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La bianchezza silenziosa di Edmund de Waal

Pubblicato il: 5 Gennaio 2025

Di: Hervé Lancelin

Categoria: Critica d’arte

Tempo di lettura: 7 minuti

Edmund de Waal trasforma la porcellana in poesia visiva, creando installazioni dove ogni vaso diventa una sillaba in un verso silenzioso. Discendente di una famiglia ebrea che ha perso tutto durante la Shoah, la sua opera esplora l’esilio e la memoria, trasformando ogni vetrina in un microcosmo della storia.

Ascoltatemi bene, banda di snob! Edmund de Waal (nato nel 1964) non è solo un semplice ceramista diventato il beniamino del mercato dell’arte contemporanea. No, è molto di più. Lo definirei un archeologo della memoria, un esploratore ossessivo degli spazi vuoti, un maestro del minimalismo che fa cantare il silenzio.

Iniziamo con la sua prima ossessione: la porcellana bianca. Mentre alcuni collezionisti della Rive Droite parigina si estasiavano davanti a NFT senza capire cosa stessero acquistando, de Waal ha perseguito per decenni una ricerca quasi mistica con questo materiale. Viaggia fino a Jingdezhen in Cina, si immerge negli archivi di Dresda, esplora gli angoli più oscuri della storia europea, tutto questo per cosa? Per comprendere l’essenza stessa di questa materia che lo ossessiona fin dall’età di cinque anni. È come se Ahab non avesse inseguito una balena bianca, ma la bianchezza stessa.

Le sue installazioni sono poesie visive che giocano con lo spazio come Mallarmé giocava con la pagina bianca. In queste vetrine meticolosamente allestite, ogni vaso, ogni ciotola, ogni cilindro di porcellana diventa una sillaba in un verso silenzioso. E quando dico silenzioso, non intendo il silenzio imbarazzato che regna durante le inaugurazioni in cui nessuno osa ammettere di non capire ciò che vede. Intendo il silenzio assordante di John Cage, quel silenzio che urla verità che a volte preferiamo non sentire.

Prendiamo la sua installazione “Signs & Wonders” alla cupola del Victoria & Albert Museum. Quaranta metri sopra il suolo, 425 vasi bianchi disposti su una mensola circolare rossa. Per gli ignoranti, sembra una vasellame mal sistemata. Per chi sa guardare, è una meditazione sulla storia, sulla memoria e sul passare del tempo. È come se Marcel Proust avesse scambiato la sua madeleine con una ciotola di porcellana.

Ma ciò che mi piace di più in de Waal è la sua seconda ossessione: l’esilio e la memoria. Discendente di una famiglia ebrea, gli Ephrussi, che ha perso tutto durante lo Shoah tranne una collezione di 264 netsuke giapponesi, porta dentro di sé questa storia come un fantasma benevolo. La sua opera è infestata da queste assenze, questi vuoti, questi spostamenti. Ogni vetrina diventa un microcosmo della storia del XX secolo, ogni composizione di porcellane una cartografia della diaspora.

C’è qualcosa di Walter Benjamin nel suo modo di collezionare e disporre gli oggetti. Come il filosofo tedesco, comprende che gli oggetti sono testimoni muti della storia, che ogni cosa porta in sé una costellazione di significati. Ma là dove Benjamin vedeva nei passaggi parigini le rovine della modernità, de Waal vede nelle sue installazioni le tracce di una storia più personale, più intima.

Le sue vetrine non sono semplicemente contenitori. Sono spazi liminali, zone di transizione tra passato e presente, tra presenza e assenza. Mi ricordano queste righe di Paul Celan: “C’era della terra in loro, e scavavano”. De Waal scava anche, non nella terra, ma nella memoria collettiva e personale, alla ricerca di qualcosa che possa somigliare a una verità.

Guardate la sua installazione “Library of exile” creata per la Biennale di Venezia nel 2019. Una biblioteca temporanea contenente 2000 libri di scrittori esiliati, le pareti coperte di porcellana bianca su cui sono incisi i nomi di grandi biblioteche perdute della storia. È un memoriale, sì, ma non uno di quei memoriali pomposi che ti dicono cosa pensare. È uno spazio di riflessione, di contemplazione, dove il silenzio parla più forte delle parole.

E poi c’è il suo modo di lavorare con lo spazio architettonico. In “Atmosphere” alla Turner Contemporary, crea quella che chiamerei una partitura spaziale. Le vetrine diventano misure, i vasi note, gli intervalli tra loro silenzi. È come se Morton Feldman si fosse messo alla ceramica. Lo spazio non è semplicemente occupato, è attivato, elettrizzato dalla presenza di questi oggetti apparentemente semplici.

Ciò che mi colpisce anche è la sua profonda comprensione della ripetizione. Non la ripetizione meccanica e sterile di alcuni minimalisti americani, ma una ripetizione più vicina al mantra buddista o al koan zen. Ogni vaso è identico ma unico, come ogni respiro è allo stesso tempo uguale e diverso dal precedente.

