Ascoltatemi bene, banda di snob, Lynette Yiadom-Boakye (nata nel 1977) scuote la pittura figurativa con un’audacia che vi lascerà stupefatti. Questa britannica di origine ghanese arriva nelle nostre istituzioni compassate come un pugno in una galleria di ritratti vittoriani. Vi dirò perché è una delle artiste più affascinanti del nostro tempo, e perché il suo lavoro merita la vostra attenzione, che vi piaccia o no.
La prima cosa che colpisce: dipinge personaggi che non esistono. Sì, avete letto bene. In un mondo ossessionato dal reale, dai selfie e dall’autenticità forzata, Yiadom-Boakye crea esseri di finzione con una maestria tecnica che farebbe impallidire Velázquez. I suoi ritratti immaginari sono più veri del vero, più autentici delle vostre foto Instagram ritoccate. Qui risiede il suo genio: ci fa credere nell’esistenza di persone che non sono mai esistite.
Prendiamo “No Such Luxury” (2012), una tela monumentale che vi cattura appena entrate nella stanza. Una figura seduta davanti a una tazza di caffè vi fissa con un’intensità che vi inchioda sul posto. Il personaggio è lì, indiscutibilmente presente, ma totalmente libero dalle convenzioni sociali, dalle aspettative razziali, dai vincoli di genere. È un tour de force magistrale. Come cantava Serge Gainsbourg in “Je suis venu te dire que je m’en vais”, c’è la stessa tensione tra presenza e assenza, tra ciò che è mostrato e ciò che è suggerito.
La tavolozza di Yiadom-Boakye è una sinfonia di marroni. Lei padroneggia le sfumature come nessun altro, creando una profondità che ti cattura nelle sue tele. I suoi sfondi scuri non sono lì per abbellire, sono il teatro dove si svolge un dramma silenzioso, una meditazione sulla stessa esistenza. È Sartre in pittura, amici miei, puro esistenzialismo su tela.
E poi c’è quel modo che ha di giocare con il tempo. I suoi personaggi fluttuano in un presente eterno, deliberatamente scollegati da qualsiasi temporalità precisa. Nessuna scarpa che potrebbe datare l’opera, nessun accessorio che la ancorerebbe a un’epoca. È Proust visivo, una ricerca del tempo pittorico dove passato e presente si fondono in una stessa eternità.
I titoli delle sue opere sono poesie in sé, enigmatici ed evocativi come Rimbaud. “A Passion Like No Other”, “The Much-Vaunted Air”, “To Tell Them Where It’s Got To”, sono frammenti di racconti che esistono solo nella nostra immaginazione. Come in “La Javanaise”, dove Gainsbourg gioca con le parole per creare una realtà alternativa, Yiadom-Boakye usa questi titoli come note musicali in una partitura visiva.
Ma non si tratta semplicemente di estetica. Il suo lavoro è profondamente politico, anche se rifiuta il ruolo di portabandiera che vorrebbero farle indossare. Dipingendo figure nere nella grande tradizione della pittura a olio europea, non chiede il permesso di entrare nel canone artistico, si installa lì, punto e basta. È Fanon in pittura, una decolonizzazione dell’immaginario artistico che non si preoccupa di giustificazioni.
Prendete “A Concentration” (2018), dove quattro ballerini neri maschi occupano lo spazio con una grazia che sfida gli stereotipi. È una risposta tagliente a secoli di arte occidentale dove i corpi neri erano relegati ai margini. Come Simone de Beauvoir che decostruiva i miti della femminilità, Yiadom-Boakye decostruisce le rappresentazioni razziali con una sottigliezza devastante.
La sua tecnica è impeccabile. Padroneggia il chiaroscuro come i maestri olandesi, ma lo devia ai suoi scopi. Le sue pennellate sono sicure, precise, senza fronzoli inutili. È Cézanne sotto acido, pittura che sa da dove viene ma non ha alcuna intenzione di restare saggia entro i limiti prescritti.
La cosa più affascinante è forse il suo modo di trattare la luce. In opere come “Complication” (2013), crea atmosfere dove la luminosità sembra emanare dai personaggi stessi. È Caravaggio remixato per il XXI secolo, con una consapevolezza acuta delle sfide contemporanee della rappresentazione.
Quello che mi fa infuriare è sentire alcuni critici parlare del suo lavoro solo in termini di identità. Sì, dipinge figure nere. E allora? Rembrandt dipingeva olandesi, nessuno lo riduce a questo. La sua arte trascende queste categorizzazioni facili, come una melodia di Gainsbourg trascende le parole per toccare qualcosa di più profondo.
Yiadom-Boakye è un’artista che capisce che la pittura non è morta, contrariamente a ciò che alcuni vorrebbero farci credere. Le infonde nuova vita, nuova rilevanza. Come Nietzsche che proclamava la morte di Dio per affermare meglio la necessità di nuovi valori, lei proclama la morte dei vecchi codici pittorici per reinventare meglio la pittura.
La forza di Lynette Yiadom-Boakye risiede nella sua capacità di creare un mondo parallelo che ci fa dubitare del nostro. I suoi personaggi immaginari sono più vivi di molti ritratti di persone reali. È qui che risiede la sua magia, in questa capacità di trascendere il reale per raggiungere una verità più profonda. I suoi quadri ci dicono che sono lì, pur ricordandoci la loro natura fittizia, in un paradosso che ne fa tutta la potenza.
















