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Mehdi Ghadyanloo : L’architetto dei sogni urbani

Pubblicato il: 11 Gennaio 2025

Di: Hervé Lancelin

Categoria: Critica d’arte

Tempo di lettura: 7 minuti

Nelle sue pitture, Mehdi Ghadyanloo trasforma le strutture dei giochi per bambini in monumenti all’assurdo. Questi scivoli che sfidano la gravità diventano metafore delle nostre traiettorie sociali, immerse in una luce clinica che rivela tanto quanto nasconde.

Ascoltatemi bene, banda di snob, vi parlerò di un artista che merita la vostra attenzione più delle vostre eternamente ripetute discussioni sul mercato dell’arte contemporanea. Mehdi Ghadyanloo, nato nel 1981 a Karaj in Iran, è uno di quei rari creatori che riescono a trascendere i confini tra arte pubblica e arte da galleria, tra tradizione e modernità, tra sogno e realtà.

Lasciate che vi parli prima della sua assoluta padronanza del trompe-l’oeil e dello spazio architettonico. Tra il 2004 e il 2011, Ghadyanloo ha trasformato più di un centinaio di muri grigi di Teheran in portali verso universi paralleli. Non è un caso se le sue opere evocano le piazze deserte di Giorgio de Chirico, condividono quella stessa capacità di creare spazi mentali dove la prospettiva diventa uno strumento filosofico piuttosto che tecnico. Come scriveva John Berger in “Ways of Seeing”, “ciò che vediamo è sempre influenzato da ciò che sappiamo o crediamo”. Ghadyanloo gioca proprio su questa tensione tra percezione e conoscenza.

I suoi affreschi monumentali non sono semplici esercizi di stile o tentativi superficiali di abbellimento urbano. Rappresentano una forma di resistenza poetica contro la monotonia quotidiana, un modo di reinventare lo spazio pubblico in un contesto strettamente controllato. Creando aperture impossibili verso il cielo nel cemento degli edifici, l’artista non si limita a ingannare l’occhio, ma propone una riflessione profonda sulla natura della libertà in un ambiente vincolato. Questo approccio ricorda ciò che Walter Benjamin scriveva sull’architettura come forma d’arte ricevuta “nella distrazione e nel collettivo”, salvo che qui Ghadyanloo utilizza proprio questa distrazione per creare momenti di coscienza acuta.

La padronanza tecnica di Ghadyanloo non è un mero virtuosismo, ma è al servizio di una visione che trascende i cliché orientalisti ai quali si vorrebbe talvolta ridurlo. Le sue prospettive vertiginose, i suoi giochi di ombre e luci ricordano i lavori di James Turrell, ma con una dimensione narrativa aggiuntiva che radica il suo lavoro in una tradizione pittorica più antica. Il modo in cui manipola lo spazio architettonico fa eco alle teorie di Rosalind Krauss sulla scultura nel campo ampliato, rimanendo profondamente ancorato a una pratica pittorica tradizionale.

La seconda caratteristica della sua opera risiede nell’esplorazione ossessiva delle strutture da gioco per bambini, in particolare gli scivoli, che sono diventati la sua firma negli ultimi anni. Non lasciatevi ingannare: queste installazioni ludiche sono tutt’altro che innocenti. Nei suoi dipinti da galleria, questi scivoli diventano monumenti all’assurdo, strutture che sfidano non solo la gravità ma anche la logica stessa. Queste opere ricordano ciò che Susan Sontag scriveva sullo stile in “Against Interpretation”: resistono a un’interpretazione semplicistica pur invitando a una lettura più profonda.

Questi scivoli, spesso presentati in scatole architettoniche illuminate da aperture zenitali, creano un senso di inquietante estraneità che avrebbe fatto piacere a Freud. L’assenza totale di figure umane in questi spazi ne rafforza il carattere metafisico. Come ha detto molto bene Lucy Lippard, l’arte concettuale ci ha insegnato che l’assenza può essere potente quanto la presenza. Nel caso di Ghadyanloo, questa assenza è particolarmente eloquente, parla dei traumi della guerra Iran-Iraq, degli spazi di gioco proibiti, dei sogni d’infanzia interrotti.

La luce che bagna queste scene non è quella calda e confortante dei ricordi d’infanzia, ma piuttosto una luce clinica, quasi chirurgica, che rivela tanto quanto nasconde. Queste composizioni evocano ciò che Michel Foucault chiamava le “eterotopie”, spazi altri, sia fisici che mentali, che riflettono e contestano gli spazi reali della nostra società. Gli scivoli di Ghadyanloo, con le loro curve impossibili e destinazioni incerte, diventano così metafore dei nostri percorsi sociali ed esistenziali.

La sofisticazione tecnica delle sue opere non deve nascondere la loro dimensione politica sottile ma persistente. In un contesto in cui l’arte pubblica è spesso strumentalizzata a fini di propaganda, Ghadyanloo è riuscito a creare un linguaggio visivo che sfugge a letture univoche pur rimanendo profondamente impegnato. Come spiegava Roland Barthes in “Mitologie”, i segni apparentemente più innocenti possono portare un carico politico considerevole. Gli spazi giochi abbandonati di Ghadyanloo, con la loro geometria impeccabile e la luminosità spettrale, parlano eloquentemente dell’alienazione contemporanea.

