Ascoltatemi bene, banda di snob, mentre vi parlo di Lucas Arruda, nato nel 1983 a São Paulo, un artista che fa esattamente ciò che non si dovrebbe fare secondo tutti i canoni dell’arte contemporanea, ed è proprio per questo che merita la nostra attenzione. Mentre il mondo dell’arte è ossessionato dal spettacolare, dal monumentale e dall’eccessivo, ecco un artista che osa lavorare su formati minuscoli, che ha l’audacia di dipingere paesaggi quando tutti gli dicono che è superato, e che persiste nell’esplorare la luce come se gli impressionisti non fossero mai esistiti.
Arruda è quell’artista raro che riesce a farci vedere l’invisibile nel visibile, a farci sentire l’infinito nel finito. Le sue tele, che raramente superano le dimensioni di un foglio di carta, sono finestre aperte sull’immensità. Ci ricordano ciò che Martin Heidegger chiamava “il chiarore dell’essere”, quello spazio in cui le cose si rivelano a noi nella loro verità più profonda. Quando guardate una marina di Arruda, non vedete semplicemente un paesaggio marino, assistete a ciò che il filosofo tedesco descriveva come il svelamento della verità, l’aletheia, quel momento in cui il mondo esce dal suo ritiro per manifestarsi nella sua piena presenza.
La sua serie emblematica “Deserto-Modelo”, il cui titolo è preso in prestito dal poeta João Cabral de Melo Neto, non è una semplice raccolta di paesaggi. È un’esplorazione sistematica e ossessiva di ciò che significa vedere, percepire, essere presenti al mondo. Ogni quadro è un invito a rallentare, a prendersi il tempo per guardare veramente. Nella nostra epoca di immagini istantanee e gratificazioni visive immediate, Arruda ci propone una forma di resistenza contemplativa.
Prendete le sue marines con orizzonti sfocati, quegli spazi in cui il cielo e l’oceano si fondono in una nebbia luminosa. A prima vista, possono sembrare ripetitive, quasi monotone. Ma è proprio in questa apparente monotonia che risiede la loro forza. Come le variazioni musicali di Philip Glass o Steve Reich, ogni iterazione apporta una sottile differenza, una nuova sfumatura, una variazione quasi impercettibile ma importante. Questa ripetizione non è una mancanza di immaginazione ma un metodo rigoroso di investigazione del visibile.
La luce, nel lavoro di Arruda, non è semplicemente un effetto pittorico o un mezzo per creare atmosfera. Diventa un vero strumento filosofico, un modo per esplorare ciò che Maurice Merleau-Ponty chiamava “la carne del mondo”. Nei suoi quadri, la luce non si limita a illuminare le cose, le fa esistere in un modo nuovo. Crea ciò che il filosofo francese descriveva come l’intreccio fondamentale tra il vedente e il visibile, quella zona misteriosa dove la nostra percezione incontra il mondo.
Le sue giungle dense e misteriose non sono semplicemente rappresentazioni della foresta pluviale brasiliana. Sono meditazioni sull’idea stessa della natura, sulla nostra relazione complessa con il mondo naturale. In queste opere, Arruda dialoga sottilmente con la tradizione del sublime nell’arte, ma lo fa in un modo del tutto contemporaneo. Dove i romantici cercavano di sommergerci con l’immensità, Arruda ci propone una forma di sublime miniaturizzato, concentrato, intensificato dalle dimensioni ridotte delle sue tele.
Ciò che è particolarmente interessante nel suo approccio è che crea opere che funzionano simultaneamente a più livelli. A livello puramente visivo, i suoi dipinti sono capolavori di sottigliezza cromatica e di maestria tecnica. Il modo in cui lavora la materia pittorica, grattando talvolta la superficie per far emergere la luce dagli strati inferiori della pittura, testimonia una profonda comprensione delle possibilità materiali del suo mezzo.
Ma i suoi dipinti sono anche macchine per pensare. Ci costringono a riflettere sulla natura stessa della percezione, sul modo in cui costruiamo la nostra comprensione del mondo visibile. In questo, si uniscono alle preoccupazioni della fenomenologia, quel ramo della filosofia che si interessa a come le cose ci appaiono nell’esperienza diretta. Ogni dipinto di Arruda è come un’esperienza fenomenologica in miniatura, un invito a esplorare come percepiamo, come diamo senso a ciò che vediamo.
La decisione di Arruda di lavorare quasi esclusivamente su formati ridotti non è una semplice preferenza estetica o una costrizione pratica. È una scelta filosofica che trasforma ogni dipinto in un esercizio di concentrazione, di focus. Questi piccoli formati ci obbligano ad avvicinarci, a chinarsi, a stabilire una relazione intima con l’opera. È una forma di resistenza contro la tendenza attuale dell’arte contemporanea a privilegiare lo spettacolare e il monumentale.
