Ascoltatemi bene, banda di snob. Vi parlerò di Mamma Andersson, nata nel 1962, questa artista svedese che ha fatto della banalità del quotidiano il suo territorio di caccia. Mi direte che dipingere interni domestici e paesaggi innevati è di una banalità sconfortante. Ma vi sbagliate. Andersson è la prova vivente che la vera radicalità non risiede nella provocazione gratuita, ma nella capacità di trasformare l’ordinario in straordinario.
Stabilita a Stoccolma, questa maga della tela opera un’alchimia singolare dove le scene più banali si trasformano in teatro metafisico. La sua tecnica è una sfida permanente alle convenzioni pittoriche. Alterna superfici lisce come il vetro con texture ruvide che sembrano strappate alla stessa terra. I suoi colori, spesso cupi e malinconici, evocano le lunghe notti invernali scandinave, ma si illuminano talvolta di bagliori inattesi, come aurore boreali che emergono nell’oscurità.
Il concetto di inquietante straniezza sviluppato da Freud trova nella sua opera un’incarnazione impressionante. Das Unheimliche, quella sensazione inquietante dove il familiare diventa improvvisamente estraneo, permea ciascuna delle sue tele. Prendiamo “Kitchen Fight”, per esempio. A prima vista si vede una cucina ordinaria, con i suoi utensili e le figurine decorative di orsi. Ma aspettate. Guardate più attentamente. Un cadavere giace sul pavimento, quasi invisibile perché si fonde con l’ambiente. Questa giustapposizione tra il banale e il macabro non è un effetto facile. È una meditazione profonda sulla nostra capacità di normalizzare l’orrore, di renderlo invisibile attraverso la quotidianità.
Questa dimensione psicoanalitica si accompagna a una riflessione sulla natura stessa della percezione. Andersson ci mostra che vedere non è un atto passivo, ma una costruzione attiva in cui la nostra psiche svolge un ruolo cruciale. I suoi quadri sono come test di Rorschach pittorici, in cui ogni spettatore proietta le proprie angosce e desideri. Le macchie nere che spesso appaiono nelle sue opere, come bruciature sulla tela della realtà, non sono semplici effetti di stile. Funzionano come portali verso il nostro inconscio collettivo, un concetto caro a Carl Gustav Jung.
In “About a Girl” (2005), nove donne sono riunite attorno a un tavolo. La scena potrebbe provenire da un ordinario pranzo borghese, ma Andersson ne fa qualcosa di profondamente inquietante. I corpi vestiti di nero si fondono l’uno nell’altro, creando una massa organica indistinta. Solo tre volti ci guardano, come per ricordarci che siamo voyeur, intrusi in questo spazio liminale tra realtà e sogno. La tenda marrone che cala dietro di loro non è solo un elemento decorativo, è una frontiera porosa tra il nostro mondo e quello degli archetipi junghiani.
Il rapporto che Andersson ha con lo spazio è particolarmente interessante. Manipola le prospettive come un prestigiatore gioca con le nostre percezioni. In “Rooms Under the Influence”, crea tre livelli di realtà distinti: un interno domestico frammentato, il suo riflesso invertito e deformato, e un paesaggio lontano che sembra fluttuare sopra tutto ciò. Questa stratificazione spaziale non è solo un esercizio formale, ma una meditazione sulla natura stessa della realtà e della rappresentazione.
Nei paesaggi di Andersson, le sue foreste innevate, i suoi laghi neri come l’inchiostro, le sue montagne nebbiose non sono semplici rappresentazioni della natura. Sono proiezioni della nostra topografia interiore, mappe della nostra psiche collettiva. In “Cry”, le cascate che scendono dalle pareti di una scogliera funzionano come una potente metafora dell’emozione umana. La natura, sotto il suo pennello, diventa uno specchio della nostra anima, uno spazio dove l’interno e l’esterno si mescolano in una danza perpetua.
Il teatro occupa un posto centrale nel suo vocabolario visivo, non come semplice riferimento formale, ma come metafora della nostra condizione umana. I suoi interni spesso assomigliano a scenografie teatrali, creando un mise en abyme in cui lo spettatore diventa al tempo stesso osservatore e partecipante. Questa teatralità echeggia il concetto barocco del “theatrum mundi”, dove il mondo intero è visto come un palcoscenico teatrale e tutti noi come attori involontari di un dramma cosmico.
La temporalità nelle sue opere è tanto complessa quanto il suo trattamento dello spazio. Il tempo, nei dipinti di Andersson, non è lineare. Si piega, si ripiega, si sovrappone a sé stesso come nelle riflessioni di Henri Bergson sulla durata. Ogni istante contiene potenzialmente tutti gli altri, creando una densità temporale che conferisce alle sue opere una profondità particolare. In “Leftovers”, una donna è rappresentata in momenti diversi della sua giornata, creando una coreografia temporale che sfida la cronologia convenzionale.
