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Martedì 18 Novembre

ArtCritic favicon

La poetica del gesto sovrano di Fabienne Verdier

Pubblicato il: 9 Aprile 2025

Di: Hervé Lancelin

Categoria: Critica d’arte

Tempo di lettura: 11 minuti

Nel suo atelier, Fabienne Verdier trasforma la pittura in un laboratorio delle forze fondamentali. Il suo pennello monumentale, i suoi movimenti gravitazionali, catturano non le forme della natura, ma le energie invisibili che le animano, creando un dialogo unico tra corpo e materia.

Ascoltatemi bene, banda di snob che pensate di sapere tutto sull’arte contemporanea. Vi parlerò di qualcuno che scuote davvero le fondamenta della nostra comprensione della pittura: Fabienne Verdier. Questa donna ha fatto ciò che la maggior parte di voi non oserebbe mai, ha lasciato il comodo confort dell’Occidente per seppellirsi per dieci anni nella Cina post-rivoluzione culturale, dormendo su tavole di legno, mangiando pappa, tremando nel freddo di Chongqing, tutto questo per padroneggiare un’arte millenaria che voi pretendete di capire dopo aver sfogliato un libro di calligrafia in una boutique del Marais, tra la vostra sessione di yoga e il vostro brunch senza glutine.

Verdier non è una di quegli artisti che recitano la farsa della ribellione sorseggiando champagne a vernissage in cui gli iniziati si congratulano a vicenda. È una guerriera ascetica della pittura, un’esploratrice senza compromessi dei territori dell’assoluto. Il suo percorso è tanto radicale quanto le sue opere: si è esiliata in Cina a ventidue anni, ha studiato presso gli ultimi maestri calligrafi sopravvissuti alla Rivoluzione culturale, quei custodi di un sapere millenario che il regime voleva annientare, poi è tornata trasformata, armata di una conoscenza ancestrale che ha reinventato con una potenza viscerale. Ha rischiato la sua salute, la sua carriera, tutto, per quell’immersione totale. Se questo non è un dito medio monumentale all’establishment artistico, non so cos’altro sia. Mentre voi discutevate di Marcel Duchamp nelle vostre scuole d’arte, lei imparava l’umiltà e la rigore assoluto sotto la guida di maestri che non facevano concessioni.

Per capire la portata del fenomeno Verdier, bisogna innanzitutto comprendere il suo rapporto con la fisica. Sì, la fisica, non quelle teorie solenni che riciclate nelle vostre conversazioni da cocktail per impressionare il gallerista del momento. La fisica delle forze fondamentali, della gravità, del movimento, quella che governa realmente il nostro universo mentre voi vi compiacevate di concetti. È il primo territorio concettuale con cui intesserò legami. Nel suo atelier, il suo pennello monumentale sospeso da un sistema di cavi ingegnoso, i suoi movimenti soggetti alla gravità terrestre come un pendolo vivente, crea ciò che il fisico Joël Chevrier identifica proprio come l’esplorazione artistica dei “fondamentali della rappresentazione del movimento” [1]. Non dipinge alberi, cascate o fulmini, cattura ciò che li anima, dipinge le forze invisibili che li generano, rivelando così che la natura e l’arte obbediscono alle stesse leggi primordiali.

Quando Verdier sospende il suo enorme pennello al soffitto, un pennello composto da più di trentacinque code di cavallo, vi attacca un manubrio di bicicletta per guidarlo e si posiziona sul telaio per dipingere, con i piedi nella materia, non fa la pittrice eccentrica per impressionare la galleria. Costruisce un laboratorio fisico sofisticato, un dispositivo sperimentale che avrebbe fatto leccare i baffi a Galileo stesso. Il suo metodo somiglia a quello di un ricercatore che inventa i propri strumenti di indagine. “La mia complicità con Alain Berthoz si è tradotta anche nel trasformare lo studio in laboratorio: è salito con me sui grandi telai di legno e abbiamo dipinto insieme per capire cosa accade nell’atto di dipingere”, spiega parlando della sua collaborazione con questo neurofisiologo del Collège de France [2]. Trasforma la pittura in un’esperienza gravitazionale dove il suo corpo diventa uno strumento di misura delle forze invisibili, un sismografo delle energie cosmiche.

