Ascoltatemi bene, banda di snob. Siete lì, con i vostri bicchieri di champagne tiepido e i vostri commenti esagerati sull’arte contemporanea, a fingere di capire ciò che succede sotto i vostri occhi. Ma avete veramente visto Toyin Ojih Odutola? Non semplicemente guardato le sue opere di sfuggita, ma immersi negli strati profondi dei suoi disegni, dove la pelle diventa cartografia di un’esperienza viscerale che potete solo sfiorare?
L’opera di Toyin Ojih Odutola è un atto di resistenza contro le semplificazioni narrative. Questa artista nigeriano-americana, con le sue penne a sfera, i pastelli e il carboncino, crea molto più che ritratti: forgia paesaggi corporei che raccontano storie alternative, mondi paralleli dove i protagonisti neri sfuggono alle costrizioni della storia coloniale. Trasforma la pelle nera in un territorio sontuoso di possibilità infinite.
Ciò che colpisce subito è la sua tecnica minuziosa di stratificazione. Ogni centimetro quadrato di pelle nei suoi disegni contiene un universo di segni deliberate, di trame ondulanti che sembrano pulsare sotto il vostro sguardo. Questo approccio richiama inevitabilmente la filosofia di Édouard Glissant e il suo concetto di “poetica della Relazione” [1]. Glissant ci parla dell’identità come di un rizoma, un sistema di radici multiple e interconnesse piuttosto che una radice unica e dominante. Rifiuta l’identità come essenza fissa e abbraccia l’identità come relazione, come processo dinamico di incontri e scambi.
Non è forse esattamente ciò che fa Ojih Odutola? La sua tecnica di sovrapposizione di strati evoca questa visione rizomatica dell’identità. Crea personaggi la cui pelle è un incrocio di storie, influenze e possibili sviluppi. “Leggo le marcature come una forma di linguaggio,” dice lei, “allo stesso modo in cui si potrebbe leggere l’inglese.” [2] Le marcature sulla pelle non sono semplici segni estetici, ma un complesso sistema semiotico che narra le esperienze di spostamento, migrazione e ricomposizione identitaria.
Nella sua mostra “To Wander Determined” al Whitney Museum, Ojih Odutola ha creato una serie di ritratti fittizi che raccontano la storia di due famiglie aristocratiche nigeriane unite dal matrimonio di due uomini. Questa finzione speculativa è un gesto politico audace che trasforma l’immaginario postcoloniale. Concependo una Nigeria alternativa dove l’omosessualità non è criminalizzata, dove la ricchezza nera è normalizzata e celebrata, lei non si limita a rappresentare “ciò che è” ma esplora “ciò che potrebbe essere”.
Questo approccio risuona con la letteratura speculativa di Octavia Butler, la cui firma tatuata sulla mano sinistra porta anche Ojih Odutola. Butler e Ojih Odutola condividono questa capacità di usare la finzione come laboratorio di sperimentazione sociale, per interrogare e riconfigurare le strutture di potere. Come scrive Butler in “Parable of the Sower”: “Tutto ciò che tocchi, lo cambi. Tutto ciò che cambi ti cambia.” [3] L’atto creativo diventa allora un atto di trasformazione tanto personale quanto collettiva.
Il potere dell’opera di Ojih Odutola risiede proprio in questa capacità di farci immaginare altri mondi possibili, altre configurazioni sociali. Collocando i suoi personaggi neri in contesti di potere, svago e intimità raramente rappresentati nell’arte occidentale, amplia l’orizzonte delle possibilità. I suoi protagonisti non sono definiti dalla loro sofferenza o dalla loro resistenza all’oppressione, ma esistono pienamente nella loro complessa individualità.
Prendiamo “The Firmament” (2018), quest’opera magistrale in cui un personaggio dalla pelle scura si staglia su uno sfondo di un blu profondo. La ricchezza della texture cutanea, con le sue striature luminose e le sue ombre vellutate, trascende la semplice rappresentazione biologica per diventare cosmica. La pelle non è più solo un involucro corporeo, ma un cielo stellato, un firmamento. Questa trasmutazione del corpo in cosmo ricorda l’approccio fenomenologico di Maurice Merleau-Ponty, per il quale il corpo è il nostro “ancoraggio nel mondo”, il punto zero di ogni percezione ed esperienza [4].
In “A Countervailing Theory” (2020), la sua prima mostra personale nel Regno Unito, Ojih Odutola spinge ancora più in là la sua esplorazione narrativa. Qui inventa una civiltà matriarcale preistorica nell’altopiano di Jos in Nigeria, dove una classe dirigente di donne guerriere assoggetta uomini creati artificialmente. Questa inversione delle relazioni di genere e potere ci confronta con i nostri presupposti più radicati sull'”ordine naturale” delle cose.
