensare la nostra relazione con gli oggetti quotidiani, ma con una sensualità e un’esuberanza che il maestro del concettuale non aveva.

Katherine Bernhardt è senza dubbio una delle poche artiste che riesce a catturare lo spirito del nostro tempo senza cadere nel cinismo o nella nostalgia. Non si lamenta della società dei consumi, la celebra trasfigurandola. Non piange la perdita di senso, crea nuove costellazioni significative a partire dai detriti culturali che ci circondano. E soprattutto, non si prende mai troppo sul serio, una qualità rara nel mondo dell’arte contemporanea.

I suoi dipinti ci ricordano ciò che Susan Sontag scriveva in Against Interpretation: “Al posto di un’ermeneutica, abbiamo bisogno di un’erotica dell’arte” [6]. Le tele di Bernhardt sono proprio questo: un’esperienza sensoriale diretta, un assalto cromatico che mette in corto circuito la nostra tendenza alla sovrainterpretazione. Ci invitano ad abbandonarci al piacere puro del colore e della forma, a ritrovare un rapporto ludico e sensuale con le immagini che popolano il nostro quotidiano.

Forse qui risiede la vera forza sovversiva della sua opera: nella sua capacità di re-incantare il nostro rapporto con il mondo materiale, di infondere gioia e straniamento nelle nostre interazioni con gli oggetti più banali. Decostruisce le gerarchie estetiche non attraverso un discorso teorico, ma con l’atto stesso del dipingere, con quel gesto democratico che mette sullo stesso piano E.T., un pacchetto di Doritos e un’anguria.

La sua serie di dipinti su E.T., presentata nella mostra “Done with Xanax” alla galleria Canada nel 2019, è emblematico di questo approccio. Il titolo stesso gioca sull’ambiguità tra un riferimento personale e un commento sulla cultura farmaceutica contemporanea. Dipingendo questo personaggio emblematico della cultura pop degli anni ’80, Bernhardt non fa semplicemente nostalgia; crea un ponte tra la sua infanzia e il nostro presente saturo di farmaci, ansia e rifugio nella cultura pop. Come ha scritto sua sorella Elizabeth in un testo che accompagna la mostra: “Katherine e E.T. hanno molto in comune… Crescendo in periferia, si è immediatamente identificata con E.T., che a sua volta è atterrato in un ambiente suburbano e non riusciva a capire come fuggirne pur soffrendo di un grande dolore esistenziale.”

In un mondo artistico spesso dominato dal concettuale austero o dal commento sociale didattico, Bernhardt ci ricorda che l’arte può essere allo stesso tempo critica e gioiosa, complessa e accessibile, sofisticata e immediata. Realizza questo raro tour de force: creare opere che parlano tanto ai bambini quanto ai collezionisti esperti, ai neofiti quanto ai critici navigati. Questa universalità non è frutto di un calcolo cinico, ma di un’autenticità fondamentale, di una fedeltà alla sua visione personale che trascende le divisioni abituali del mondo dell’arte.

Allora smettete di cercare messaggi nascosti in queste Pantere Rosa e fette di anguria. Lasciatevi piuttosto travolgere dall’onda cromatica, da questo tsunami di colori aciduli che annienta le gerarchie tra alta e bassa cultura. Perché se l’arte di Bernhardt ci dice qualcosa, è proprio che la vita contemporanea è un gioioso caos, e l’unica risposta possibile è abbracciare questa anarchia colorata con una risata liberatoria.


  1. Bataille, Georges. L’Esperienza interiore. Parigi: Gallimard, 1943.
  2. Sontag, Susan. “Note sul Camp” in Contro l’interpretazione e altri saggi. New York: Farrar, Straus and Giroux, 1966.
  3. Blanchot, Maurice. Lo spazio letterario. Parigi: Gallimard, 1955.
  4. Calvino, Italo. La macchina della letteratura. Parigi: Seuil, 1993.
  5. Calvino, Italo. Lezioni americane: promemoria per il prossimo millennio. Parigi: Gallimard, 1989.
  6. Sontag, Susan. “Contro l’interpretazione” in Contro l’interpretazione e altri saggi. New York: Farrar, Straus and Giroux, 1966.
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Riferimento/i

Katherine BERNHARDT (1975)
Nome: Katherine
Cognome: BERNHARDT
Genere: Femmina
Nazionalità:

  • Stati Uniti

Età: 50 anni (2025)

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