Ascoltatemi bene, banda di snob, Matthew Wong (1984-2019) non era affatto un artista convenzionale. Mentre il mondo dell’arte è saturo di mediocrità e impostura, è emerso come una cometa fiammeggiante, illuminando per appena sei anni il nostro cielo artistico grigio prima di spegnersi tragicamente. Lasciate che vi dica una cosa: mentre alcuni collezionisti si estasiavano davanti a croste digitali vendute a peso d’oro, Wong creava silenziosamente nel suo studio di Edmonton un’opera che avrebbe scosso le nostre certezze estetiche fino al midollo.
La prima cosa che colpisce nel suo lavoro è questa capacità quasi sovrannaturale di trasmutare la solitudine in paesaggi mentali di una bellezza folgorante. Le sue tele non sono semplici rappresentazioni della natura, ma portali verso un universo parallelo dove la malinconia diventa luce. Prendete “The Kingdom” (2017), un’opera magistrale dove un minuscolo re contempla una foresta di betulle esplodente di colori. Questo dipinto è l’equivalente pittorico di quello che Søren Kierkegaard chiamava “l’angoscia”, quella coscienza acuta della nostra libertà vertiginosa di fronte al nulla. Wong cristallizza perfettamente quel momento in cui il terrore esistenziale si trasforma in rivelazione estetica.
Alcuni critici benpensanti hanno voluto ridurre la sua arte a una semplice citazione di Van Gogh o Klimt. Quale sciocchezza monumentale! Wong non cita, cannibalizza, digerisce e reinventa. Prende la tradizione pittorica occidentale e la fa entrare in collisione frontale con l’eredità della pittura a inchiostro cinese. Il risultato? Un’esplosione cromatica che fa sembrare i Fauves dei timidi gattini. I suoi blu in particolare, quei blu profondi come l’abisso che abitano “Blue Night” (2018), non sono senza ricordare ciò che Gaston Bachelard scriveva sulla rêverie poetica: aprono uno spazio ove la materia diventa spirito.
La seconda caratteristica della sua opera è questo modo unico di affrontare lo spazio pittorico come un campo di battaglia tra ordine e caos. In “The Realm of Appearances” (2018), Wong orchestra una vera e propria guerriglia visiva: ogni colpo di pennello è un’offensiva contro la piattezza, ogni macchia di colore un’imboscata tesa alle nostre abitudini percettive. Questo approccio non può non far pensare alla nozione di “différance” di Jacques Derrida, un gioco perpetuo di presenza e assenza in cui il senso non smette mai di sfuggire.
I suoi paesaggi notturni, in particolare, sono capolavori di ambiguità spaziale. Guardate “See You on the Other Side” (2019), un’opera testamentaria, se mai ce ne fosse una. Un personaggio solitario contempla un vuoto bianco che potrebbe essere neve o il nulla. È esattamente ciò che Maurice Merleau-Ponty descriveva in “L’Oeil et l’Esprit”: il momento in cui la visione diventa una forma di pensiero tattile, in cui vedere significa toccare a distanza. Wong ci fa letteralmente sentire il vertigine dello spazio.
C’è qualcosa di profondamente sovversivo nel suo uso del colore. Mentre tanti artisti contemporanei si accontentano di un minimalismo di facciata, Wong osa l’eccesso, la saturazione, l’esagerazione cromatica. “Unknown Pleasures” (2019) è a tal riguardo esemplare: le bande di colore puro che attraversano il cielo sono come colpi di coltello sulla retina dello spettatore. Si pensa a ciò che Gilles Deleuze scriveva su Francis Bacon: il colore come forza pura, come violenza ai nostri sensi.
Ciò che rende la sua opera così affascinante è questa tensione permanente tra intimità e immensità. In “The Bright Winding Path” (2017), un piccolo personaggio con camicia blu percorre un sentiero che serpeggia attraverso un paesaggio punteggiato da punti rosa. È un Caspar David Friedrich rivisitato da uno sciamano sotto acido. Questa dialettica del minuscolo e del cosmico ricorda ciò che Gaston Bachelard chiamava “l’immensità intima”, quella capacità dell’immaginazione di fare dell’infinito un’esperienza personale.