Verdier continua una ricerca che ricorda quella del fisico che cerca le equazioni fondamentali dell’universo, ma con i propri strumenti: il tratto, la linea, l’inchiostro, e soprattutto questo corpo in movimento, calcolando con precisione la quantità di materia necessaria per ogni movimento, anticipando l’inerzia, giocando con le tensioni, dominando la viscosità. Lo spettatore attento capirà che non si tratta solo di arte astratta per bellezza, è una dimostrazione viva dei principi della dinamica dei fluidi e della reologia (lo studio della deformazione e del flusso della materia), un tentativo di comprendere il mondo attraverso la materia in movimento.

Quando dipinge i suoi “Vortex”, queste spirali ipnotiche che sembrano contenere l’energia di una galassia, ci ricorda che i vortici non sono solo forme estetiche, ma fenomeni fisici fondamentali che si ritrovano a tutte le scale dell’universo, dai tornado fino ai buchi neri. Quando crea i suoi “Walking Paintings”, camminando letteralmente sulla tela, diventa una dimostrazione vivente della prima legge di Newton, questa legge dell’inerzia che, come ricorda il professor Chevrier, afferma che “ogni corpo persiste nel suo stato di quiete o di moto rettilineo uniforme in cui si trova, se non sia costretto a mutare il suo stato da forze impresse” [3], principio che Verdier sfida e abbraccia simultaneamente nella sua danza con la materia. Si pone al centro di queste forze contraddittorie, attrice e testimone di un teatro fisico in cui ogni gesto è negoziazione con le leggi dell’universo.

Ma Verdier non si accontenta di essere una fisica della pittura, una scienziata del gesto. È qui che voglio affrontare un secondo territorio concettuale altrettanto fondamentale: l’architettura. Non quella banale e commerciale, degli edifici prefabbricati che incontri per strada tra due vetrine di lusso, ma l’architettura come filosofia dello spazio abitato, come pensiero strutturante che organizza il vuoto e il pieno, che dà forma all’informe, che umanizza lo spazio pur trascendendolo.

Verdier si è rivolta più volte all’architettura nella sua carriera, in particolare nella sua audace collaborazione con Jean Nouvel per la progettazione del futuro Museo Nazionale di Arte Contemporanea di Pechino nel 2013. Non si trattava di una semplice decorazione, di una ciliegina sulla torta architettonica, di un piccolo supplemento d’anima aggiunto dopo. No, Nouvel la coinvolge per “aiutarlo con le sue riflessioni e i suoi disegni” [4] a concettualizzare la forma stessa dell’edificio, per trasporvi “la semplicità, l’energia e la potenza di un unico tratto di pennello”. È il riconoscimento supremo che la sua arte non è decorativa ma costruttiva, strutturante, spaziale nella sua stessa essenza.

Questa visione architettonica si ritrova anche nelle sue opere monumentali per la Tour Majunga a La Défense, dove ha creato un dipinto vertiginoso di tredici metri di altezza che dialoga con la verticalità del grattacielo. In quest’opera che sfida la scala umana, Verdier non decora lo spazio architettonico, lo riconfigura, lo reinventa, lo carica di una nuova energia attraverso la potenza del suo tratto. Comprende, come pochi artisti contemporanei impigliati nelle loro piccole preoccupazioni egotiche, che l’architettura non è questione di muri e tetti, ma di organizzazione delle forze e delle tensioni nello spazio, una coreografia di volumi ed energie.

Il rapporto tra il suo lavoro e l’architettura si estende fino alle sue mostre, concepite come percorsi iniziatici. A Colmar, al museo Unterlinden, la sua installazione “Il Canto delle stelle” dialoga direttamente con l’architettura del luogo, trasformando la sala espositiva in un cosmo intimo, in una cattedrale laica. Comprende, come spiega il critico Mark Kidel, che “lo spettatore attento comprenderà che non si tratta solo di arte astratta per abbellire” [5]. L’installazione risponde all’architettura del luogo creando un percorso quasi rituale attraverso lo spazio, una progressione che non è senza richiamare quella dei templi o degli edifici sacri, dove ogni passo ti avvicina a una forma di rivelazione.