De Waal comprende qualcosa che pochissimi artisti contemporanei afferrano davvero: l’importanza del tempo nell’esperienza dell’arte. Le sue installazioni non sono fatte per essere fotografate e condivise su Instagram (anche se inevitabilmente lì finiscono). Richiedono tempo, attenzione, una forma di contemplazione attiva che è diventata rara nel nostro mondo iperconnesso.

Il suo lavoro è anche profondamente legato alla letteratura. Non sorprende che egli stesso sia uno scrittore notevole. Nelle sue installazioni come nei suoi libri, c’è la stessa attenzione al dettaglio, la stessa capacità di tessere narrazioni complesse da elementi apparentemente semplici. È come se Giorgio Morandi avesse deciso di scrivere romanzi invece di dipingere nature morte.

Alcuni critici gli rimproverano una forma di estetismo prezioso, un’eleganza troppo calcolata. Ma questi critici non colgono l’essenziale. L’eleganza in de Waal non è un fine in sé, è un mezzo per parlare di cose difficili con dignità. È come la poesia di Paul Celan che usa la bellezza del linguaggio per parlare dell’orrore indicibile.

La sua mostra al Musée Camondo di Parigi è particolarmente toccante. In questo luogo carico di storia, la famiglia Camondo è stata deportata e assassinata ad Auschwitz, de Waal installa le sue opere con una delicatezza che sfiora il sublime. Le vetrine dialogano con gli spazi vuoti della casa, creando ciò che Georges Didi-Huberman chiamerebbe “immagini sopravvissute”.

Penso spesso a questa frase di Theodor Adorno sull’impossibilità della poesia dopo Auschwitz. De Waal ci mostra che non solo è possibile, ma necessario continuare a creare bellezza, non nonostante la storia ma a causa di essa. Il suo lavoro è una forma di resistenza silenziosa, un atto di fede nel potere dell’arte di testimoniare.

La sua ossessione per la porcellana non è solo una questione estetica. La porcellana è un materiale che porta in sé una storia di desiderio, commercio, potere. Dalla Via della Seta alle collezioni dei Medici, dall’ossessione dei nazisti per la manifattura di Meissen alla rivoluzione culturale cinese, la porcellana è un testimone silenzioso della storia umana.

Nel suo lavoro c’è qualcosa che mi ricorda i “Passages” di Walter Benjamin. Questa idea che gli oggetti, gli spazi, i materiali portano in sé costellazioni di significati che vanno oltre la loro semplice presenza fisica. Ogni vetrina di de Waal è come una pagina strappata da un libro di storia non scritto.

Penso anche a ciò che diceva Susan Sontag sulla necessità di un'”erotica dell’arte” piuttosto che un’ermeneutica. Il lavoro di de Waal è profondamente sensuale, nonostante (o forse a causa di) il suo minimalismo apparente. C’è qualcosa di tattile, perfino carnale, nel suo modo di lavorare la porcellana.

Il suo utilizzo della vetrina come dispositivo espositivo è particolarmente interessante. La vetrina è allo stesso tempo ciò che protegge e ciò che mantiene a distanza, ciò che rivela e ciò che nasconde. È un po’ come la memoria stessa: preserva ma trasforma anche ciò che contiene.

De Waal è un artista che comprende che il silenzio può essere più eloquente del rumore. In un mondo dell’arte contemporanea ossessionato dallo spettacolare, dal provocatorio, dal rumoroso, il suo lavoro è un invito alla contemplazione, alla riflessione, a una forma di meditazione attiva.

Ma non lasciatevi ingannare: questa apparente semplicità nasconde una complessità vertiginosa. Come gli haiku giapponesi che dicono l’immensità dell’universo in tre righe, le installazioni di de Waal contengono mondi interi nei loro spazi ristretti.

Il suo lavoro pone anche domande essenziali sulla natura della collezione, della conservazione, della trasmissione. Cosa sopravvive di noi? Cosa merita di essere conservato? Come gli oggetti portano la memoria?

Penso a ciò che diceva Maurice Blanchot sulla scrittura come forma di resistenza all’oblio. Il lavoro di de Waal è una forma simile di resistenza. Ogni installazione è un tentativo di preservare qualcosa che minaccia di scomparire.

C’è una malinconia nel suo lavoro, certo, ma non è una malinconia passiva o compiacente. È una malinconia attiva, produttiva, che trasforma la perdita in creazione. Come scriveva Walter Benjamin, “È nel medium del ricordo che l’esperienza si deposita come in un fondo prezioso”.

Edmund de Waal è un artista che ci ricorda che l’arte non ha bisogno di essere rumorosa per essere potente. Mentre la nostra epoca è saturata di immagini e suoni, egli crea spazi di silenzio e contemplazione. Il suo lavoro è un invito a rallentare, a guardare davvero, a pensare profondamente.

Andate a vedere un’installazione di Edmund de Waal. Prendetevi il tempo necessario. Lasciate che il silenzio faccia il suo lavoro. Forse allora capirete che l’arte può ancora parlarci di cose importanti, di cose essenziali, senza dover urlare.

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Riferimento/i

Edmund DE WAAL (1964)
Nome: Edmund
Cognome: DE WAAL
Genere: Maschio
Nazionalità:

  • Regno Unito

Età: 61 anni (2025)

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