L’artista nasconde sistematicamente il suo volto dietro un bandana rosso o la mano, un gesto che ricorda l’anonimato rivendicato di Banksy, ma che in lui sembra più una forma di marketing personale. Questa posizione di artista fuorilegge ha perso credibilità da quando ha smesso di lavorare illegalmente per privilegiare commissioni private e collaborazioni con marchi di lusso. Monopoly lavora ora su edifici abbandonati o con il permesso dei proprietari, evitando il vandalismo che caratterizza la vera street art. Questa trasformazione graduale da artista urbano a imprenditore culturale solleva questioni fondamentali sull’autenticità artistica e la mercificazione della sovversione.
Il lavoro di Alec Monopoly può essere letto come un’illustrazione contemporanea dei meccanismi descritti da Honoré de Balzac in La Comédie humaine. Come lo scrittore francese del XIX secolo sezionava ambizioni, corruzioni e stratificazioni sociali attraverso una galleria di personaggi ossessionati dal denaro e dal potere, Monopoly dispiega un’iconografia pop dove il capitale regna sovrano assoluto. Il personaggio di Mr. Monopoly, inizialmente ispirato dal truffatore Bernard Madoff al momento del suo arresto nel 2008, funziona esattamente come le figure di Grandet o di Nucingen in Balzac: incarna l’accumulo compulsivo, l’avidità eretta a sistema, il trionfo senza complessi dell’avere sull’essere.
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Nell’universo di Balzac, ogni personaggio è definito dalla sua relazione con il denaro. In Monopoly, questa stessa logica struttura l’intera produzione artistica. I suoi quadri mettono sistematicamente in scena simboli di ricchezza ostentata: sacchi pieni di banconote verdi, lingotti d’oro, auto di lusso, orologi svizzeri costosissimi. Il Monopoly Man corre con un sacco di soldi sotto il braccio, conta frenetico le sue mazzette, posa davanti a Porsche o Rolls-Royce. Richie Rich, Paperon de’ Paperoni, Mr. Burns dei Simpson completano questa galleria di personaggi la cui intera esistenza si riassume nel possedere, accumulare e ostentare.
Ciò che rende pertinente il parallelo con Balzac è che lo scrittore non si limitava a denunciare moralmente il regno del denaro: ne mostrava gli ingranaggi, le strategie, le gerarchie complesse. Monopoly opera una trasposizione visiva simile ponendo i suoi personaggi in ambienti urbani saturi di riferimenti al consumo di massa. Gli sfondi integrano loghi di marchi, ritagli di stampa finanziaria, grafici di borsa, ricostruendo l’ambientazione onnipresente del capitalismo tardivo. L’artista crea un’immagine dove la città diventa il teatro di una competizione permanente per la visibilità e l’arricchimento, esattamente come il Parigi di Balzac era il campo di battaglia delle ambizioni sociali.
La dimensione sociologica del lavoro si approfondisce quando si considerano le sue collaborazioni con l’industria del lusso. Ha dipinto la borsa Birkin Hermès per Khloe Kardashian, decorato la Rolls-Royce di Adrien Brody, progettato orologi in edizione limitata per TAG Heuer e Jacob & Co [1], di cui uno è venduto a 600.000 dollari. Queste partnership potrebbero sembrare contraddittorie rispetto a una posizione critica verso il capitalismo, ma rivelano una verità più complessa. Proprio come Balzac descriveva i salotti aristocratici dall’interno, Monopoly pratica una forma di osservazione partecipante. Non critica il lusso da una posizione esterna e moralmente superiore; vi si immerge, ne diventa un attore e documenta dall’interno i meccanismi di distinzione e consumo ostentato.
Quando Monopoly dipinge in diretta su uno yacht durante Art Basel Miami, sponsorizzato da Samsung, o quando il suo Mr. Monopoly appare sui pantaloncini da boxe di Jake Paul durante un incontro contro Mike Tyson trasmesso su Netflix, non denuncia semplicemente lo spettacolo della ricchezza: vi partecipa pienamente rendendolo visibile come spettacolo. Il Monopoly Man diventa così l’equivalente visivo dei personaggi di La Maison Nucingen o del César Birotteau, figure emblematiche di un mondo in cui il valore di un individuo si misura prima di tutto dal suo portafoglio.