Questa coscienza architettonica si manifesta anche nella sua meticolosa concezione dell’atelier, che l’architetto Denis Valode ha progettato attorno a una fossa che permette a Verdier “di esplorare la gravità in azione” [6]. Questo spazio di lavoro non è un semplice luogo di produzione, un capannone anonimo come quelli in cui tanti artisti si limitano ad ammassare le loro tele, ma un’estensione organica del suo pensiero creativo, uno strumento architettonico progettato su misura per amplificare le sue esplorazioni, una macchina per pensare lo spazio attraverso il corpo in movimento.

Nella sua approccio c’è qualcosa che richiama il pensiero profondo dell’architetto Peter Zumthor, per il quale l’architettura deve creare un'”atmosfera” capace di toccarci emotivamente, di farci vibrare oltre le parole [7]. Verdier crea similmente spazi sensoriali attraverso le sue opere, zone di alta intensità percettiva. Quando dipinge i suoi trittici recentemente esposti da Lelong, questi quadri tripartiti che evocano gli altari medievali, non fa solo riferimento a una forma architettonica religiosa, ma reinterpreta lo spazio sacro per la nostra epoca secolarizzata, propone una nuova forma di trascendenza attraverso la materia. Come scrive giustamente Stéphane Lambert, “pochi pittori contemporanei si sono confrontati con il formato del trittico a parte Mark Rothko, nella scia del quale si situa Fabienne Verdier” [8]. E non è un caso se la cappella Rothko a Houston è uno degli spazi più potenti dell’arte contemporanea, un luogo dove pittura e architettura si fondono in un’esperienza quasi mistica.

Questa dimensione architettonica del suo lavoro si manifesta anche nel suo modo singolare di affrontare lo spazio della tela. Non compone immagini, riproduzioni piatte o illustrazioni insipide, ma costruisce strutture energetiche che organizzano lo spazio, che lo tendono e lo rilassano come una membrana vivente. I suoi cerchi, le sue linee orizzontali e verticali non sono forme astratte gratuite, esercizi di stile senza sostanza, ma gli elementi di una grammatica spaziale rigorosa che richiama il pensiero architettonico di Le Corbusier, di cui condivide, per caso che forse non è un caso, le proporzioni ideali (183 x 135 cm) per le sue tele [9]. Queste dimensioni non sono arbitrarie, rispondono a una necessità interna, a una logica del corpo e dello spazio.

Ciò che distingue fondamentalmente l’approccio architettonico di Verdier da quello di molti pittori astratti che si limitano a giocare con le forme come con dei giocattoli, è che lei non si limita a rappresentare lo spazio, lo concepisce con tutto il suo corpo, lo sperimenta, lo vive dall’interno. Quando sale sulle sue tele posate a terra, si muove sulla loro superficie con il suo pennello gigante, diventando essa stessa un elemento architettonico vivente, un corpo che struttura lo spazio con il suo movimento, una spina dorsale mobile del dipinto in divenire. Questa fisicità radicale la rende un’architetta del gesto, che costruisce non con materiali inerti, ma con forze vive, tensioni dinamiche, equilibri precari.

Questa dimensione architettonica richiama senza dubbio le ricerche fondative del Bauhaus, dove arte, design e architettura si fondevano in una visione totale, un progetto di trasformazione del mondo attraverso le forme. Verdier, a modo suo, si riallaccia a questa ambizione di un’arte totale, in cui la pittura non è isolata dalle altre discipline nella sua torre d’avorio estetica ma entra in un dialogo fecondo con esse. La sua collezione straordinaria di dipinti “Rainbows” esposta a Colmar, con i suoi 78 cerchi colorati disposti in sequenza come una partitura spaziale, forma una vera architettura cromatica che trasforma lo spazio del museo in un’esperienza immersiva, in una cattedrale di colori che avvolge il corpo e la mente del visitatore.

