Ascoltatemi bene, banda di snob, è ora di parlare di Iwamoto Masakazu (イワモト・マサカズ), nato nel 1969 a Cupa, Giappone, quell’artista che probabilmente conoscete meglio con lo pseudonimo di “MR.”. Sì, colui che ha preso il nome dall’iconico giocatore di baseball Shigeo Nagashima, soprannominato “Mr. Giants”. Un’appropriazione che dice molto sulla cultura giapponese e il suo rapporto con l’idolatria popolare. Ma non fatevi ingannare, non è un semplice gioco di maschere.
Pensate di sapere tutto sull’arte contemporanea giapponese perché avete appeso una stampa di Hokusai nel vostro salotto? Lasciate che vi spieghi come Iwamoto sconvolge le nostre certezze occidentali sull’arte e la cultura di massa. Nel suo universo, la distinzione tra “arte alta” e “cultura popolare” si frantuma come un vaso di porcellana in un negozio di manga. Ed è proprio lì che risiede il suo genio.
Ex discepolo di Takashi Murakami, sì, proprio quel Murakami, Iwamoto è emerso dall’ombra del suo maestro nel 1996, con il diploma della Sokei Academy of Fine Art & Design in tasca, per offrirci una visione singolare della società postmoderna giapponese. Una società segnata da ciò che il filosofo Jean Baudrillard chiamava l’iperrealtà, dove il confine tra reale e simulacro si sfuma fino a scomparire completamente. Nell’opera di Iwamoto, questa teoria prende vita attraverso i suoi personaggi dagli occhi spropositati che riflettono letteralmente mondi interi nelle loro iridi, una metafora visiva potente della nostra epoca saturata d’immagini.
Prendete l’installazione monumentale “Metamorphosis: Give Me Your Wings” alla Lehmann Maupin Gallery del 2012. Un caos organizzato di oggetti quotidiani giapponesi, spazzatura e detriti che si erge come un testamento brutale alla catastrofe di Fukushima. Fu Theodor Adorno a dire che scrivere poesie dopo Auschwitz era barbaro, ebbene, Iwamoto ci mostra come fare arte dopo una catastrofe nucleare. Trasforma il trauma collettivo in un’esperienza estetica che ci costringe a confrontarci con le nostre paure dell’apocalisse tecnologica.
Ma non credete che Iwamoto si limiti a riciclare le nostre ansie collettive. La sua opera è profondamente radicata nella cultura otaku, quel fenomeno sociale giapponese che va oltre la semplice passione per manga e anime. Walter Benjamin parlava dell’aura dell’opera d’arte nell’epoca della sua riproducibilità tecnica, Iwamoto invece crea una nuova aura a partire da questa stessa riproducibilità. I suoi personaggi, ispirati all’estetica manga, non sono semplici copie ma archetipi che mettono in discussione il nostro rapporto con l’autenticità e l’originalità.
Nella sua serie di dipinti in cui i personaggi sembrano fluttuare in paesaggi urbani destrutturati, Iwamoto gioca con le nostre percezioni come un DJ che mixa campioni culturali. Le referenze si scontrano: qui un logo di fast-food trasformato in ornamento per capelli, là notifiche di social network che danzano nello sguardo di una bambina. È un dialogo costante tra la tradizione pittorica giapponese e il nostro presente digitale saturo di segni.
Se cercate la prova che Iwamoto non sia solo un altro artista “kawaii”, guardate come tratta la spazialità nelle sue opere. Ereditando la tradizione del “Superflat” teorizzata da Murakami, spinge il concetto ai suoi limiti più estremi. Le prospettive crollano, i piani si sovrappongono, creando un vertigine visivo che ricorda le sperimentazioni dei cubisti, ma con una sensibilità decisamente contemporanea e giapponese.
La sua collaborazione con Pharrell Williams nel 2019 al Musée Guimet illustra perfettamente la sua capacità di trascendere i confini tra arte e cultura popolare. “A Call To Action” non era solo una semplice mostra, ma un manifesto visivo sul potere della gioventù in un mondo in crisi. Le armi colorate come giocattoli nelle mani dei suoi personaggi ci ricordavano che l’innocenza può essere la forma più radicale di resistenza.
