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Le camere segrete di Toshiko Takaezu

Pubblicato il: 21 Novembre 2025

Di: Hervé Lancelin

Categoria: Critica d’arte

Tempo di lettura: 10 minuti

Toshiko Takaezu crea ceramiche monumentali la cui particolarità risiede nella loro chiusura ermetica. Scolpendo lo spazio interno tanto quanto le superfici visibili, elabora architetture portatili per l’oscurità. I suoi smalti gestuali compongono un linguaggio poetico dove colature e silenzi dialogano con un’intensità rara.

Ascoltatemi bene, banda di snob: mentre vi estasiate davanti alle ultime installazioni concettuali newyorkesi, una donna nata alle Hawaii passava le sue giornate con le mani immerse nell’argilla del New Jersey, edificando pazientemente un’opera che avrebbe reso obsolete le vostre pigre distinzioni tra arte e artigianato. Toshiko Takaezu (1922-2011) non ha mai richiesto la vostra approvazione, ed è proprio per questo motivo che oggi merita tutta la vostra attenzione.

La storia ufficiale dell’arte del XX secolo ama raccontarsi come una successione di rotture eroiche, di manifesti tonanti e di geni tormentati. Takaezu, invece, coltivava verdure tra una cottura e l’altra, considerava la ceramica e la cucina come attività inseparabili e rifiutava ostinatamente di datare le sue opere diversamente che per decenni. Questa indifferenza calcolata ai consueti marcatori temporali costituiva già un atto di ribellione silenziosa contro l’ossessione del mercato dell’arte per la tracciabilità e la cronologia. Come formulava con una semplicità disarmante: “Nella mia vita, non vedo alcuna differenza tra fare vasi, cucinare e coltivare verdure. Sono tutte così legate.”[1].

L’architettura dell’interiorità

Le forme chiuse di Takaezu vanno comprese come vere e proprie strutture architettoniche. Quando sigilla la sommità delle sue ceramiche lasciando solo una minuscola apertura, non rinuncia alla funzionalità per capriccio estetico. Costruisce letteralmente edifici per l’invisibile. Questi volumi chiusi, che lei chiamava “closed forms”, stabiliscono un rapporto con lo spazio più vicino all’architettura che alla ceramica tradizionale. Ogni pezzo diventa camera segreta, santuario portatile, cattedrale in miniatura dedicata all’oscurità.

L’architettura, sin da Vitruvio, si occupa di firmitas, utilitas e venustas: solidità, utilità e bellezza. Takaezu sposta radicalmente questo trittico. Le sue opere possiedono indubbiamente la solidità, acquisita dal fuoco a oltre 1250 gradi Celsius. Manifestano una bellezza innegabile, anche se alcuni puristi della ceramica giapponese hanno potuto storcere il naso davanti ai suoi colori audaci. Ma l’utilità? La ridefinisce interamente. L’utilità di queste forme risiede nella loro capacità di ospitare il vuoto, di proteggere un’oscurità intatta, di preservare uno spazio che nessuno vedrà mai.

Questa concezione dello spazio interno come entità preziosa trova risonanze nell’architettura sacra di molteplici tradizioni. Gli stupas buddhisti, che sicuramente ha osservato durante il suo soggiorno di otto mesi in Giappone nel 1955, contengono camere reliquarie inaccessibili. Le chiese romaniche europee nascondono cripte sotterranee. Takaezu trasla questa logica del santuario nascosto alla scala dell’oggetto domestico. Ogni “moon pot”, ogni cilindro chiuso diventa così il ricettacolo di un mistero deliberatamente sottratto allo sguardo.

L’artista stessa articolava questa preoccupazione con una chiarezza sorprendente durante una visita allo studio nel 1975 a Hilo: “La cosa più importante in questo pezzo è lo spazio oscuro che non potete vedere, l’aria scura che c’è e che non potete vedere” [2]. Questa dichiarazione merita di essere approfondita. Takaezu non parla di un vuoto neutro o astratto. Evoca uno “spazio oscuro”, un “aria scura”, conferendo all’assenza di luce una materialità quasi tangibile. L’oscurità diventa sostanza, elemento architettonico da lavorare allo stesso modo dell’argilla visibile.