Ed è proprio qui che risiede la vera grandezza di Verdier, ciò che la distingue dagli artisti comuni: nella sua capacità eccezionale di trascendere le categorie ristrette in cui voi, appassionati d’arte domenicali e critici di poca esperienza, amate rinchiudere gli artisti per meglio neutralizzarli. Non è né una semplice pittrice, né una calligrafa, né una teorica, né una performer, è tutto questo insieme e molto di più, sfidando le vostre classificazioni sterili. È questa rara specie di artista totale che riesce a creare un sistema completo, un cosmos artistico autonomo in cui ogni elemento è in relazione dinamica con gli altri, formando una costellazione di significati che sfugge alle interpretazioni riduttive.

L’opera di Verdier possiede quella qualità straordinaria che la distingue dalle tendenze effimere e dalle mode passeggere: si inscrive nella grande tradizione pittorica, dialoga con i maestri del passato, pur spingendola verso il futuro con un’energia irresistibile. Non ha bisogno di avvolgersi nell’ironia postmoderna o in un discorso oscuro per mascherare il vuoto del suo percorso. La sua pittura parla da sé, con un eloquenza visiva che sfida i vostri piccoli schemi concettuali e le vostre analisi prefabbricate. Ci ricorda, con ogni tratto, con ogni colata di materia, che la pittura, al suo meglio, è una forma di conoscenza fisica del mondo, un’epistemologia attraverso il gesto, un pensiero incarnato.

Allora sì, potete continuare ad estasiarvi davanti a installazioni narcisistiche o performance vuote che fingono di mettere in discussione il sistema mentre lo servono docilmente, ma nel frattempo, nel suo atelier nel Vexin illuminato dalla luce zenitale, Fabienne Verdier continua a fare ciò che l’arte ha di più nobile e necessario: rivelarci le strutture invisibili del reale attraverso il miracolo del pigmento sulla tela. Non ha bisogno della vostra approvazione né delle vostre teorie riciclate. Ha la gravità terrestre come complice, la lunga storia dell’arte come testimone, e soprattutto quell’incredibile libertà che deriva dalla padronanza assoluta del suo medium.

E se non comprendete ancora la potenza di quest’opera che vi supera, beh… tornate ai vostri vernissage mondani, alle vostre piccole discussioni sterili sull’arte contemporanea, alle vostre pose da iniziati. Verdier, lei, ha ben altro da fare: sconvolgere la nostra percezione del mondo, una pennellata alla volta, un gesto dopo l’altro, in questa danza cosmica con le forze primordiali che ci governano tutti.


  1. Joël Chevrier, “Fabienne Verdier, ou la peinture au coeur du mouvement”, The Conversation, 21 maggio 2018.
  2. Emmanuelle Giuliani, “Fabienne Verdier: “La mia devozione per la pittura brucia, prova””, La Croix, 30 giugno 2020.
  3. Joël Chevrier, “Pittura: Fabienne Verdier, l’arte di danzare con la materia”, The Conversation, 30 agosto 2020.
  4. Fonte Wikipedia, Articolo “Fabienne Verdier”, sezione 2013-2018: dinamica delle forme.
  5. Mark Kidel, “Fabienne Verdier, The Song of the Stars (Il canto delle stelle), Museo Unterlinden, Colmar recensione, arte sacra e contemporanea in dialogo”, The Arts Desk, 7 febbraio 2023.
  6. Emmanuelle Giuliani, “Fabienne Verdier: “La mia devozione per la pittura brucia, prova””, La Croix, 30 giugno 2020.
  7. Peter Zumthor, “Atmosfere”, Birkhäuser Architecture, 2006.
  8. Michaël de Saint Cheron, “I polittici di Fabienne Verdier pinnacolo della sua arte”, Études, Ottobre 2024.
  9. Emmanuelle Giuliani, “Fabienne Verdier: “La mia devozione per la pittura brucia, prova””, La Croix, 30 giugno 2020.
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Riferimento/i

Fabienne VERDIER (1962)
Nome: Fabienne
Cognome: VERDIER
Genere: Femmina
Nazionalità:

  • Francia

Età: 63 anni (2025)

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