Ascoltatemi bene, banda di snob. Sono cinquant’anni che Neil Jenney ci stuzzica con la sua feroce indipendenza, il suo rifiuto delle mode e la sua visione singolare dell’arte americana. È ora di dedicargli l’attenzione che merita. Questo artista americano, nato nel 1945 a Torrington, Connecticut, rimane uno dei più grandi incompresi della nostra epoca, un pittore che ha saputo navigare con audace spavalderia tra minimalismo, espressionismo e realismo.
Jenney è emerso sulla scena artistica newyorkese nel 1966, armato di una visione chiara e di un salutare disprezzo per le tendenze dominanti. Era l’epoca in cui minimalismo e arte concettuale regnavano sovrani, dove dipingere figurativamente ti condannava all’oblio nella storia dell’arte. Ma a Jenney non importava affatto. Con una spavalderia calcolata, ha sviluppato ciò che lui stesso chiamava “realismo”, un termine che definiva come “uno stile in cui le verità narrative si trovano nelle relazioni semplici tra gli oggetti” [1]. Non si trattava di realismo nel senso tradizionale, ma di un approccio concettuale alla figurazione, un’esplorazione delle connessioni tra gli oggetti piuttosto che degli oggetti stessi.
Nel 1969-1970, Jenney crea una serie di opere che la critica Marcia Tucker definirà poi “Bad Painting” (pessima pittura), un termine che lui finì per adottare con una certa fierezza. In questi dipinti, oppone deliberatamente due elementi in relazione di causa-effetto, una sega e un pezzo di legno tagliato, un incidente e una lite, una barriera e un campo, per creare ciò che il critico David Joselit chiamerà poi “realismo relazionale” [2]. Questo approccio contraddiceva direttamente il fotorealismo allora in voga, che Jenney considerava “un’idea superata, solo carina” [3].
Ciò che dà forza a Neil Jenney è la sua capacità di fondere il concettuale e il narrativo in una pittura che non è mai didattica. Come alcuni grandi poeti americani in letteratura, Jenney è riuscito a creare un linguaggio visivo radicato nel vernacolo americano spingendolo al contempo verso l’universale. Lo scrittore Wallace Stevens, nella sua raccolta “Harmonium” (1923), esplorava già questa tensione tra reale e immaginario, tra l’ordinario e il trascendente. “La poesia è la violenza compiuta sull’ambiente ordinario”, scriveva Stevens, un’idea che si ritrova nell’opera di Jenney quando trasforma scene banali in commenti profondi sul nostro rapporto con il mondo [4].
I dipinti di Jenney non raccontano storie complete, ma suggeriscono situazioni, relazioni, tensioni. Offrono una resistenza all’interpretazione facile, sul modello del poeta Charles Olson che affermava: “Una poesia è energia trasferita da dove il poeta l’ha trovata” [5]. Questa concezione dell’arte come trasferimento di energia piuttosto che come semplice rappresentazione è al cuore del lavoro di Jenney. Nei suoi “Bad Paintings”, l’energia proviene dalle relazioni tra gli oggetti, dalla tensione narrativa che essi creano insieme.
Ma Jenney non si è fermato qui. Verso la fine degli anni ’70, fa marcia indietro e inizia a dipingere ciò che chiama ironicamente i suoi “Good Paintings”: paesaggi minuziosamente resi, con cornici nere spesse e imponenti con titoli stencilati. Questi dipinti, come “North America Divided” (1992-1999) o “North America Acidified” (1985-1986/2012-2013), coniugano una tecnica pittorica raffinata con un’evidente preoccupazione ambientale. Il critico Fred Hoffman nota che queste opere “catturano qualcosa che sappiamo essere lì ma che non vediamo” [6].
Questi paesaggi non sono semplici rappresentazioni della natura, ma commenti sul nostro rapporto con l’ambiente, sull’inquinamento, il militarismo e altre minacce ecologiche. Si inscrivono nella tradizione dell’architettura utopica e visionaria, non immaginando strutture impossibili, ma rappresentando l’ambiente naturale da un angolo che ne rivela sia la bellezza sia la fragilità.
L’architetto Louis Kahn, noto per le sue strutture monumentali e la sua ricerca della luce essenziale, condivideva con Jenney questa ricerca di una verità fondamentale. Kahn scriveva: “Una grande costruzione inizia dall’immisurabile, passa attraverso mezzi misurabili nel momento della progettazione, e alla fine deve essere immisurabile” [7]. Allo stesso modo, i paesaggi di Jenney iniziano con un’osservazione attenta della natura, passano attraverso una tecnica pittorica precisa, per infine trascendere la semplice rappresentazione e raggiungere una dimensione quasi spirituale.
Le cornici nere massicce che Jenney concepisce per i suoi quadri non sono semplici accessori decorativi, ma elementi integranti dell’opera. Come spiega lui stesso: “Quando si parla di guardare attraverso una finestra, la cornice è come il primo piano architettonico. È qui con te e ti presenta l’opera. È funzionale, piuttosto che semplicemente decorativa” [8]. Queste cornici stabiliscono una distinzione netta tra il nostro spazio e quello del quadro, servendo allo stesso tempo da portale verso un’altra realtà.
Questo approccio ricorda i principi di estrazione e isolamento che si trovano nell’architettura sacra. I templi greci, per esempio, usavano il loro peristilio non solo come elemento strutturale, ma anche come zona di transizione tra il mondo profano esterno e lo spazio sacro interno. Allo stesso modo, le cornici di Jenney creano una transizione tra la nostra realtà e quella dei suoi paesaggi dettagliatamente rappresentati.