Le dimensioni delle sue opere partecipano anch’esse a questa logica architettonica. Le sue “Star Series” della fine degli anni ’90 raggiungono una scala umana, superando a volte 1,5 metri di altezza. A questa dimensione, i pezzi non si contemplano più. Si cammina intorno a loro, li si frequenta, si abita temporaneamente la loro presenza. L’esperienza ricorda quella della passeggiata intorno a un monumento o all’interno di un’installazione architettonica. Questi totem ceramici creano il proprio territorio, modificano la circolazione nello spazio espositivo, impongono una particolare coreografia allo spettatore.

Il processo di costruzione stesso rivela un pensiero architettonico. Takaezu non utilizzava solo il tornio da vasaio. Assemblava colombini, univa lastre, modellava a mano. Questa costruzione per accumulo progressivo assomiglia alle tecniche di muratura. Ogni aggiunta di materia consolida l’edificio, eleva le pareti di questo spazio interno gelosamente custodito. La cottura finale nel suo imponente forno di quasi 8 metri cubi a due camere assomiglia alla messa alla prova di una struttura dagli elementi.

Prima di sigillare definitivamente le sue forme, Takaezu inseriva frequentemente un frammento di argilla avvolto in carta. Durante la cottura, la carta si consumava e l’argilla si induriva, creando un sonaglio all’interno di ogni pezzo. Questo gesto introduce una dimensione sonora nell’architettura ceramica. Le opere non si limitano più a occupare lo spazio visivamente. Lo popolano acusticamente quando le si manipola. Lo spazio interno invisibile si segnala con questo rumore di pietra che rotola in una caverna chiusa. L’architettura diventa musicale, l’oggetto statico contiene un potenziale cinetico e uditivo.

Questa attenzione rivolta allo spazio interno dialoga con le preoccupazioni degli architetti modernisti del XX secolo, anche se Takaezu probabilmente non avrebbe mai rivendicato questa filiazione. Quando Le Corbusier definisce l’architettura come “il gioco sapiente, corretto e magnifico dei volumi assemblati sotto la luce”, Takaezu risponde con il gioco altrettanto sapiente dei volumi sottratti alla luce. Crea anti-spazi, stanze nere portatili, architetture per l’assenza.

La poesia del silenzio visibile

Se le forme di Takaezu costituiscono architetture, le loro superfici assomigliano a poesie visive. L’artista non ha mai scritto un manifesto, raramente ha commentato il suo lavoro in termini teorici. Il suo linguaggio si esprimeva direttamente sulla pelle ceramica delle sue creazioni. I gesti di smaltatura, sgocciolature, schizzi e ampie pennellate compongono un vocabolario poetico che rifiuta la narrazione letterale.

La poesia moderna, fin da Mallarmé, esplora il bianco della pagina come elemento significativo. Il silenzio tipografico, gli spazi, le assenze partecipano tanto alla poesia quanto le parole visibili. Takaezu trasporta questa logica nella ceramica. Le sue superfici non sono mai completamente coperte. Lascia respirare la terracotta, crea zone dove il gres o la porcellana appaiono nella loro nudità. Queste aree non smaltate funzionano come i bianchi della poesia, come i silenzi di una partitura musicale.

La mostra “The Poetry of Clay” organizzata al Philadelphia Museum of Art nel 2004 aveva un titolo azzeccato. Non si trattava di una metafora compiaciuta. Le ceramiche di Takaezu operano veramente secondo una logica poetica. Esse condensano, elidono, suggeriscono più di quanto descrivano. Come il verso poetico concentra più significati della prosa, ogni pennellata carica di smalto rameo o cobalto porta un’intensità semantica sproporzionata rispetto alla sua ridotta superficie.

