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Martedì 18 Novembre

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Merab Abramishvili: I giardini dell’assoluto

Pubblicato il: 7 Dicembre 2024

Di: Hervé Lancelin

Categoria: Critica d’arte

Tempo di lettura: 8 minuti

I mandala paradisiaci di Merab Abramishvili, con i loro motivi ripetitivi e simboli interconnessi, rappresentano un tentativo unico di creare immagini dialettiche dove passato e presente si incontrano. Le sue composizioni circolari trascendono la semplice decorazione per raggiungere una straordinaria sofisticazione filosofica.

Ascoltatemi bene, banda di snob, è giunto il momento di parlare seriamente di Merab Abramishvili (1957-2006), quell’artista georgiano che è riuscito a trascendere i confini tra tradizione e modernità con un’audacia che la maggior parte di voi, piccoli collezionisti smarriti nelle vostre certezze contemporanee, probabilmente non sarà mai in grado di comprendere appieno.

Nella cacofonia post-sovietica degli anni 80, mentre la Georgia si dibatteva nelle angustie della sua identità culturale, Abramishvili ha scelto una strada singolare che farebbe sembrare le vostre installazioni video mere attrazioni da fiera. Formatosi all’Accademia d’Arte di Tbilisi, da cui si laureò nel 1981, si immerse nelle profondità dell’arte medievale georgiana, non per copiarla servilmente come farebbero studenti al primo anno di arte, ma per estrarne l’essenza stessa e trasformarla in qualcosa di radicalmente nuovo.

La sua tecnica del gesso, ispirata agli affreschi di Ateni Sioni che studiò nella sua giovinezza accanto a suo padre Guram Abramishvili, non era una semplice riproduzione tecnica, smettetela di annuire come se capiste, voi che confuse originalità con facile provocazione. No, era una completa reinvenzione del medium pittorico. Quando applicava i suoi strati successivi di bianco di Meudon sulle sue tavole, era come se Martin Heidegger stesso guidasse la sua mano nella ricerca di un’autentica esistenza-nel-mondo. Ogni strato di preparazione veniva accuratamente levigato, creando una superficie che non era semplicemente un supporto, ma diventava parte integrante stessa dell’opera, un po’ come quando Maurice Merleau-Ponty parlava della carne del mondo che non è né pura materia né puro spirito.

I colori che utilizzava, legati all’uovo (tecnica della tempera), creavano una luminosità particolare che fa sembrare i vostri neon artistici sottili come un’insegna di farmacia. Questa tecnica medievale padroneggiata non era solo una dimostrazione di virtuosismo, vedo già alcuni di voi alzare gli occhi al cielo, ma lasciate che finisca. Era una ricerca profonda sulla natura stessa della rappresentazione pittorica, un’esplorazione che si collega alle riflessioni di Jacques Derrida sulla traccia e sulla presenza.

Prendiamo la sua serie “Giardini del Paradiso”, che fa sembrare le vostre installazioni vegetali di tendenza l’equivalente di un piccolo orto suburbano. Queste opere non sono semplici rappresentazioni di un paradiso perduto, svegliatevi, non è un corso di iconografia per principianti. Ogni dipinto è una meditazione profonda sul nostro rapporto con il tempo e lo spazio. Gli alberi con radici apparenti che dipinge non sono lì per fare bella figura, come le vostre piante in vaso nelle vostre gallerie asettiche. Incarnano ciò che Gilles Deleuze chiamava il rizoma, una struttura di pensiero non gerarchica che sfida le nostre concezioni tradizionali dell’ordine e del caos.

Il modo in cui struttura le sue composizioni, con questi vasti spazi vuoti che dialogano con dettagli di una precisione ossessiva, crea quella che Theodor Adorno avrebbe chiamato una dialettica della presenza e dell’assenza. Questi vuoti non sono errori di composizione come alcuni critici miopi hanno suggerito, sono tanto essenziali all’opera quanto il silenzio nell’unica sinfonia di Yves Klein. Creano uno spazio di respiro che permette all’occhio e alla mente di contemplare l’infinito, un po’ come quando Emmanuel Levinas parla dell’infinito che si rivela nel volto dell’altro.