L’arte di Iwamoto è paradossale: utilizza l’estetica dell’evasione per confrontarci con la realtà più cruda. I suoi personaggi dalle espressioni congelate in una sorpresa eterna ci rimandano alla nostra stessa stupore di fronte a un mondo che sfugge alla nostra comprensione. Questo è proprio ciò che Guy Debord descriveva in “La società dello spettacolo”, siamo diventati spettatori della nostra stessa alienazione.
Ciò che rende l’opera di Iwamoto così rilevante oggi è che naviga tra diversi livelli di lettura. Per il pubblico occidentale, le sue creazioni possono sembrare solo un’ulteriore manifestazione del “Cool Japan”. Ma sotto questa superficie seducente si nasconde una critica tagliente della società di consumo e del nostro rapporto con l’immagine. Ogni sorriso congelato dei suoi personaggi è una maschera che nasconde un abisso di interrogativi esistenziali.
La sua arte è una cronaca della nostra epoca, in cui realtà e finzione si intrecciano fino a diventare indistinguibili. I paesaggi urbani che descrive, con le loro accumulazioni di segni e simboli, sono il riflesso delle nostre città diventate illeggibili a causa della saturazione visiva. Questo è ciò che Marc Augé chiamava i “non-luoghi” della supermodernità, quegli spazi di transito dove l’identità si dissolve.
Nelle sue ultime opere, esposte a Londra nel 2024, Iwamoto spinge ancora più in là la sua esplorazione delle tensioni tra fantasia e realtà. I volti che dipinge non sono più semplici ritratti ma portali verso universi paralleli, ogni occhio contenente un microcosmo della cultura popolare giapponese. È un vertiginoso gioco di specchi della nostra società dell’immagine, dove ogni sguardo è saturo di riferimenti visivi.
Iwamoto crea un’arte che funziona simultaneamente come intrattenimento e come critica sociale. Le sue opere sono come cavalli di Troia culturali, che si infiltrano nelle nostre coscienze sotto le spoglie della dolcezza per meglio confrontarci con le nostre contraddizioni. È un equilibrista che cammina sul filo teso tra provocazione e seduzione, tra critica e celebrazione.
Se alcuni critici lo hanno ridotto a un semplice epigono di Murakami, passano accanto all’essenziale. Iwamoto ha sviluppato un linguaggio visivo unico che trascende le influenze del suo mentore. Il modo in cui tratta la superficie pittorica, gioca con i codici del digitale in un medium tradizionale, crea opere che funzionano altrettanto bene su Instagram quanto nello spazio sacro del museo, tutto ciò testimonia una comprensione profonda delle sfide dell’arte nell’era digitale.
Il suo lavoro ci obbliga a ripensare le nostre categorie estetiche tradizionali. Come classificare un artista che espone le sue opere sia in gallerie prestigiose che in negozi di lusso? Chi crea installazioni monumentali che trattano di catastrofi nucleari disegnando allo stesso tempo personaggi che sembrano usciti da un cartone animato? È proprio questa capacità di confondere i confini che lo rende un artista emblematico della nostra epoca.
L’arte di Iwamoto Masakazu è uno specchio complesso teso alla nostra società globalizzata. Uno specchio che riflette le nostre ossessioni, paure, desideri, ma che li trasforma in qualcosa di nuovo, provocatorio, inatteso. Ci mostra che l’arte può ancora sorprenderci, destabilizzarci, farci riflettere, forse soprattutto quando prende il linguaggio della cultura popolare.
Quindi la prossima volta che vedrete un’opera di Iwamoto Masakazu, o MR., non fermatevi alla sua superficie luccicante. Immergetevi in quegli sguardi sproporzionati che contengono universi interi. Lasciatevi destabilizzare da quelle composizioni che sfidano ogni logica spaziale. Perché è lì, in quel vertigine visivo e concettuale, che si trova la vera forza della sua arte.
















