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Keith Haring : La rivoluzione attraverso il tratto

Pubblicato il: 19 Novembre 2024

Di: Hervé Lancelin

Categoria: Critica d’arte

Tempo di lettura: 7 minuti

Keith Haring (1958-1990) ha creato un linguaggio visivo universale con i suoi simboli emblematici – il bambino raggiante, il cane che abbaia, le figure danzanti. Trasformando la linea in un manifesto politico, è riuscito a riconciliare l’arte nell’era della sua riproducibilità tecnica con la sua aura originale.

Ascoltatemi bene, banda di snob, questa notte ho sognato che Keith Haring (1958-1990) e Marcel Duchamp giocavano a scacchi su un tavolo in Formica in un ristorante di Chinatown, mentre Madonna ballava “Holiday” con Andy Warhol e Jean-Michel Basquiat. Grace Jones, con il corpo dipinto dallo stesso Haring, serviva cocktail fluorescenti in bicchieri ornati di neonati radiosi. Era uno di quei sogni che ti ricordano perché l’arte è così vitale, così necessaria, così profondamente radicata nella nostra coscienza collettiva, e perché alcuni artisti trascendono la loro epoca per diventare icone senza tempo.

Alcuni di voi, comodamente seduti sulle vostre poltrone Luigi XVI, continuano a pensare che Haring fosse solo un graffitaro di seconda categoria, un artista commerciale che ha venduto la sua anima al capitalismo, un semplice agitatori di strada che ha avuto la fortuna di cavalcare l’onda del boom artistico degli anni ’80. Ma lasciate che vi dica una cosa: non avete capito nulla. Assolutamente niente. Haring era prima di tutto un rivoluzionario, un visionario che ha capito prima di chiunque altro che l’arte doveva uscire dalle gallerie climatizzate per invadere le strade, i corpi, le menti. Era il Che Guevara del pennello, il Robin Hood della creazione artistica.

La sua prima rivoluzione fu quella del linguaggio visivo. Creando un vocabolario universale di simboli, il bambino raggiante, il cane che abbaia, le figure danzanti, Haring riuscì in ciò che Walter Benjamin riteneva impossibile: conciliare l’arte nell’era della sua riproducibilità tecnica con la sua aura originaria. Le sue immagini divennero geroglifici moderni, riconoscibili come il logo della Coca-Cola, ma cariche di una potenza sovversiva che continua a interrogarci. Come avrebbe detto Umberto Eco, Haring creò una semiologia della resistenza, un sistema di segni che funziona simultaneamente come codice culturale e critica sociale.

Quello che mi piace di Haring è la sua capacità di trasformare la linea in un manifesto politico. I suoi disegni a gesso nella metropolitana di New York non erano semplici decorazioni per ravvivare il viaggio dei pendolari stanchi dopo la giornata di lavoro nelle torri di Manhattan. Erano atti di resistenza contro la privatizzazione dello spazio pubblico, contro la mercificazione dell’arte, contro l’elitarismo culturale che continua a intossicare il nostro mondo artistico. Come avrebbe detto Jacques Rancière, Haring redistribuì il sensibile, creando spazi di libertà dove regnava l’alienazione urbana. Ogni tratto di gesso era una dichiarazione di indipendenza, ogni disegno una piccola rivoluzione.

Haring creò un’arte che parla tanto ai bambini quanto agli intellettuali. Prendiamo il suo capolavoro “Crack is Wack” del 1986. A prima vista è un murale monumentale con un messaggio anti-droga semplice e diretto. Ma scavando più a fondo si scopre una critica tagliente al reaganismo, una denuncia dell’ipocrisia di una società che preferisce criminalizzare la povertà piuttosto che affrontarne le cause profonde. La semplicità apparente dello stile cela una complessità filosofica degna di Foucault: chi detiene il potere di decretare ciò che è socialmente accettabile? Chi decide cosa merita di essere mostrato o nascosto nello spazio pubblico? Ogni linea di quest’opera è una domanda sulle strutture di potere che modellano la nostra società.

E non parlatemi della sua serie “Andy Mouse”, in cui trasforma Warhol in un Topolino capitalista. È puro genio, una metafora visiva che cattura perfettamente l’ambiguità della pop art e il suo rapporto complesso con il commercio. È divertente, intelligente, sovversivo, tutto ciò che l’arte contemporanea dovrebbe essere ma troppo spesso non è.

La seconda rivoluzione di Haring fu il suo modo di ripensare il rapporto tra arte e commercio. Sì, ha inaugurato il Pop Shop. Sì, ha collaborato con i marchi. Sì, ha creato t-shirt e spille. Ma a differenza di alcuni artisti contemporanei che si limitano a trasformare la propria firma in un marchio registrato pur pretendendo di fare arte “impegnata”, Haring ha usato il commercio come un cavallo di Troia per infiltrarsi nel sistema che criticava. Il suo Pop Shop non era solo un negozio, era una performance situazionista, un’opera totale che trasformava l’atto d’acquisto in un gesto politico. Era Guy Debord che incontrava Andy Warhol in una danza macabra del capitalismo tardo.