Nelle sue rappresentazioni della “Via della Seta” e nelle sue serie sul “Harem”, Abramishvili non si limita al turismo culturale come molti artisti occidentali che si appropriano superficialmente dell’estetica orientale. Crea una vera sintesi tra le tradizioni pittoriche georgiane e persiane, una fusione che avrebbe fatto sorridere Claude Lévi-Strauss poiché illustra perfettamente la sua teoria del bricolage culturale. I dettagli minuziosi delle sue miniature, combinati con la scala monumentale delle sue composizioni, creano una tensione visiva che sfida le nostre aspettative abituali.

La sua serie dei “300 Arakviani”, dipinta nel 1987, non è una semplice celebrazione storica per turisti in cerca di esotismo. È una riflessione profonda sulla natura del sacrificio e dell’eroismo, che riecheggia le analisi di Giorgio Agamben sullo stato d’eccezione. Il modo in cui tratta le figure, al contempo presenti e assenti, solide e evanescenti, crea un’ambiguità visiva che ci costringe a ripensare il nostro rapporto con la storia e la memoria collettiva.

Le scene religiose di Abramishvili, come la sua “Annunciazione” o la sua “Crocefissione”, non sono semplici illustrazioni pie per calendari parrocchiali, vedo alcuni di voi ridacchiare, ma il vostro cinismo non fa che rivelare la vostra ignoranza. Queste opere sono esplorazioni filosofiche profonde sulla natura del sacro nel nostro mondo disincantato. Il modo in cui tratta la luce in queste composizioni, creando effetti di trasparenza grazie ai suoi molteplici lavaggi di superficie, si riallaccia alle riflessioni di Georges Bataille sull’esperienza interiore e la trasgressione dei limiti.

La sua tecnica di ripetuti lavaggi delle superfici non era un semplice effetto stilistico, smettete di pensare come decoratori d’interni. Era un metodo che creava una profondità paradossale, una superficie che sembra allo stesso tempo solida e immateriale. Questo approccio richiama le teorie di Jean Baudrillard sulla simulazione e il simulacro, creando immagini che sono più reali della realtà stessa. La traslucidità che ottiene così non è un semplice effetto ottico, ma una metafora visiva del nostro rapporto complesso con il reale e l’illusione.

Nelle sue ultime opere, in particolare i suoi mandala paradisiaci, Abramishvili raggiunge un livello di sofisticazione che fa sembrare la maggior parte delle produzioni contemporanee altrettanto superficiali quanto un filtro Instagram. Queste composizioni circolari, con i loro motivi ripetitivi e simboli interconnessi, non sono semplici esercizi decorativi per appassionati di spiritualità new age. Rappresentano un tentativo di creare quella che Walter Benjamin chiamava un “immagine dialettica”, dove passato e presente si incontrano in una costellazione di significati.

Il modo in cui tratta gli animali nelle sue composizioni non ha nulla a che vedere con le vostre piccole provocazioni concettuali sulla condizione animale. Le sue creature, siano esse reali o fantastiche, possiedono una presenza che trascende la semplice rappresentazione naturalistica. Incarnano ciò che Friedrich Nietzsche chiamava il dionisiaco, una forza vitale che sfida le nostre categorie razionali. Ogni animale è dipinto con una precisione che richiama i bestiari medievali, ma la loro presenza nella composizione crea una tensione moderna che ci costringe a ripensare il nostro rapporto con il mondo naturale.

La sua palette cromatica, con i suoi toni profondi e le sue trasparenze sottili, non è il risultato di una semplice ricerca estetica. Partecipa a una riflessione profonda sulla natura stessa della percezione visiva, avvicinandosi alle teorie di Rudolf Arnheim sulla psicologia della forma. I colori non sono semplicemente applicati sulla superficie, sembrano emanare dall’interno stesso dell’opera, creando ciò che Gaston Bachelard avrebbe definito una “poetica dello spazio” pittorico.