Gli oggetti, nell’universo di Andersson, non sono mai semplicemente oggetti. Una sedia vuota, un letto disfatto, un tavolo apparecchiato per il tè diventano presenze quasi animiste, cariche di un significato che va oltre la loro semplice funzione utilitaristica. In “Dollhouse”, le stanze vuote di una casa delle bambole assumono una dimensione metafisica, come se ogni camera fosse un contenitore di memorie ed emozioni cristallizzate. Questi oggetti domestici funzionano come talismani, punti di ancoraggio in un mondo dove la realtà minaccia costantemente di dissolversi.
La luce gioca un ruolo importante nel suo lavoro. Non è la luce abbagliante del sud dell’Europa, ma una luminosità nordica, più sottile e più ambigua. Crea zone di chiaroscuro che ricordano i dipinti di Vilhelm Hammershøi, ma con una tensione psicologica più marcata. Questa luce particolare contribuisce a creare quell’atmosfera di sogno ad occhi aperti che caratterizza la sua opera, dove le ombre sembrano avere tanta sostanza quanto gli oggetti che le proiettano.
La sua influenza cinematografica è innegabile, particolarmente quella di Ingmar Bergman. Ma mentre Bergman esplorava i drammi umani in modo diretto e spesso brutale, Andersson preferisce un approccio più obliquo, lasciando che le tensioni psicologiche si accumulino sotto la superficie apparentemente calma delle sue composizioni. È questa riserva, questa tensione contenuta che conferisce al suo lavoro la sua potenza particolare. Ci mostra che l’orrore più profondo non è nell’esplosione di violenza, ma nell’attesa, nel silenzio che precede la tempesta.
La sua tecnica pittorica stessa contribuisce a questa tensione narrativa. Utilizza una varietà di medium e tecniche, passando dall’olio all’acrilico, da velature trasparenti a stesure spesse e opache. Le superfici dei suoi dipinti sono come testimonianze dove si sovrappongono e si intrecciano diversi strati di realtà. Gli incidenti di pittura, le colature, le aree grattate o cancellate non sono errori ma elementi essenziali del suo vocabolario pittorico.
I riferimenti alla storia dell’arte nel suo lavoro sono sottili ma onnipresenti. Vi si possono scorgere echi di Munch nel trattamento emotivo del paesaggio, di Hammershøi negli interni silenziosi, di Giorgio Morandi nel suo modo di trasformare gli oggetti quotidiani in presenze misteriose. Ma queste influenze sono completamente digerite, trasformate dalla sua visione unica in qualcosa di radicalmente nuovo.
Il rapporto che Andersson intrattiene con la narrazione è particolarmente sofisticato. I suoi dipinti suggeriscono storie senza mai raccontarle esplicitamente. Funzionano come frammenti di narrazioni più ampie di cui non vedremo mai la totalità. Questa qualità frammentaria, invece di frustrare lo spettatore, lo invita a diventare un partecipante attivo nella costruzione del senso. Ogni quadro è come una porta socchiusa su un mondo di infinite possibilità narrative.
Nella sua tavolozza cromatica, i grigi, i marroni, i verdi sbiaditi che dominano le sue composizioni non sono scelti per difetto o per facilità. Sono colori carichi di significato, che contengono tutta la malinconia del Nord. Ma sa anche usare il colore puro con precisione chirurgica, un rosso brillante o un giallo luminoso che a volte trapelano dalla superficie opaca dei suoi dipinti come un grido nel silenzio.
Nelle sue opere più recenti, Andersson spinge ancora più in là la sua esplorazione dei confini tra realtà e rappresentazione. I limiti tra i diversi piani dell’immagine diventano sempre più porosi, gli spazi si contaminano reciprocamente, creando zone di indeterminatezza dove la nostra percezione vacilla. Questa instabilità visiva non è gratuita, riflette la fragilità crescente del nostro rapporto con il reale nell’era digitale.
Il lavoro di Andersson ci ricorda che la realtà non è mai semplice come sembra, che sotto la superficie più banale si nasconde sempre qualcosa di strano e inspiegabile. Mentre il nostro mondo è ossessionato dalla trasparenza e dalla chiarezza, la sua arte ci offre uno spazio di mistero e ambiguità salutare. Ci mostra che la vera profondità dell’esistenza non risiede nei grandi drammi, ma in quei momenti quotidiani in cui il reale vacilla e lo strano irrompe nella nostra vita ordinaria.
La sua arte è infine una forma di resistenza sottile contro la banalizzazione del mondo. Trasformando il quotidiano in qualcosa di strano e meraviglioso, ci ricorda che la realtà è sempre più complessa e misteriosa di quanto vogliamo ammettere. Forse qui risiede il suo successo più grande: farci vedere il mondo familiare con occhi nuovi, come se lo scoprissimo per la prima volta.
















