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L’eredità visiva di Gunter Damisch

Pubblicato il: 24 Agosto 2025

Di: Hervé Lancelin

Categoria: Critica d’arte

Tempo di lettura: 8 minuti

Gunter Damisch creava dei cosmi pittorici popolati da creature organiche e da formazioni cristalline. Le sue tele esplorano le corrispondenze tra macrocosmo e microcosmo, rivelando un artista che percepiva nelle realtà infinitamente piccole le leggi che governano l’universo intero. Professore influente, rivoluzionò l’insegnamento artistico viennese.

Ascoltatemi bene, banda di snob. Quando Gunter Damisch dichiarava che il suo sistema pittorico era guidato dall’idea di trasformazione e metamorfosi, non pronunziava solo una formula vuota destinata ai cataloghi delle esposizioni. Quest’uomo, scomparso troppo presto nel 2016 all’età di cinquantotto anni, aveva capito qualcosa di essenziale sulla natura stessa dell’arte contemporanea: che la pittura poteva essere simultaneamente un massaggio delle cellule nervose e una mappatura dell’invisibile.

Damisch apparteneva a quella generazione dei Nuovi Selvaggi austriaci che, all’inizio degli anni 1980, rovesciava i codici consolidati al fianco di Otto Zitko e Hubert Scheibl. Ma a differenza dei suoi contemporanei, sviluppò rapidamente una via singolare, quella di un esploratore dei territori liminali tra scienza e sensibilità, tra macrocosmo e microcosmo. Le sue tele, popolate da creature organiche con tentacoli dispiegati, da forme cristalline in crescita e da concentrazioni energetiche galattiche, rivelano un artista che aveva colto l’essenza stessa della nostra epoca: questa tensione permanente tra l’infinitamente piccolo e l’infinitamente grande che caratterizza il nostro rapporto moderno con il mondo.

La danza architettonica dello spazio

L’opera di Damisch intrattiene un dialogo costante con l’architettura, non quella degli edifici e dei monumenti, ma quella delle strutture invisibili che organizzano la nostra percezione. I suoi mondi, i suoi campi, le sue reti e i suoi “Flämmer”, queste creature piuttosto gassose che fungono da connettori tra i diversi mondi delle sue composizioni, costituiscono una vera grammatica spaziale, un vocabolario architettonico dell’intimo e del cosmico. Quando creava le sue figure che sfidano la gravità, prive di estremità e che sembrano galleggiare in un sistema in movimento, Damisch orchestrava una coreografia dello spazio che evoca le ricerche più audaci dell’architettura contemporanea.

Questo approccio architettonico si manifesta particolarmente nella sua comprensione dello spazio pittorico come territorio da abitare piuttosto che da contemplare. Le sue tele non sono finestre aperte su un altrove, ma ambienti immersivi in cui lo sguardo dello spettatore diventa nomade, esplorando incessantemente nuovi territori. Come ricordava Andrea Schurian, Damisch era un “formatore di mondi” che apriva lo spazio bidimensionale della tela verso l’infinito con i suoi intrecci colorati seriali, le sue cancellazioni e i suoi raschiamenti.

L’architetto Tadao Ando parla dell’importanza del vuoto nella creazione spaziale [1]. In Damisch, questo vuoto diventa positivo, generatore di forme e movimenti. I suoi spazi pittorici illimitati, strutturati dall’interferenza tra il grande e il piccolo, creano un’architettura dell’esperienza piuttosto che un’architettura dell’oggetto. Le linee serpentine che si iscrivono nei suoi cosmi rivelano una concezione spaziale dove l’architettura diventa flusso, movimento e trasformazione permanente.

Questa visione architettonica supera di gran lunga la semplice organizzazione compositiva. Impegna una riflessione sull’habitat umano in un mondo in perpetuo mutamento. I “luoghi interiori” delle sue sculture in bronzo, questi spazi rifugio popolati da minuscole creature, propongono un’alternativa all’architettura funzionalista dominante. Damisch immagina spazi organici, respiranti, dove l’umano potrebbe ritrovare il suo posto nell’ordine naturale.

Le sue torri reticolari delicate, più grandi della natura, costituiscono vere e proprie proposte architettoniche. Esse suggeriscono strutture abitabili dove il confine tra interno ed esterno si sfuma, dove l’architettura diventa membrana permeabile tra l’uomo e il suo ambiente. Questa visione prefigura le ricerche contemporanee sull’architettura biomimetica e le strutture adattative.