I titoli scelti dall’artista rafforzano questa dimensione poetica. “Moon”, “Eclipse”, “Zeus”, “Sophia”, “White Peach”, “Floating Seaweed”: queste denominazioni evocano piuttosto che designano. Aprono spazi associativi, molteplici risonanze culturali. “Shiro Momo” (pesca bianca) richiama simultaneamente il frutto carnoso, il colore assente, i racconti popolari giapponesi. Un solo titolo biforca in più direzioni semantiche, esattamente come l’immagine poetica riuscita.

La tecnica di smaltatura stessa si inscrive in una tradizione gestuale che attraversa la calligrafia asiatica e l’espressionismo astratto occidentale. Takaezu non nascondeva la sua ammirazione per i pittori americani della scuola di New York, Jackson Pollock e Franz Kline in particolare. Ma al contrario dei loro quadri, le sue superfici portano la memoria del fuoco. La cottura ad alta temperatura altera in modo imprevedibile i colori, modifica le texture, produce incidenti controllati. Questa parte di casualità introduce nell’opera un’alterità radicale. L’artista non controlla integralmente il risultato finale. Il forno, le fiamme, l’atmosfera ossidante o riducente diventano coautori.

Questo dialogo con l’imprevisto avvicina Takaezu ai poeti che praticano vincoli formali o procedure casuali. Raymond Queneau con i suoi Cent Mille Milliardi de Poèmes, John Cage con le sue partiture sottoposte al caso: entrambi cercavano di introdurre nella creazione una dimensione che sfugga al controllo egoico. Takaezu, affidando i suoi pezzi al forno, accettava una forma simile di spossessamento creativo. Gli ossidi metallici, secondo le minime variazioni di temperatura e ossigenazione, viravano dal verde al rosa, dal nero al rosso rame. Ogni cottura diventava una lettura inedita dello stesso poema-forma.

La serie “Tree Forms” degli anni 1970 illustra particolarmente questa poetica del lutto e della memoria. Ispirate dagli alberi carbonizzati del Devastation Trail nel parco nazionale dei vulcani delle Hawaii, queste alte colonne sottili evocano tronchi fantasma. Takaezu non riproduce pedissequamente questi alberi morti. Distilla la loro essenza poetica: la verticalità spezzata, la oscurità post-eruttiva, la fragilità pietrificata. Queste opere funzionano come elegie ceramiche, poemi-tomba eretti alla memoria di una foresta scomparsa.

L’artista rifiutava di considerare l’argilla un materiale inerte. Dichiarava: “L’argilla è un essere sensibile, vivente, animato e reattivo” [3]. Questa attribuzione di sensibilità alla materia prima rientra in una concezione animista che si ritrova in alcune tradizioni poetiche. L’haiku giapponese, per esempio, presuppone una continuità tra coscienza umana e fenomeni naturali. Takaezu, nutrita dalla cultura okinawana e dal buddhismo zen, condivideva questa intuizione di una vita diffusa nel mondo materiale.

I suoi soggiorni prolungati alle Hawaii, terra natale dove tornava regolarmente, impregnava le sue opere di una sensibilità particolare agli elementi. Il blu profondo di alcune creazioni evoca l’oceano Pacifico. I flussi di smalti marroni e ocra ricordano le colate di lava basaltica. Le forme arrotondate dei “moon pots” richiamano i ciottoli levigati dalle onde. Questa poesia geologica ancorava l’opera in un’esperienza sensoriale concreta del paesaggio insulare.

Il silenzio occupava un posto centrale nella sua pratica e nella sua pedagogia. I suoi ex allievi ricordano uno studio quasi privo di indicazioni scritte, dove l’apprendimento avveniva tramite l’osservazione e l’imitazione gestuale più che attraverso la spiegazione verbale. Questo rifiuto della logorrea teorica traduce una convinzione: alcune verità non si formulano con le parole. Si mostrano, si trasmettono di mano in mano, si iscrivono nella memoria muscolare. La poesia, in fondo, aspira anch’essa a dire ciò che la prosa ordinaria non può catturare.