Nelle sue opere più recenti, in particolare la serie “Modern Africa” (2015-2021), Jenney esplora la tensione tra civiltà e natura. Questi grandi quadri rappresentano frammenti di architetture antiche parzialmente sepolte nella sabbia, colonne spezzate, teste scolpite che emergono dalle dune. “È tutto sulla civiltà e Madre Natura. È così semplice”, spiega [9]. Queste immagini sono senza tempo, potrebbero esistere mille anni fa o tra mille anni.
L’artista prosegue la sua riflessione sull’interazione tra l’uomo e il suo ambiente, ma da un punto di vista differente. Se le “North America” si concentravano sulle aggressioni umane alla natura, le “Modern Africa” mostrano come la natura riprenda possesso sulle creazioni umane. Questo ciclo eterno evoca la concezione ciclica del tempo che si trova in molte culture africane, dove passato, presente e futuro sono percepiti come interconnessi piuttosto che lineari.
La tecnica pittorica di Jenney è anch’essa evoluta con questa serie. Spiega: “Quando sono passato ai ‘Good Paintings’, ho essenzialmente cercato di nascondere le pennellate il più possibile. Con ‘Modern Africa’, ho detto: ‘Voglio tornare indietro, ma non voglio che sia come i ‘Bad Paintings’, semplicemente trascurato.’ Volevo rendere queste pennellate più evidenti, ma davvero organizzate e raffinate” [10]. Questa evoluzione tecnica riflette una maturazione del suo pensiero, una ricerca di equilibrio tra espressione e controllo.
Una delle forze di Jenney risiede nella sua capacità di trasformare l’ordinario in strano, il banale in disorientamento, come sottolinea Joselit. I suoi paesaggi provocano ciò che T.S. Eliot chiamava in “Burnt Norton” (1935) “il punto immobile del mondo che gira” [11], un momento di sospensione in cui il tempo sembra fermarsi. Lo spettatore è invitato a contemplare non solo la bellezza della natura, ma anche la sua temporalità, la sua vulnerabilità davanti alle azioni umane.
Questa sospensione del tempo è particolarmente evidente in “North America Depicted” (2009-2010), un quadro quasi interamente bianco che rappresenta rocce coperte di neve. Come osserva Hoffman, “mentre l’occhio è generosamente invitato a muoversi attraverso il quadro, l’opera trasmette immobilità. Più che una semplice rappresentazione di qualcosa di fermo, suggerisce una sospensione del tempo” [12].
La coerenza nell’approccio di Jenney in cinquant’anni suscita ammirazione. Dal giovane ribelle degli anni Sessanta che rifiutava le tendenze dominanti al pittore maturo che esplora i rapporti tra uomo e natura, ha sempre seguito la propria strada, indifferente alle mode e alle aspettative del mercato dell’arte. Come dice lui stesso con il suo caratteristico umorismo: “La gente mi chiede perché faccio arte. Io rispondo che è per avere qualcosa da vendere. Non si può essere mercanti d’arte senza arte” [13].
Questa sua feroce indipendenza gli ha valso un riconoscimento tardivo ma solido. Le sue opere fanno oggi parte delle collezioni di prestigiosi musei come il Museum of Modern Art, il Metropolitan Museum of Art e il Whitney Museum of American Art. La galleria Gagosian, una delle più influenti al mondo, rappresenta ora il suo lavoro, segno che l’establishment artistico ha infine riconosciuto la sua importanza.
Neil Jenney ci ricorda che la vera arte non segue le tendenze, ma le crea. Ci mostra che la pittura può essere allo stesso tempo concettuale ed emotiva, tecnica ed espressiva, locale e universale. In un mondo artistico spesso dominato dall’effetto e dallo spettacolo, la sua opera ci offre un’esperienza più profonda e più duratura, un invito a riconsiderare il nostro rapporto con il mondo e con noi stessi.
Ciò che rende l’arte di Jenney così rilevante oggi è la sua capacità di farci vedere il mondo diversamente, di trasformare la nostra percezione della realtà. Come scriveva Kahn: “L’architettura non esiste. Ciò che esiste è l’opera d’architettura” [14]. Allo stesso modo, per Jenney ciò che conta non è “l’arte” come concetto astratto, ma l’opera concreta e il suo impatto sullo spettatore. E questo impatto, credetemi, è considerevole.
- Tucker, Marcia. “Bad Painting,” catalogo della mostra. New Museum of Contemporary Art, New York, 1978.
- Joselit, David. “Neil Jenney’s Realism,” in “Neil Jenney: Natural Rationalism,” Whitney Museum of American Art, 1994.
- Jenney, Neil. Intervista in “The New York Observer,” 20 gennaio 2016.
- Stevens, Wallace. “Adagia,” in “Opus Posthumous,” Knopf, 1957.
- Olson, Charles. “Projective Verse,” in “Selected Writings,” New Directions, 1966.
- Hoffman, Fred. “Neil Jenney: Naturalista,” Gagosian Quarterly, 28 febbraio 2018.
- Kahn, Louis I. “Louis I. Kahn: Scritti, Conferenze, Interviste,” a cura di Alessandra Latour, Rizzoli, 1991.
- Jenney, Neil. Intervista con Jason Rosenfeld, “The Brooklyn Rail,” dicembre 2021.
- Ibidem.
- Ibidem.
- Eliot, T.S. “Burnt Norton,” in “Four Quartets,” Harcourt, 1971.
- Hoffman, Fred. op. cit.
- Jenney, Neil. Intervista con Jason Rosenfeld, op. cit.
- Kahn, Louis I. op. cit.
