L’artista stesso ha riconosciuto esplicitamente questa trasformazione, dichiarando di vivere ormai “una vita di performance artistica” incarnando il personaggio che ha reso la sua firma visiva. Questa dichiarazione rivela una lucidità insolita sul processo di mercificazione che coinvolge ogni pratica artistica contemporanea. Monopoly non pretende di essere un rivoluzionario che lotta contro il sistema dai margini: ammette di essere diventato un’impresa culturale. Così facendo, espone con un’onestà quasi brutale ciò che la maggior parte degli artisti contemporanei nasconde: l’arte è diventata un’industria governata dalle stesse leggi di mercato di qualsiasi marchio di lusso.
In Illusions perdues, Balzac descriveva come il giovane poeta Lucien de Rubempré scoprisse che la letteratura parigina era solo un commercio mascherato. Monopoly attualizza questa disillusione: la street art è diventata un segmento lucrativo del mercato dell’arte contemporanea. Il critico John Wellington Ennis ha perfettamente riassunto questo paradosso nell’Huffington Post: “In un’epoca di piani di salvataggio da miliardi per banche che già possiedono il paese e in cui i magnati denunciano la regolamentazione come antiamericana, la ricontestualizzazione di questo simbolo infantile del successo e della ricchezza quasi non aveva bisogno di spiegazioni” [2]. Monopoly non crea opere che denunciano frontalmente l’ingiustizia economica, ricicla simboli familiari per creare uno specchio leggermente deformante della società di consumo.
Ciò che distingue Monopoly nel panorama della street art contemporanea è proprio questa assenza di pretese moraliste. Contrariamente a un Banksy che mantiene una postura di critico sociale distaccato, Monopoly abbraccia apertamente le contraddizioni della sua posizione. Vende opere molto costose a collezionisti molto ricchi mentre dipinge un personaggio che simboleggia la rapacità capitalista. Questa apparente ipocrisia è in realtà la chiave di lettura del suo lavoro: rifiutando di posarsi come giudice morale, accettando di essere lui stesso un ingranaggio del sistema che rappresenta, produce una forma di verità sociologica più onesta di molte denunce virtuose.
La seconda dimensione essenziale per capire il lavoro di Alec Monopoly risiede nella sua consapevole iscrizione nell’eredità della Pop Art americana, in particolare quella di Andy Warhol, Keith Haring e Jean-Michel Basquiat. L’artista cita esplicitamente queste tre figure come sue principali influenze [3], e questa filiazione struttura profondamente il suo approccio estetico. La Pop Art degli anni 1960 aveva intrapreso il tentativo di confondere i confini tra alta cultura e cultura di massa, tra critica del consumismo e celebrazione della sua estetica. Warhol moltiplicava i ritratti di stelle hollywoodiane e le scatole di zuppa Campbell’s con la stessa apparente indifferenza, creando un’equivalenza inquietante tra tutti gli oggetti della società di consumo.
La Pop Art come specchio deformante
Monopoly perpetua e aggiorna questa ambiguità per l’era dei social network e del capitalismo finanziarizzato. I suoi quadri adottano l’estetica appariscente della Pop Art: colori primari saturi, contorni netti, figure iconiche estratte dal loro contesto originale, composizioni frontali. Ma dove Warhol lavorava con la serigrafia, Monopoly combina lo stencil derivato dal graffitismo con la vernice spray e il collage di frammenti di giornali finanziari. Questa ibridazione tecnica inscrive materialmente nell’opera l’incontro tra strada e galleria, tra intervento urbano effimero e oggetto d’arte destinato a essere venduto.
L’appropriazione di personaggi preesistenti della cultura popolare costituisce un’altra caratteristica della Pop Art che Monopoly spinge al parossismo. Warhol si appropriava dell’immagine di Marilyn Monroe, Haring creava i suoi personaggi stilizzati, Basquiat devitalizzava loghi commerciali. Monopoly costruisce la sua identità artistica interamente attorno a un personaggio di gioco da tavolo creato da Parker Brothers e oggi proprietà di Hasbro. Mr. Monopoly è un marchio registrato, un attivo commerciale, una proprietà intellettuale. Facendo di questo personaggio l’emblema del suo lavoro, l’artista compie un gesto tipico di artista pop: ruba un simbolo del capitalismo per rivoltarglielo contro, ma questo rovesciamento resta sempre ambiguo, sempre reversibile.