Ma Wong non era un semplice sognatore. Il suo lavoro è radicato in una profonda comprensione delle sfide della pittura contemporanea. Quando accosta diversi punti di vista in “Blue Night” (2018), creando un’impossibile concordanza tra interno ed esterno, non si limita a giocare con la nostra percezione, ma interroga le basi stesse del nostro rapporto con il reale. È ciò che Martin Heidegger chiamava la “messa in opera della verità” nell’arte: non una semplice rappresentazione, ma un’apertura verso nuove possibilità di essere.
Il suo trattamento della luce è particolarmente rivelatore. In opere come “River at Dusk” (2019), la luminosità non viene da una sorgente esterna ma sembra emanare dalla materia pittorica stessa. È esattamente ciò di cui parlava Emmanuel Levinas quando evocava la “luce come condizione dell’apparire”, non un semplice fenomeno fisico, ma la condizione stessa di ogni manifestazione.
La traiettoria fulminea di Wong, appena sei anni di pratica intensiva, pone tra l’altro una domanda fondamentale: che cos’è la padronanza nell’arte? Mentre tanti artisti passano decenni a perfezionare il loro “stile”, lui ha creato in pochi anni un universo pittorico totalmente coerente e profondamente originale. È ciò che Walter Benjamin chiamava il “qui ed ora della conoscibilità”, quel momento preciso in cui una pratica artistica raggiunge la sua piena potenza espressiva.
Il suo rapporto con la tradizione è tutt’altro che riverente. Quando si appropria dei motivi dell’arte occidentale o orientale, è per farli esplodere dall’interno. I suoi alberi non devono nulla a quelli di Van Gogh, sono come antenne cosmiche che captano frequenze sconosciute. Questo atteggiamento richiama ciò che Roland Barthes diceva del testo moderno: non una semplice continuazione della tradizione, ma la sua reinvenzione radicale.
La dimensione autobiografica della sua opera è innegabile, ma Wong trascende costantemente l’aneddoto personale per raggiungere l’universale. Le sue lotte con l’autismo, la sindrome di Gilles de la Tourette e la depressione non sono mai illustrate direttamente ma sublimi in visioni cosmiche. Questo è ciò che Friedrich Nietzsche chiamava la “trasmutazione dei valori”, trasformare la sofferenza in bellezza, la solitudine in comunione con l’universo.
Le ultime opere di Wong, come “See You on the Other Side” (2019), raggiungono un grado raro di intensità visiva ed emotiva. Il vuoto bianco che occupa una grande parte della tela non è una semplice assenza, è un silenzio assordante, una presenza negativa che fa vacillare la nostra percezione. Si pensa a ciò che Theodor Adorno scriveva sulla negatività nell’arte: essa non è semplice privazione ma affermazione paradossale, presenza dell’assenza.
La sua tecnica stessa è una sfida alle nostre categorie estetiche. Alternando tra tocchi delicati e impasti brutali, mescolando i medium con una libertà sovrana, Wong crea una superficie pittorica che è come una pelle sensibile, che registra le minime fluttuazioni dell’essere. Questo è ciò che Maurice Merleau-Ponty chiamava la “carne del mondo”, questa tessitura comune al vedente e al visibile.
Matthew Wong ha creato un’opera che ridefinisce le possibilità della pittura contemporanea. Mentre tanti artisti si accontentano di riciclare le formule del passato, lui ha inventato un linguaggio pittorico che è allo stesso tempo profondamente personale e universalmente accessibile. L’arte contemporanea ha bisogno di questa sincerità radicale e di questa volontà di spingere il medium fino ai suoi limiti.
La sua morte prematura ci priva di uno degli artisti più promettenti della sua generazione. Ma la sua opera resta lì, come un invito a ripensare il nostro rapporto con la pittura, con il colore, con lo spazio. Era uno di quei grandi artisti andati via troppo presto.
