L’influenza dell’architettura sul suo lavoro grafico merita anch’essa di essere sottolineata. Le sue strutture rizomatiche, i suoi flussi di colore lavici, le sue linee ritmiche serpentine costituiscono una vera e propria morfologia emblematica accessibile a tutti. Queste notazioni grafiche funzionano come piante di architetto dell’invisibile, rilievi topografici di spazi mentali dove ciascuno può proiettare le proprie esperienze spaziali.

La malinconia creativa e l’alchimia delle forme

L’opera di Damisch dialoga altresì con una profonda tradizione letteraria, quella che esplora le corrispondenze segrete tra gli stati d’animo e le forme del mondo. I suoi “intrecci” e “convoluzioni” evocano irresistibilmente l’universo di W.G. Sebald, quello scrittore che sapeva trasformare la malinconia in forza creatrice. Come nell’autore dei “Ringraziamenti di Saturno”, la contemplazione delle forme naturali diventa in Damisch il punto di partenza di una meditazione sul tempo, la memoria e la trasformazione.

Questa dimensione malinconica non rientra nel pessimismo, ma in una lucidità particolare di fronte ai cicli di distruzione e rigenerazione che governano il vivente. Quando Damisch osservava “i vermi e i serpenti, le boucle e le liane, i ruscelli e i fiumi sinuosi, le linee costiere e le rive, i rigagnoli e i fori dei vermi, le tracce di rosicchiamento degli insetti nelle cortecce e le erosioni delle acque”, praticava questa forma di malinconia attiva che Sebald definiva “scienza naturale della distruzione”.

I suoi titoli poetici testimoniano questa particolare sensibilità letteraria. “Weltwegköpflerdurcheinander”, “Köpflerflämmler am Wetlbogen”, “Köpflersteher Weltaffäre” sono espressioni che sembrano parole tedesche composte, ma completamente inventate dall’artista e volutamente assurde. Questi neologismi rivelano un artista che pensava da poeta, per il quale la denominazione delle forme partecipava alla loro stessa creazione. Questo approccio linguistico alla pittura ricorda le ricerche di Paul Celan sulle corrispondenze tra immagine e linguaggio.

La malinconia di Damisch trasforma l’osservazione naturalistica in visione cosmica. Le sue creature unicellulari con tentacoli dispiegati, le sue formazioni cristalline, le sue concentrazioni energetiche galattiche testimoniano una capacità di percepire nel microscopico le leggi che governano l’intero universo. Questa visione malinconica e scientifica allo stesso tempo evoca le “Affinità elettive” di Goethe, dove l’osservazione dei fenomeni naturali rivela le leggi segrete che regolano le passioni umane.

Il passaggio dalla pittoricità alla testualità nelle sue opere degli anni 1990 illustra perfettamente questa dimensione letteraria. Damisch sviluppò un cosmo pittorico dotato di un proprio vocabolario concettuale, dove “Welten”, “Steher”, “Flämmler” e “Wege” diventavano i personaggi di una mitologia personale. Questa creazione linguistica parallela alla creazione plastica testimonia un approccio totale all’arte, dove pittura e letteratura si nutrono reciprocamente.

I suoi collage, che integrano ritagli di giornali e xilografie nella superficie pittorica prima di ricoprirli di pittura, richiamano la tecnica della composizione per strati successivi cara agli scrittori. Come in Sebald, il passato emerge sotto la superficie del presente, creando questi effetti di trasparenza temporale che conferiscono all’opera la sua profondità malinconica.

Questa malinconia creativa trova la sua espressione più compiuta nelle sue sculture in bronzo, che Otto Breicha definiva “modelli spinosi per l’intero mondo” [2]. Queste creature fossilizzate sembrano portare in sé la memoria geologica della terra, testimoniando quella capacità propriamente letteraria di percepire nel presente le tracce del tempo lungo.

L’insegnamento come atto artistico

Professore per più di vent’anni all’Accademia di Belle Arti di Vienna, Damisch rivoluzionò l’approccio educativo all’arte. Il suo insegnamento non mirava a formare dei “piccoli Damisch”, ma a rivelare in ogni studente quella “piccola pianta arte” che percepiva in ognuno. Questo approccio pedagogico costituisce in sé un’opera d’arte, una scultura sociale nel senso inteso da Joseph Beuys.