L’influenza degli affreschi georgiani sul suo lavoro non si limita a una semplice questione tecnica. È in gioco un’intera concezione dello spazio pittorico, un modo di pensare la superficie non come un semplice limite bidimensionale, ma come un luogo di manifestazione del sacro. Questo approccio si ricollega alle riflessioni di Mircea Eliade sullo spazio sacro e sullo spazio profano, creando opere che funzionano come ierofanie contemporanee.

Il modo in cui Abramishvili struttura le sue composizioni, con queste alternanze di vuoti e pieni, di zone dettagliate e di spazi epurati, crea un ritmo visivo che non è senza ricordare le analisi di Henri Maldiney sul ritmo come fondamento dell’esperienza estetica. Ogni quadro diventa così uno spazio di respiro dove lo sguardo può perdersi e ritrovarsi, creando un’esperienza contemplativa che sfida le nostre abitudini di consumo rapido delle immagini.

Le sue ultime opere, realizzate poco prima della sua morte nel 2006, mostrano un’evoluzione verso una luminosità sempre più eterea, come se l’artista cercasse di trascendere i limiti stessi della materialità pittorica. Questa ricerca non era una semplice ricerca formale, smettete di pensare come tecnici di superficie. Era un’esplorazione profonda di ciò che Michel Henry chiamava la “fenomenologia della vita”, un tentativo di rendere visibile l’invisibile senza ridurlo a semplici effetti visivi.

La dimensione simbolica del suo lavoro, particolarmente nelle sue rappresentazioni del paradiso, non si riduce a un semplice riciclo di motivi tradizionali. Ogni elemento è ripensato, reinventato, in un percorso che ricorda ciò che Paul Ricoeur diceva del simbolo come struttura a doppio senso. Gli alberi, gli animali, le figure umane diventano gli elementi di un linguaggio pittorico che trascende le opposizioni tradizionali tra astrazione e figurazione.

E se pensate che io sia troppo severo con l’arte contemporanea, è perché non avete capito l’essenziale: Abramishvili ci mostra precisamente ciò che manca a tante produzioni attuali, una profondità che non confonde complessità concettuale con oscurità gratuita, una padronanza tecnica che non si riduce a una virtuosità vuota, una spiritualità che non scade nel nuovo ordine economico dell’età.

La sua capacità di fondere le influenze orientali e occidentali era una vera trasmutazione alchemica che creava qualcosa di radicalmente nuovo pur rimanendo profondamente radicata nelle tradizioni che reinventava. Questo approccio fa di lui un artista veramente contemporaneo nel senso che Giorgio Agamben intende: qualcuno che, pur essendo del suo tempo, prende le distanze da esso per comprenderlo meglio.

La sua eredità non risiede tanto in un’influenza diretta su altri artisti, il suo approccio era troppo personale, troppo esigente per essere semplicemente imitato, ma nella dimostrazione che è ancora possibile creare un’arte che parla di trascendenza senza cadere nel kitsch, di tradizione senza sprofondare nel passatismo, di spiritualità senza indulgere nel misticismo new age. Un’arte che, come diceva Theodor Adorno riguardo alla musica di Schönberg, mantiene la sua promessa di felicità proprio rifiutando le consolazioni facili di una bellezza convenzionale.

Ecco perché, banda di snob che vi pavoneggiate delle vostre ultime acquisizioni digitali, è tempo di guardare veramente l’opera di Abramishvili. Non come una curiosità esotica venuta dall’Est, ma come una sfida lanciata alla nostra stessa concezione di cosa l’arte possa e debba essere nel XXI secolo. Una sfida che ci costringe a ripensare non solo il nostro rapporto con la tradizione e la modernità, ma anche la nostra comprensione stessa di cosa significhi creare in un mondo che sembra aver perso i suoi riferimenti spirituali ed estetici.

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Riferimento/i

Merab Guramovich ABRAMISHVILI (1957-2006)
Nome: Merab Guramovich
Cognome: ABRAMISHVILI
Altri nome/i:

  • მერაბ აბრამიშვილი (Georgiano)

Genere: Maschio
Nazionalità:

  • Georgia

Età: 49 anni (2006)

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