La differenza sostanziale tra Monopoly e i maestri della Pop Art storica risiede nel contesto culturale di produzione. Warhol lavorava nel momento in cui la società di consumo americana raggiungeva il suo apice trionfante. Monopoly, invece, emerge artisticamente nel momento preciso del crollo finanziario del 2008, quando la crisi dei mutui subprime rivela l’instabilità strutturale del capitalismo finanziario. Il suo Monopoly Man appare esattamente quando Bernard Madoff viene arrestato per la più grande frode finanziaria della storia. Questo contesto conferisce alla sua immagine una carica critica potenzialmente più acuta di quella della Pop Art classica.
Tuttavia, questa critica viene subito neutralizzata dal mercato. Le opere di Monopoly si vendono alle aste tra i 10.000 e i 50.000 dollari, con collezionisti come Miley Cyrus, Snoop Dogg e Adrien Brody. La sua arte decora i penthouse di Miami e le suite di hotel di lusso. I suoi interventi urbani non sono più atti di vandalismo sovversivo, ma eventi sponsorizzati da marchi che cercano di catturare l’energia dello street art. Ciò che doveva essere una critica al capitalismo finanziario è diventato un accessorio della cultura della celebrità.
Questa traiettoria solleva una domanda fondamentale sulla possibilità stessa di una critica artistica del capitalismo all’interno del sistema capitalistico. La Pop Art aveva già dimostrato che ogni critica visiva finisce per essere assorbita e neutralizzata dai meccanismi che pretendeva denunciare. Monopoly attualizza questa logica per un’epoca in cui la distinzione tra arte, pubblicità e contenuto per i social network è diventata sfumata. Le sue opere si fotografano straordinariamente bene, generano migliaia di like su Instagram, funzionano perfettamente come segnali di status sociale. Sono esattamente ciò che chiede il mercato contemporaneo: visivamente impattanti, culturalmente riferite, abbastanza trasgressive da apparire audaci ma mai abbastanza da infastidire qualcuno.
Il critico culturale del sito Vandalog ha attaccato violentemente Monopoly con queste parole: “Se Donald Trump collezionasse arte, Monopoly sarebbe l’artista che collezionerebbe. Sono dimostrazioni sfacciate di ricchezza, senza altro scopo che la dimostrazione di ricchezza. Sono quei tipi che si presentano alla vostra riunione degli ex alunni indossando un Rolex in ogni polso, solo perché vogliono dire a tutti che indossano un Rolex in ogni polso” [4]. Questa critica feroce mette il dito su qualcosa di essenziale: l’arte di Monopoly non funziona come denuncia del capitalismo ma come celebrazione di esso, mascherata da ironia critica giusto quanto basta per permettere ai suoi acquirenti di sentirsi culturalmente sofisticati mentre esibiscono la loro ricchezza.
Anche qui, tuttavia, bisogna riconoscere una certa onestà in questo approccio. Monopoly non pretende di essere un rivoluzionario. Non nasconde le sue collaborazioni commerciali, non dissimula i suoi legami con l’industria del lusso, non finge di operare ai margini del sistema. In questo senso, il suo lavoro costituisce uno specchio più fedele della nostra epoca rispetto a molte posture pseudosovversive: mostra che nell’era del capitalismo tardivo non esiste più alcuna esteriorità possibile, nessuna posizione critica veramente autonoma. Tutto finisce per essere recuperato, mercificato, trasformato in contenuto.
Sarebbe tentante concludere che il lavoro di Alec Monopoly rappresenti esattamente ciò che il mondo dell’arte contemporanea ha di più superficiale e compromesso con i poteri del denaro. Questa lettura non è sbagliata, ma rimane incompleta. Perché proprio perché Monopoly non cerca di nascondere le contraddizioni della sua pratica, il suo lavoro acquisisce un valore documentario e sociologico che supera le sue qualità plastiche intrinseche. Le sue opere funzionano come archivi visivi di un’epoca in cui la distinzione tra critica e celebrazione del capitalismo è scomparsa, dove lo street art è diventato un segmento del mercato dell’arte, dove gli artisti sono diventati marchi in un sistema di scambi simbiotici perfettamente fluido.