L’eredità paradossale

Siamo quindi di fronte a un’artista che costruiva architetture invisibili e componeva poesie mute. Toshiko Takaezu merita più delle etichette pratiche con cui solitamente si contraddistinguono i creatori provenienti dalle discipline cosiddette applicate. Non era una ceramista-che-fa-anche-arte, né un’artista-che-lavora-la-ceramica. Queste distinzioni burocratiche l’avrebbero fatta sorridere o alzare le spalle.

Il suo vero lascito risiede in questa tranquilla ostinazione nel lavorare secondo i propri termini, senza preoccuparsi delle tassonomie istituzionali. Il mercato dell’arte contemporanea ha impiegato decenni per riconoscere il suo contributo. Le grandi retrospettive si sono moltiplicate solo dopo la sua morte nel 2011. Questo riconoscimento tardivo evidenzia il persistente cieco di un sistema ancora largamente determinato da gerarchie obsolete tra medium nobili e medium minori.

Oggi, nel 2025, mentre i musei si sfidano per esporre ceramisti contemporanei e i prezzi delle opere in argilla esplodono nelle aste, sarebbe tentante celebrare il trionfo postumo di Takaezu. Diffidiamo da questa autocompiacenza. L’incorporazione tardiva di un’artista nel canone non cancella i decenni di indifferenza istituzionale. Al contrario rivela la lentezza patetica con cui le strutture ufficiali dell’arte rivedono i loro pregiudizi.

Le forme chiuse di Takaezu contengono una lezione che va ben oltre il campo della ceramica. Ci ricordano che ogni opera degna di questo nome ospita necessariamente una parte irriducibile all’analisi, un nucleo di oscurità preservato dalle nostre interpretazioni voraci. Ciò che non vediamo, ciò che non comprendiamo completamente, partecipa tanto all’esperienza estetica quanto gli elementi immediatamente identificabili. Lo spazio nero all’interno di ogni vaso non è un difetto di trasparenza. Costituisce la condizione stessa della risonanza poetica.

Takaezu ci insegna anche la necessità di un tempo lungo, di una maturazione lenta lontano dai riflettori mediatici. Ha costruito la sua opera pazientemente, cottura dopo cottura, raccolto di verdure dopo raccolto di verdure, per quasi sei decenni. Questa durata sfida l’impazienza contemporanea, la sete di riconoscimento immediato, la corsa ai “like” e alle pubblicazioni. Il suo esempio suggerisce che una vita creativa autentica si misura in anni accumulati nello studio, non in copertine di riviste.

I sonagli racchiusi nelle sue ceramiche emettono un suono discreto, quasi intimo, quando si maneggiano le opere. Questo tintinnio segreto rappresenta forse l’essenziale: l’arte vera non urla, non si impone con violenza sonora. Sussurra, suggerisce, invita a tendere l’orecchio. Nel frastuono assordante del mondo dell’arte attuale, saturo di spiegazioni, comunicati e contenuti proliferanti, il sussurro ceramico di Toshiko Takaezu risuona come un appello salutare alla moderazione, alla concentrazione, all’ascolto di ciò che si rifiuta di rivelarsi immediatamente.


  1. Montclair Art Museum, Toshiko Takaezu: Four Decades, cat. mostra, Montclair, New Jersey, Montclair Art Museum, 1989
  2. Dandee Pattee, “Toshiko Takaezu: Expressions in Clay,” Ceramics: Art and Perception, n° 88, 2012
  3. Jennifer Saville, “Toshiko Takaezu: Listening to Clay,” Toshiko Takaezu, cat. mostra, Honolulu, Honolulu Academy of Arts, 1993
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Riferimento/i

Toshiko TAKAEZU (1922-2011)
Nome: Toshiko
Cognome: TAKAEZU
Altri nome/i:

  • トシコ・タカエズ (Giapponese)

Genere: Femmina
Nazionalità:

  • Stati Uniti

Età: 89 anni (2011)

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