Il suo lavoro pone domande fondamentali sulla natura dello spazio pubblico e privato nelle nostre società contemporanee. Le dimensioni monumentali dei suoi affreschi murali contrastano con l’intimità claustrofobica dei suoi dipinti da galleria, creando una dialettica affascinante tra esterno e interno, collettivo e individuale. Questa tensione ricorda ciò che Henri Lefebvre scriveva sulla produzione dello spazio sociale, sebbene Ghadyanloo vi aggiunga una dimensione onirica che trasforma questi interrogativi teorici in esperienze viscerali.

Il modo in cui gioca con le scale, dal monumentale al minuscolo, dal pubblico all’intimo, non è senza ricordare le riflessioni di Gaston Bachelard sulla poetica dello spazio. Ma dove Bachelard vedeva negli spazi intimi luoghi di conforto, Ghadyanloo introduce un elemento di perturbazione. Le sue scatole architettoniche, pur eseguite con una precisione matematica, creano un senso di vertigine esistenziale che richiama i “non-luoghi” teorizzati da Marc Augé.

C’è qualcosa di profondamente contemporaneo nel modo in cui Ghadyanloo manipola le nostre percezioni dello spazio e del tempo. Le sue opere sembrano esistere in un presente perpetuo, sospeso tra memoria e anticipazione. Questa temporalità particolare fa eco alle riflessioni di Paul Virilio sulla dromologia e l’accelerazione del tempo nelle nostre società moderne, proponendo allo stesso tempo momenti di pausa, spazi di contemplazione che resistono a questa accelerazione.

Il colore gioca un ruolo importante nel suo lavoro, ma non nel modo che ci si potrebbe aspettare. Piuttosto che usare toni vivaci per creare un senso di gioia o ottimismo facile, Ghadyanloo impiega una palette sottile che accentua la stranezza delle sue scene. I suoi cieli di un blu impossibile, le sue ombre precise ma leggermente spostate creano ciò che Jacques Rancière chiamerebbe una “condivisione del sensibile” particolare, una riorganizzazione della nostra percezione abituale del mondo.

L’influenza del cinema è palpabile nel suo lavoro, particolarmente quella di Alfred Hitchcock nella sua manipolazione della suspense visiva. Ogni scena sembra essere l’istante congelato di una narrazione più ampia che non vedremo mai svolgersi. Questa qualità cinematografica ricorda ciò che Gilles Deleuze scriveva sull’immagine-tempo nel cinema moderno, quei momenti in cui il tempo si cristallizza in un’immagine pura, distaccata dall’azione narrativa.

La precisione geometrica delle sue composizioni non è solo una dimostrazione di virtuosismo tecnico, serve a creare ciò che il filosofo Jean-François Lyotard chiamava “spazi di presentazione” dove il nostro abituale rapporto con il reale è sospeso e messo in discussione. Gli scivoli che non conducono da nessuna parte, le scale che si interrompono nel vuoto diventano così metafore dei nostri sistemi sociali e delle loro impasse.

In un mondo saturato di immagini, il lavoro di Ghadyanloo si distingue per la sua capacità di creare momenti di pausa, spazi di riflessione che ci costringono a riconsiderare il nostro rapporto con lo spazio, il tempo e la memoria. Come scriveva Walter Benjamin, “il vero volto della storia appare solo per un lampo”. Le opere di Ghadyanloo sono proprio questi lampi che illuminano il nostro presente interrogando al contempo il nostro passato collettivo.

La sua arte non offre risposte facili né soddisfazioni immediate. Richiede un impegno attivo dello spettatore, una disponibilità a lasciarsi destabilizzare. In questo senso, si unisce a ciò che Jacques Rancière chiama lo “spettatore emancipato”, colui che partecipa attivamente alla costruzione del senso piuttosto che riceverlo passivamente. Gli spazi ambigui di Ghadyanloo diventano così laboratori in cui possiamo sperimentare nuove forme di percezione e pensiero.

La sua capacità di creare opere che funzionano sia come interventi pubblici spettacolari che come meditazioni intime sulla condizione contemporanea è notevole. Testimonia una comprensione sofisticata di ciò che Nicolas Bourriaud chiama “estetica relazionale”, un’arte che prende come orizzonte teorico la sfera delle interazioni umane e il loro contesto sociale.

Le opere di Ghadyanloo ci ricordano che l’arte più potente è spesso quella che riesce a trasformare la nostra percezione del quotidiano ponendo al contempo domande fondamentali sulla nostra condizione. In un mondo in cui l’arte contemporanea sembra spesso oscillare tra cinismo commerciale e attivismo superficiale, il suo lavoro offre una terza via, quella di una pratica artistica che combina impegno sociale, sofisticazione intellettuale e potenza poetica.

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Riferimento/i

Mehdi GHADYANLOO (1981)
Nome: Mehdi
Cognome: GHADYANLOO
Genere: Maschio
Nazionalità:

  • Iran

Età: 44 anni (2025)

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