Ascoltatemi bene, banda di snob: Alec Monopoly incarna esattamente ciò che il mondo dell’arte contemporanea pretende di odiare, pur essendo incapace di distogliere lo sguardo. Questo artista di strada newyorkese, nato Alec Andon nel 1986, ha costruito il suo impero visivo attorno a un personaggio di gioco da tavolo baffuto e con il cilindro, trasformando Mr. Monopoly in un’icona ubiqua del capitalismo globalizzato. Dal 2008, anno in cui la crisi finanziaria ha scosso Wall Street, Monopoly dipinge instancabilmente questo omino con le tasche piene sui muri di Los Angeles, Miami, Hong Kong e in innumerevoli altre metropoli. Il suo lavoro, realizzato con stencil, bombolette spray e collage di ritagli di giornali finanziari, oscilla tra una satira mordace e un’ambigua celebrazione dell’opulenza che pretende di criticare.
Le critiche più virulente provengono dall’ambiente tradizionale dell’arte contemporanea. Il sito Artnet ha riassunto questa posizione titolando: “L’ambiente dell’arte consolidata considera Alec Monopoly come uno scherzo, ma lui ride fino alla banca”. Monopoly non è riconosciuto dalle istituzioni museali, non è collezionato dai grandi musei, non gode dell’approvazione critica dei custodi del mondo dell’arte. Ma se ne infischia, perché ha costruito un modello economico che non dipende da questo riconoscimento. I suoi acquirenti non sono i conservatori dei musei: sono celebrità, imprenditori, trader di Wall Street, esattamente le persone che il suo Monopoly Man è destinato a satirizzare.
Questa disgiunzione tra successo commerciale e riconoscimento istituzionale rivela qualcosa di importante sulla struttura attuale del mondo dell’arte. Esistono ormai diversi circuiti paralleli che funzionano secondo logiche differenti. Il circuito tradizionale passa per le grandi gallerie, le fiere internazionali, le collezioni museali e la consacrazione critica. Il circuito in cui opera Monopoly passa per i social network, le collaborazioni con marchi, la visibilità mediatica e l’acquisto diretto da parte di collezionisti facoltosi che si preoccupano poco dell’opinione dei critici.
L’eredità di Monopoly nella storia dell’arte resta da scrivere, ma probabilmente sarà quella di un sintomo piuttosto che di un precursore. Incarnare un momento specifico in cui l’arte urbana è stata completamente mercificata, in cui la trasgressione è diventata una posizione commerciabile, in cui la critica al capitalismo si è trasformata in una strategia di branding. Il suo Mr. Monopoly rimarrà come l’emblema perfetto di un’epoca di crescenti disuguaglianze economiche e di indifferenza cinica. Quel tizio baffuto che corre con la sua borsa di denaro, riprodotto su migliaia di muri, tele e oggetti di lusso, costituisce il ritratto-robot del nostro tempo: sorridente, rapace, onnipresente e perfettamente inconsapevole della propria assurdità.
Balzac scriveva nella prefazione de La Comédie humaine che il suo progetto era di fare concorrenza allo stato civile compilando un inventario completo della società del suo tempo. Monopoly, a modo suo molto più modesto e infinitamente meno sottile, compila anch’egli un inventario: quello di un mondo dove tutto, assolutamente tutto, inclusa la critica alla mercificazione, è diventato merce. Non è una grande arte, certamente non un’arte che attraverserà i secoli come quella dei maestri della Pop Art che prende come modelli. Ma è un’arte che dice qualcosa di vero sul nostro tempo, anche se questa verità non è né lusinghiera né consolante. Il Monopoly Man ci guarda con il suo sorriso fisso e il suo ridicolo cilindro, e in questo sguardo vuoto, riconosciamo la nostra stessa compiacenza di fronte a un sistema economico che sappiamo ingiusto ma dal quale traiamo troppo beneficio per volerlo davvero cambiare. Ecco forse, infine, il contributo reale di Alec Monopoly all’arte contemporanea: aver creato lo specchio perfettamente superficiale di una società perfettamente superficiale.
Lux Magazine, “Hero and Anti-hero: Street artist Alec Monopoly”, lux-mag.com, consultato nell’ottobre 2025
- Articolo Wikipedia, “Alec Monopoly”, consultato nell’ottobre 2025
- Rosy BVM, “Art Review: Alec Monopoly”, 2018, rosybvm.com, consultato nell’ottobre 2025
- Vandalog, “Perché qualcuno mi manda email su Alec Monopoly, Mr. Brainwash e Kim Kardashian?”, blog.vandalog.com, consultato nell’ottobre 2025
















