Ascoltatemi bene, banda di snob, quando vi parlo dell’arte di Miriam Cahn (nata nel 1949), questa artista svizzera che fa esplodere le nostre certezze con la potenza di una bomba atomica. Nel suo atelier-bunker dei Grigioni, lontano dalle mondanità superficiali della scena artistica contemporanea, crea ogni giorno per esattamente tre ore, come un monaco zen che avesse scambiato la sua veste zafferano con una tuta da lavoro macchiata di vernice. Non un minuto di più, non un secondo di meno. Un rituale immutabile che dà vita a opere tanto potenti quanto un uppercut di Mike Tyson ai suoi tempi d’oro.
Permettetemi innanzitutto di parlarvi della sua tecnica, brutale quanto efficace, che ridefinisce i confini dell’arte contemporanea. Cahn dipinge come respira, con urgenza e assoluta necessità, con un’intensità che fa tremare le pareti del suo atelier alpino. Le sue tele nascono da un corpo a corpo con la materia, senza schizzi preliminari, senza possibilità di pentimento, in una battaglia accanita contro il tempo e le convenzioni. Un approccio che ricorda la filosofia del momento presente di Martin Heidegger, quel concetto di “Dasein” in cui l’essere si rivela nell’azione pura, liberato dagli orpelli della riflessione. Ma attenzione, non fatevi ingannare: dietro questa apparente spontaneità si cela una padronanza assoluta del mezzo, come un judoka che ha trascorso anni a perfezionare una singola presa per renderla mortale.
Le sue figure umane, quei fantasmi fluorescenti che ci fissano con occhi vuoti come pozzi senza fondo, emergono dalla tela come spettri radioattivi, immersi in colori così intensi da sembrare pulsare di vita propria. Questi corpi, spesso nudi, talvolta frammentati come vittime di un’esplosione, raccontano la violenza del mondo con una forza che anche Francis Bacon, maestro in materia, avrebbe potuto invidiare. Ogni colpo di pennello è preciso come un bisturi, ogni tratto tagliente come una lama di rasoio. Queste figure non sono semplici rappresentazioni, ma presenze che abitano lo spazio con l’autorità delle sculture antiche, portando i segni della nostra brutalità moderna.
La tecnica di Cahn è unica in quanto combina una rapidità di esecuzione quasi violenta con una precisione chirurgica nella scelta dei colori e delle forme. Lavora in urgenza, certo, ma ogni gesto è calcolato come una partita a scacchi in cui ogni mossa può essere fatale. I suoi grandi formati, spesso realizzati sul pavimento come le action paintings di Pollock, non sono frutto del caso ma il risultato di una coreografia minuziosamente orchestrata in cui tutto il corpo partecipa all’atto creativo.
La violenza, tema centrale della sua opera, non è mai gratuita né spettacolare. È lo specchio della nostra epoca, il riflesso crudele delle nostre barbarie quotidiane, dalle guerre che lacerano il mondo alle violenze più intime che si svolgono nello spazio domestico. Dai conflitti nell’ex Jugoslavia fino alla tragedia ucraina, Cahn cattura l’essenza stessa dell’orrore con un’economia di mezzi che impone rispetto. Una semplice linea di carboncino può suggerire un carro armato, una macchia di colore far emergere un corpo torturato. Quest’approccio ci riporta al pensiero di Walter Benjamin sulla riproduzione meccanica dell’arte nell’era moderna, in cui l’immagine della guerra diventa così banale da perdere il suo potere di indignazione. Cahn, invece, ci costringe a guardare, a non distogliere gli occhi da quello spettacolo di distruzione.
Nelle sue serie dedicate ai conflitti contemporanei, sviluppa un linguaggio visivo che trascende il semplice reportage per raggiungere una dimensione universale. Le sue figure di rifugiati, per esempio, non sono semplici illustrazioni di attualità ma archetipi che ci parlano dell’esilio, della paura, della sopravvivenza. I corpi che dipinge portano in sé tutta la storia della sofferenza umana, dalle migrazioni forzate dell’Antichità ai drammi contemporanei del Mediterraneo.
La dimensione femminista del suo lavoro è particolarmente interessante, poiché trascende il semplice attivismo per raggiungere una verità più profonda sulla condizione umana. I suoi corpi femminili non sono vittime passive ma forze telluriche, amazzoni moderne che rivendicano la loro sessualità con una franchezza che può sconvolgere le anime più sensibili. Gli organi genitali, rappresentati senza veli né pudore, diventano simboli di resistenza, armi di combattimento in una guerra tra i sessi che non finisce mai. Questa approccio radicale alla rappresentazione del corpo femminile si inscrive in una tradizione che va da Louise Bourgeois a Marlene Dumas, pur creando un proprio vocabolario visivo.
Questa crudezza assunta ci riporta al pensiero di Simone de Beauvoir sul corpo femminile come campo di battaglia. Ma là dove Beauvoir teorizzava, Cahn incarna. Le sue donne non sono concetti filosofici ma presenze carnali che fanno saltare le convenzioni della rappresentazione. Urinano, sanguinano, partoriscono, fanno l’amore con una libertà che manda in frantumi secoli di pudore artistico. Ogni tela è un manifesto, una dichiarazione di guerra contro le norme consolidate della rappresentazione femminile nell’arte.