Damisch considerava l’insegnamento come un processo di trasformazione reciproca. Non si trattava di trasmettere un sapere costituito, ma di creare le condizioni di una scoperta comune. I suoi studenti testimoniano all’unanimità questa capacità unica di creare un clima di apprendimento in cui “l’arte può tutto e non deve nulla”. Questa formula, che amava ripetere, riassume perfettamente la sua filosofia pedagogica: offrire un quadro di totale libertà mantenendo al contempo le massime esigenze.

Questo approccio trovava origine nella sua stessa formazione presso Arnulf Rainer e Max Melcher, ma anche nella sua esperienza di musicista all’interno del gruppo punk “Molto Brutto”. Damisch aveva compreso che l’apprendimento artistico riguardava meno l’acquisizione di tecniche che la capacità di sviluppare un linguaggio personale. Il suo metodo consisteva nell’accompagnare ogni studente in questa ricerca di autenticità, senza mai imporre la propria estetica.

Le testimonianze dei suoi ex studenti rivelano un insegnante che sapeva adattare il suo approccio a ogni personalità. Alcuni avevano bisogno di incoraggiamenti, altri di rimessa in discussione più decisa. Damisch padroneggiava quest’arte delicata della pedagogia differenziata, sapendo quando “consolare” e quando dare “un calcio nel sedere”, secondo l’espressione di uno dei suoi studenti.

Il suo impegno istituzionale testimonia altresì questa concezione ampliata dell’arte. Presidente di commissione, membro del senato, responsabile di istituto: Damisch considerava queste funzioni amministrative non come costrizioni, ma come estensioni naturali del suo lavoro artistico. Si trattava di creare le condizioni istituzionali che permettessero all’arte di fiorire.

Un’eredità vivente

Quasi dieci anni dopo la sua scomparsa, l’opera di Gunter Damisch continua a irradiare ben oltre i circoli specializzati. Le sue ricerche sulle corrispondenze tra macro e microcosmo trovano un’eco particolare nelle nostre preoccupazioni contemporanee legate all’ecologia e alle scienze della vita. I suoi “modelli spinosi per l’intero mondo” offrono chiavi di comprensione per pensare il nostro rapporto con la natura nell’Antropocene.

L’influenza del suo insegnamento si misura nella diversità dei percorsi dei suoi ex studenti, oggi attivi nei campi artistici più vari. Questa dispersione creativa testimonia la correttezza del suo metodo pedagogico: formare artisti capaci di sviluppare il proprio linguaggio piuttosto che epigoni.

Le sue ricerche plastiche sulla trasformazione e la metamorfosi anticipano anche le questioni attuali sull’intelligenza artificiale e le biotecnologie. Esplorando i territori liminali tra organico e inorganico, tra naturale e artificiale, Damisch ha aperto strade che l’arte contemporanea inizia solo ora ad esplorare.

L’universalità del suo linguaggio plastico spiega la sua crescente ricezione internazionale. Le sue mostre in Cina, Islanda, Repubblica Ceca testimoniano questa capacità di parlare un linguaggio visivo che supera le frontiere culturali. Le sue “creature gassose” e i suoi “connettori tra i mondi” offrono metafore visive per pensare la globalizzazione e gli scambi interculturali.

Damisch ci ha lasciato un’opera che funziona come una “rete gettata nell’oceano della coscienza”. In un’epoca in cui l’arte contemporanea sembra a volte perdersi nella pura concettualizzazione o nello spettacolare, il suo esempio ricorda che la pittura può ancora offrire esperienze sensoriali insostituibili. Le sue tele continuano a invitare a questa “percezione danzante di se stessi come percepenti” che lui auspicava.

L’arte vera sopravvive al suo creatore continuando a produrre senso. L’opera di Gunter Damisch risponde perfettamente a questo criterio. Ci offre strumenti visivi e concettuali per comprendere la complessità del mondo contemporaneo, questa tensione permanente tra locale e globale, tra individuale e collettivo, tra umano e non-umano che caratterizza la nostra epoca.


  1. Tadao Ando, “L’Architettura del vuoto”, Éditions du Moniteur, 2000.
  2. Otto Breicha, citato in “Gunter Damisch. Weltwegschlingen”, Hohenems/Vienna, 2009.
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Riferimento/i

Gunter DAMISCH (1958-2016)
Nome: Gunter
Cognome: DAMISCH
Genere: Maschio
Nazionalità:

  • Austria

Età: 58 anni (2016)

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