Gli ultimi anni della sua vita, quando l’AIDS decimava la comunità artistica newyorkese come una piaga biblica, Haring intensificò il suo impegno. Le sue opere divennero più oscure, più urgenti, come se la vicinanza della morte avesse amplificato la sua rabbia creativa. Trasformò la propria mortalità in un’arma politica, usando la sua arte per denunciare l’inerzia criminale del governo di fronte all’epidemia. Come scriveva Susan Sontag, la malattia è una metafora, ma Haring la trasformò in un grido di battaglia. Le sue ultime opere sono testimonianze commoventi di quell’epoca, documenti storici che ci ricordano che l’arte può essere ben più di una semplice merce decorativa.

La sua collaborazione con William Burroughs nel 1988 è particolarmente rivelatrice. Insieme crearono una serie di opere apocalittiche dove i virus si trasformano in demoni e le figure umane sono trafitte da simboli di morte. Era un Hieronymus Bosch per l’era dell’AIDS, una danza macabra moderna che continuerà a infestare le nostre coscienze molto tempo dopo che gli ultimi dipinti si saranno asciugati.

Posso già sentire alcuni di voi bisbigliare che sopravvaluto la portata politica della sua opera. Che i suoi disegni sono troppo semplici, troppo diretti per essere davvero sovversivi. Che il suo stile è stato così tanto copiato che è diventato una caricatura di se stesso. Ma è proprio questa semplicità a renderli forti. In un mondo saturo di immagini, dove siamo bombardati costantemente da stimoli visivi, Haring creò un linguaggio visivo che attraversa le frontiere di classe, razza, genere. Come diceva Roland Barthes, il mito è una parola, e Haring creò una mitologia per il nostro tempo. Una mitologia che continua a risuonare con una forza sorprendente nella nostra epoca di social network e ansia climatica.

Guardate come le sue immagini circolano oggi su Instagram, TikTok e altre piattaforme digitali. Hanno una viralità naturale che i professionisti del marketing tenterebbero invano di riprodurre. Perché? Perché portano in sé un’autenticità rara, un’urgenza che trascende le mode e le epoche. I giovani attivisti per il clima si appropriano dei suoi codici visivi perché vi riconoscono la stessa volontà di scuotere il sistema dall’interno.

Più di trent’anni dopo la sua morte, la sua influenza è più visibile che mai. Dalle favelas di Rio alle gallerie di Chelsea, dai muri di Berlino alle strade di Tokyo, il suo stile è costantemente riappropriato, remixato, reinventato. Ma al di là dell’estetica, è la sua visione radicale dell’arte come forza di trasformazione sociale che continua a ispirare le nuove generazioni. In un’epoca in cui l’arte contemporanea si sta annegando nel proprio narcisismo, dove le fiere d’arte sembrano convention di banchieri, dove gli NFT delle scimmie si vendono per milioni mentre gli artisti di strada sono criminalizzati, abbiamo più che mai bisogno della brutalità sincera di Haring.

La sua collaborazione con artisti come LA II (Angel Ortiz) mostra anche la sua profonda comprensione della necessità di creare ponti tra diverse comunità artistiche. Molto prima che diversità e inclusione diventassero parole di moda nel mondo dell’arte, Haring praticava una forma autentica di collaborazione transculturale. Non era appropriazione culturale, ma scambio e dialogo.

I suoi murales negli ospedali pediatrici, i suoi laboratori nelle scuole pubbliche, i suoi interventi negli spazi urbani abbandonati, tutto ciò testimonia una visione dell’arte come servizio pubblico, come bene comune. Non aspettava che le istituzioni venissero da lui, andava lì dove la gente viveva, lavorava, soffriva. Era un artista che capiva che l’arte non è un privilegio ma un diritto fondamentale.

Allora la prossima volta che incrocerete uno dei suoi disegni su una t-shirt o su un muro, non limitatevi a vederlo come un semplice logo commerciale. Guardate più attentamente. In ogni linea, in ogni figura danzante, in ogni bambino radioso, c’è un invito alla rivoluzione. Una rivoluzione che inizia dall’atto più semplice e radicale: disegnare su un muro per dire “esisto, esistiamo, e non ci taceremo”.

La tragedia della sua morte prematura non deve farci dimenticare la gioia che irradia dalla sua opera. Anche i suoi pezzi più cupi pulsano di un’energia vitale contagiosa. Forse è proprio questo il suo più grande capolavoro: aver creato un’arte che celebra la vita affrontando allo stesso tempo i suoi aspetti più oscuri, un’arte che danza sul bordo dell’abisso ricordandoci perché la danza è necessaria.

Keith Haring non era solo un artista. Era un sismografo che registrava i tremori del suo tempo, un profeta che annunciava le rivoluzioni a venire, uno sciamano urbano che trasformava i muri di cemento in tele di resistenza. E se la sua arte ci parla ancora oggi con tanta forza, è perché ha avuto il coraggio di trasformare la sua vita in opera d’arte, la sua arte in arma politica, e la sua morte in testamento per le generazioni future. In un mondo che a volte sembra aver perso la sua anima, Haring ci ricorda che l’arte può ancora essere una forza di cambiamento, una fonte di speranza, un atto di resistenza gioiosa contro le forze dell’oscurità.

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Riferimento/i

Keith HARING (1958-1990)
Nome: Keith
Cognome: HARING
Genere: Maschio
Nazionalità:

  • Stati Uniti

Età: 32 anni (1990)

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