Lo stesso formato delle sue opere partecipa a questa strategia di confronto. Appendendole sistematicamente all’altezza degli occhi, Cahn costringe lo spettatore a un confronto senza via di fuga possibile. Impossibile prendere la distanza comoda dello sguardo estetico tradizionale. Siamo catturati, aspirati da quegli sguardi che ci fissano come tanti specchi inquietanti della nostra stessa umanità. Questa messa in scena richiama le teorie di Jacques Lacan sullo stadio dello specchio, dove il riconoscimento di sé passa necessariamente attraverso il confronto con l’altro.
La sua tavolozza cromatica, di un’audacia che a volte sfiora l’intollerabile, gioca su contrasti violenti che ricordano le sperimentazioni di Vassily Kandinsky sulla spiritualità nell’arte. Ma laddove Kandinsky cercava l’armonia cosmica, Cahn coltiva la dissonanza. I suoi blu elettrici si affiancano a rosa carne in composizioni che sembrano sfidare ogni logica cromatica convenzionale. I gialli acidi dialogano con neri profondi in una danza macabra che ci parla di vita e morte, di creazione e distruzione. È proprio in questa tensione che risiede la forza del suo lavoro.
I paesaggi, quando compaiono nella sua opera, non sono mai semplici scenari ma attori a pieno titolo del dramma che si svolge sulla tela. Che si tratti delle sue vedute delle Alpi svizzere o dei suoi territori immaginari, portano in sé la memoria delle tragedie umane. Un albero solitario diventa un testimone silenzioso, una montagna si trasforma in monumento funerario. La natura, in Cahn, non offre alcun rifugio bucolico. È complice e vittima delle nostre follie, come aveva così bene compreso Friedrich Nietzsche nella sua concezione del sublime terribile. Questi paesaggi ci ricordano che la violenza umana non si limita alle relazioni interpersonali ma si estende al nostro rapporto con l’ambiente.
Questa dimensione tragica si affianca a una riflessione profonda sulla memoria e sulla storia. Nata in una famiglia ebrea che fuggì dalle persecuzioni naziste, Cahn porta in sé il peso di una storia collettiva che irrora ciascuna delle sue opere. Ma non si limita a testimoniare. Trasforma questo fardello in una forza creatrice che trascende il semplice dovere di memoria per raggiungere una dimensione universale. Ogni tela diventa così un luogo di memoria, nel senso inteso da Pierre Nora, uno spazio dove la storia personale e collettiva si cristallizza e si trasforma.
Il suo lavoro sui migranti contemporanei illustra perfettamente questa capacità di trasformare l’esperienza storica in visione artistica. Le sue figure in fuga, ridotte a silhouette fantasmatiche, portano in sé tutta la disperazione del mondo senza mai cadere nel miserabilismo. Ci ricordano le riflessioni di Hannah Arendt sull’apatride come figura emblematica della nostra modernità. Queste opere non sono semplici illustrazioni dell’attualità ma profonde meditazioni sulla condizione umana nell’era dei grandi spostamenti di popolazione.
La performance, aspetto fondamentale della sua pratica, si manifesta non solo nell’atto creativo ma anche nell’allestimento delle sue esposizioni. Ogni esposizione diventa un evento unico, una coreografia minuziosamente orchestrata in cui ogni opera dialoga con le altre in una partitura visiva di rara intensità. È qui che il pensiero di Maurice Merleau-Ponty sulla fenomenologia della percezione trova tutto il suo senso: lo spazio non è più un semplice contenitore ma diventa parte integrante dell’opera. Lo spettatore è invitato a partecipare attivamente a questa esperienza, il suo corpo diventando un elemento della composizione complessiva.
Nei suoi disegni a carboncino, realizzati direttamente sul pavimento in una sorta di trance creativa, ritroviamo la stessa urgenza fisica. L’intero corpo partecipa all’atto creativo, trasformando la superficie della carta in un campo di battaglia dove si gioca qualcosa di più grande dell’arte. Queste opere ci ricordano le sperimentazioni di Antonin Artaud sul teatro della crudeltà, dove il corpo diventa il veicolo di una verità che supera il linguaggio. La traccia del gesto, l’impronta del corpo dell’artista restano visibili come cicatrici di una lotta contro la materia stessa.
I testi che spesso accompagnano le sue opere non sono semplici commenti, ma fanno parte integrante del suo percorso artistico. Scritti in una lingua tanto diretta quanto la sua pittura, testimoniano un pensiero che rifiuta compromessi e facilità. Ogni parola è ponderata, ogni frase è un colpo dato contro la correttezza artistica tradizionale. Questi testi funzionano come partiture che guidano la nostra lettura delle opere preservandone al contempo il mistero fondamentale.
Ogni sessione di lavoro di Miriam Cahn è una nuova battaglia, una nuova sfida lanciata alle convenzioni artistiche. Questa regolarità nell’intensità, questa disciplina nella rivolta, rende la sua opera una testimonianza unica della nostra epoca. L’arte di Miriam Cahn è uno schiaffo salutare sul volto troppo levigato dell’arte contemporanea. In un mondo dove l’estetica è troppo spesso ridotta a una merce “Instagrammabile”, ci ricorda che l’arte può ancora essere pericolosa, che può ancora farci male, farci pensare, farci crescere. È la prova vivente che la pittura, quest’arte presumibilmente morente, può ancora ruggire con la forza di un leone ferito. La sua opera resterà come una testimonianza essenziale della nostra epoca, un grido di rabbia e speranza nella notte del nostro tempo.
