Attraverso questa mitologia alternativa, Ojih Odutola interroga non solo le strutture di dominio di genere, ma anche gli archetipi narrativi che plasmano la nostra comprensione della storia. Rivela così che ciò che consideriamo “naturale” o “inevitabile” è spesso solo una costruzione contingente, una narrazione tra molte possibili. Questo approccio decoloniale colpisce le fondamenta epistemiche del dominio occidentale.
La sua tecnica del disegno in bianco e nero in questa serie accentua il carattere archeologico del suo approccio, come se stesse dissotterrando reperti di una storia dimenticata. La composizione circolare della mostra al Barbican, dove lo spettatore segue un percorso curvo senza mai vedere l’intera storia in un solo colpo d’occhio, rafforza questa impressione di scoperta progressiva, di racconto che si svela passo dopo passo.
Ma forse è nella sua serie “The Treatment” (2015-2016) che Ojih Odutola spinge più avanti la sua riflessione sui meccanismi di costruzione razziale. Rappresentando figure maschili bianche celebri con la pelle nera, espone la bianchezza come costruzione sociale piuttosto che come dato biologico. Se un Picasso o un Principe Carlo possono essere rappresentati con la pelle nera senza che questo ne comprometta il riconoscimento, è perché la razza è prima di tutto un sistema di segni e valori culturalmente codificati.
Torniamo a Glissant e alla sua distinzione tra “pensiero sistemico” e “pensiero della traccia”. Il primo cerca di categorizzare tutto, di fissare tutto in identità stabili e separate. Il secondo accetta l’imprevedibile, l’oscuro, il movimento perpetuo delle identità. L’opera di Ojih Odutola si iscrive risolutamente in questo pensiero della traccia: confonde i confini, complica le identità, celebra l’opacità come diritto fondamentale a non essere completamente compreso o categorizzato.
“Non sono interessata alla documentazione della mia vita quotidiana così com’è”, dichiara l’artista, “ma alle vignette di cose, di momenti, di ricordi, di cose che non hanno del tutto senso, ma che non sono necessariamente surreali. C’è realtà nel mio lavoro, ma questa realtà è un’impalcatura affinché l’immaginario emerga, proliferiti e circoli.” [5] Questa dichiarazione potrebbe venire altrettanto bene dallo stesso Glissant, che difende il diritto all’opacità contro le pretese universalistiche della trasparenza occidentale.
Nella sua serie più recente, “Tell Me A Story, I Don’t Care If It’s True” (2020), creata durante il confinamento a New York, Ojih Odutola giustappone testo e immagine per esplorare le molteplici verità che possono coesistere all’interno di una stessa narrazione. Questa serie risuona con le teorie del filosofo Jean-François Lyotard sulla fine delle grandi narrazioni e l’emergere di micro-narrazioni multiple e contraddittorie [6]. In un’epoca caratterizzata dai “fatti alternativi” e dalla polarizzazione ideologica, questa riflessione sulla natura ambigua della verità narrativa assume una risonanza particolare.
L’arte di Ojih Odutola è anche profondamente teatrale. I suoi personaggi sembrano consapevoli di essere osservati, ma si rifiutano di esibirsi per lo sguardo esterno. Esistono in uno stato di noncuranza deliberata che sposta lo spettatore dal centro. Anche quando sono di fronte all’osservatore, sembrano guardare oltre, verso un orizzonte che non possiamo percepire. Questa resistenza allo sguardo colonizzatore richiama la fenomenologia sartriana e la sua concezione dello sguardo dell’altro come potenzialmente oggettivante [7].
In “Chosen” (2020), due personaggi contemplano una vetrina con la scritta “SALE” (saldi). Uno di loro si sistema il lucidalabbra mentre si svolge una conversazione sull’autostima. “Non preoccuparti, se avessimo la scelta, non ci sceglieremmo noi stessi”, dice uno. “Beh… io sceglierei te,” risponde l’altro. Questa scena apparentemente banale condensa tutta la complessità delle relazioni intersoggettive in un contesto capitalistico e post-coloniale in cui i corpi neri sono costantemente mercificati.
Ciò che distingue fondamentalmente Ojih Odutola da molti artisti contemporanei è il suo categorico rifiuto del pathos e del trauma come unici modi di rappresentare i corpi neri. Lei insiste sulla gioia, la contemplazione, il riposo come esperienze altrettanto politiche e significative quanto la sofferenza o la resistenza. In un panorama artistico dove il dolore nero è spesso spettacolarizzato e commercializzato, questa celebrazione della quiete e del tempo libero costituisce un atto radicale.