Il suo uso occasionale di proiezioni luminose e di diapositive dipinte estende ulteriormente questa riflessione sulla natura della visione e della rappresentazione. Queste installazioni creano quello che il filosofo Gilles Deleuze avrebbe chiamato “immagini-tempo”, momenti in cui lo stesso tempo diventa visibile, tangibile. La luce proiettata diventa un medium a sé stante, un modo per materializzare il passaggio del tempo e i cambiamenti sottili della percezione.
I monocromi di Arruda, che a prima vista sembrano semplicemente superfici uniformi, sono in realtà esercizi sofisticati sulla natura della visione. Costringendoci a rallentare lo sguardo, a prendersi il tempo di vedere davvero, ci ricordano che la visione non è un atto istantaneo ma un processo che si sviluppa nel tempo. Queste opere fanno eco a ciò che il filosofo Henri Bergson scriveva sulla durata, quell’esperienza soggettiva del tempo che non può essere ridotta a una semplice successione di istanti.
La relazione di Arruda con la tradizione della pittura di paesaggio è complessa e sfumata. Non è né un semplice continuatore di questa tradizione né un iconoclasta che cerca di distruggerla. La reinventa dall’interno, la spinge ai suoi limiti, la usa come uno strumento per esplorare questioni filosofiche fondamentali. I suoi paesaggi non sono rappresentazioni di luoghi reali ma costruzioni mentali, spazi immaginari che ci permettono di riflettere sulla natura stessa della rappresentazione.
Nei suoi marine più astratti, dove l’orizzonte si dissolve in una nebbia luminosa, Arruda ci confronta con ciò che il filosofo Emmanuel Levinas chiamava “c’è”, quella presenza pura e indifferenziata che precede ogni distinzione tra soggetto e oggetto. Questi dipinti ci pongono di fronte all’enigma dell’essere stesso, ci confrontano con la strana essenza del mondo.
Il suo trattamento della luce è particolarmente rivelatore. Nei suoi dipinti, la luce non è semplicemente un fenomeno naturale da rappresentare, ma una metafora della stessa coscienza, della nostra capacità di percepire e comprendere. Questo approccio richiama ciò che Gaston Bachelard scriveva sulla rêverie poetica, quella forma attiva di immaginazione che ci permette di trascendere i limiti della nostra percezione ordinaria.
La serie “Deserto-Modelo” può essere vista come un’esplorazione sistematica di ciò che significa abitare poeticamente il mondo, per riprendere l’espressione di Hölderlin cara a Heidegger. Ogni dipinto è un tentativo di creare uno spazio dove il visibile e l’invisibile si incontrano, dove il materiale e lo spirituale si intrecciano. È un progetto allo stesso tempo umile nelle sue dimensioni e ambizioso nella sua portata filosofica.
L’influenza di artisti come Turner, particolarmente nelle sue opere tarde dove la forma si dissolve nella luce, è evidente nel lavoro di Arruda. Ma mentre Turner cercava di catturare la potenza drammatica degli elementi, Arruda persegue una forma di trascendenza più sottile, più interiore. I suoi dipinti non sono rappresentazioni di tempeste esterne ma esplorazioni di tempeste interiori, cartografie dell’anima.
Ciò che è notevole nel suo lavoro è che mantiene un perfetto equilibrio tra il formale e il metafisico, tra il materiale e lo spirituale. I suoi dipinti funzionano altrettanto bene come oggetti puramente estetici che come supporti di meditazione filosofica. Questa dualità è al cuore del suo progetto artistico.
La ripetizione nel suo lavoro non è una semplice iterazione meccanica ma una forma di investigazione paziente e metodica. Come uno scienziato che ripete un esperimento per comprenderne tutte le variabili, Arruda esplora instancabilmente gli stessi motivi per estrarne nuovi significati, nuove possibilità. Ogni nuovo dipinto è allo stesso tempo una continuazione e un nuovo inizio.
Il suo lavoro ci ricorda che l’arte può ancora essere un mezzo serio di investigazione filosofica, uno strumento per comprendere il nostro posto nel mondo. In un’epoca dominata dal cinismo e dall’ironia, Arruda osa essere sincero, metafisico, profondo. Ci mostra che è ancora possibile creare un’arte che parli direttamente all’anima pur coinvolgendo l’intelletto.
La prossima volta che incrocerete una delle sue piccole tele in una galleria o in un museo, non limitatevi a guardarla di sfuggita. Prendetevi il tempo per fermarvi, per inclinarvi, per vedere davvero. Perché in questi spazi minuscoli si nasconde un’immensità che aspetta solo di essere scoperta. Arruda ci ricorda che la dimensione fisica di un’opera non ha nulla a che fare con la sua capacità di trasportarci, trasformarci, farci riflettere.
Forse è proprio qui che risiede il suo più grande successo: mostrarci che in un mondo ossessionato dal grande, dallo spettacolare, dal monumentale, la vera grandezza può nascondersi nei formati più piccoli. I suoi dipinti sono come porte segrete verso l’infinito, inviti a esplorare i misteri della percezione e dell’essere. Ed è proprio per questo che meritano il mio colpo di cuore.
