Come lei stessa spiega: “Che cosa succede se rivendichi ogni luogo in cui vai come una casa? Alcune persone nere evitano di viaggiare perché temono (ragionevolmente) di incontrare il razzismo. Volevo contribuire ad attenuare questa esitazione rappresentando persone nere all’aperto, nella natura, che nuotano nelle lagune, si rilassano sulla spiaggia, ammirano il tramonto.” [8] Questa normalizzazione della presenza nera in spazi di svago e contemplazione è profondamente politica nella sua stessa banalità.
L’approccio di Ojih Odutola ricorda quello di Toni Morrison, che affermava di voler scrivere i libri che avrebbe amato leggere. L’artista crea le immagini che avrebbe voluto vedere da bambina, rappresentazioni in cui le persone nere esistono pienamente nella loro complessa umanità, nella loro bellezza e nella loro quotidianità. “Il lavoro che sto facendo ora è il lavoro che il mio io di nove anni immaginava,” dice, “così come il lavoro precedente era ciò che il mio io di cinque anni evocava.” [9]
Questa connessione all’infanzia non è casuale. È proprio nell’infanzia che si formano i nostri primi immaginari, le nostre prime visioni del possibile. Creando mondi alternativi in cui le persone nere occupano naturalmente posizioni di potere, di svago e di intimità, Ojih Odutola amplia l’orizzonte dei possibili per le generazioni future. Offre ciò che la teorica femminista bell hooks chiamerebbe “spazi di agentività”, rappresentazioni che permettono di immaginarsi attori piuttosto che semplici oggetti dello sguardo altrui [10].
La forza della sua opera risiede anche nel suo equilibrio tra l’intimo e il politico, tra il personale e il collettivo. I suoi ritratti, sebbene fittizi, possiedono una tale presenza, una tale vitalità da sembrare che respirino sotto i nostri occhi. Questa capacità di infondere vita nei suoi personaggi di carta testimonia non solo una straordinaria padronanza tecnica, ma anche una profonda empatia.
Perché nonostante tutta la sua sofisticazione concettuale, l’arte di Ojih Odutola rimane profondamente umana. Ci tocca non perché ci spiega una teoria, ma perché ci fa sentire un’esperienza. La texture della sua pelle disegnata diventa metafora di un’esistenza stratificata, complessa, ricca di contraddizioni e possibilità.
In un mondo artistico ancora troppo spesso strutturato attorno allo sguardo bianco, maschile e occidentale, Toyin Ojih Odutola ci offre una visione radicalmente diversa, dove la pelle nera non è più stigma ma cosmo, dove l’identità non è più gabbia ma terreno di gioco. Lei amplia la nostra concezione del possibile, spinge i confini dell’immaginabile e ci ricorda che ogni racconto dominante può essere contestato, sovvertito, reinventato.
Allora, banda di snob, la prossima volta che contemplerete un’opera di Ojih Odutola, forse vedrete oltre la sua virtuosità tecnica, forse sentirete questo invito a vivere diversamente il mondo, a immaginare altri possibili. E se non sarà così, beh, accontentatevi del vostro champagne tiepido e delle vostre conversazioni insipide. L’arte di Ojih Odutola continuerà a esistere, a respirare e a trasformare il mondo, con o senza la vostra comprensione.
- Édouard Glissant, Poetica della Relazione, Gallimard, 1990.
- Kristin Farr, “Toyin Ojih Odutola, Infinite Possibility”, Juxtapoz, settembre-ottobre 2017.
- Octavia Butler, Parabola del seminatore, Four Walls Eight Windows, 1993.
- Maurice Merleau-Ponty, Fenomenologia della percezione, Gallimard, 1976.
- Kristin Farr, “Toyin Ojih Odutola, Infinite Possibility”, Juxtapoz, settembre-ottobre 2017.
- Jean-François Lyotard, La condizione postmoderna, Éditions de Minuit, 1979.
- Jean-Paul Sartre, Essere e Nulla, Gallimard, 1943.
- Jackie Mantey, “Art you should know: Pittrice Toyin Ojih Odutola”, 22 maggio 2018.
- Kristin Farr, “Toyin Ojih Odutola, Infinite Possibility”, Juxtapoz, settembre-ottobre 2017.
- bell hooks (Gloria Jean Watkins), Black Looks: Race and Representation, South End Press, 1992.
















