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Neo Rauch: L’enigma pittorica di Lipsia

Pubblicato il: 30 Marzo 2025

Di: Hervé Lancelin

Categoria: Critica d’arte

Tempo di lettura: 8 minuti

Neo Rauch ci offre un universo pittorico dove i personaggi fluttuano come sonnambuli in un mondo simile al nostro ma soggetto a leggi diverse. Le sue composizioni vertiginose mescolano architettura industriale e colori aciduli in una coreografia dell’assurdo affascinante.

Ascoltatemi bene, banda di snob, è giunto il momento che analizziamo insieme il fenomeno Neo Rauch, questo enigmatico pittore tedesco che ci offre un universo pittorico tanto disturbante quanto irresistibile. Tra i suoi personaggi fermi in una coreografia dell’assurdo e i suoi paesaggi industriali dai colori dolci come caramelle avvelenate, Rauch ci offre uno specchio distorto dove modernità e storia si scontrano senza mai veramente abbracciarsi.

Nato nel 1960 a Lipsia, orfano a quattro settimane dopo la tragica morte dei genitori in un incidente ferroviario, Rauch incarna la figura stessa dell’artista plasmato dall’assenza. Questa ferita originaria sembra aver aperto in lui una crepa temporale, un interstizio dove le epoche si scontrano con la violenza silenziosa di un incubo lucido. Non è un caso se le sue figure sembrano sempre fluttuare in un limbo, come sospese tra due stati di coscienza.

Ogni tela di Rauch è una scena teatrale dove si recita un’opera il cui copione è ignoto anche agli attori. Questi personaggi dall’aspetto di automi, vestiti con uniformi anacronistiche o abiti da lavoro fuori moda, si dedicano a compiti il cui significato ci sfugge. Sono come sonnambuli in un mondo simile al nostro ma che obbedisce a leggi fisiche e sociali differenti.

Ciò che colpisce subito nell’opera di Neo Rauch è la sua relazione ambigua con l’architettura e lo spazio. È impossibile non pensare all’analisi fulminea di Gaston Bachelard sulla poetica dello spazio quando si osservano queste composizioni vertiginose dove l’interno e l’esterno si interpenetrare senza logica apparente. Come scriveva Bachelard, “lo spazio catturato dall’immaginazione non può rimanere lo spazio indifferente affidato alla misura e alla riflessione del geometra. È vissuto” [1]. In Rauch, questo spazio vissuto è quello di una memoria collettiva frammentata, caleidoscopica, dove camini di fabbriche si affiancano a chiese barocche, dove le prospettive crollano come castelli di carte.

I paesaggi industriali che spesso fanno da sfondo ai suoi quadri non sono privi di richiamare quella “topofilia” citata da Bachelard, quel “amore dello spazio” che si lega ai luoghi abitati dalla coscienza. Solo che in Rauch, questi luoghi sono impregnati da una malinconia post-sovietica, come infestati dalle promesse non mantenute di una modernità industriale che è crollata con il Muro di Berlino. I camini delle fabbriche che punteggiano le sue tele non sono solo elementi architettonici, ma totem di una religione estinta, quella del progresso tecnologico come salvezza collettiva.

I colori di Rauch costituiscono un linguaggio a sé stante. Questi rosa caramella, questi gialli acidi, questi blu elettrici contrastano con la gravità delle scene rappresentate. È come se Rauch avesse deciso di dipingere tragedie con la tavolozza di una pubblicità di gelati italiani degli anni ’50. Questa discordanza cromatica produce un effetto di distanziamento che ricorda il teatro epico di Bertolt Brecht. Come spiegava lo stesso Brecht: “Il distanziamento trasforma l’atteggiamento approvativo dello spettatore, basato sull’identificazione, in un atteggiamento critico” [2]. In Rauch, questo distanziamento ci obbliga a interrogarci sulla nostra relazione con la storia recente, in particolare quella della Germania divisa.

Neo Rauch si pone all’incrocio di varie tradizioni pittoriche, assorbendole per meglio sovvertirle. Si percepisce naturalmente l’influenza del realismo socialista nella monumentalità di alcuni personaggi, ma spogliati di ogni eroismo militante, quasi privati della loro sostanza ideologica. C’è anche qualcosa di surrealista, ma un surrealismo che ha rinunciato all’onirismo gioioso di un Dalí per abbracciare una visione più oscura, più controllata, quasi clinica. “Il surrealismo vive nella contraddizione”, scriveva André Breton [3], ed è proprio in quell’interstizio contraddittorio che si colloca l’opera di Rauch, né del tutto figurativa, né astratta; né nostalgica, né futurista; né narrativa, né ermetica.

Prendiamo ad esempio il suo dipinto “Die Fuge” (2007). In primo piano, due personaggi maneggiano strumenti strani mentre sullo sfondo, una struttura architettonica improbabile sembra contemporaneamente crollare e costruirsi. Il titolo fa riferimento alla forma musicale della fuga, questa costruzione contrappuntistica complessa in cui le voci si rispondono a eco, ma anche all’idea di fuga o interstizio. Questa polisemia è tipica di Rauch che ama giocare sui molteplici livelli di lettura possibili delle sue opere.

L’ambivalenza politica di Neo Rauch merita di essere approfondita. Cresciuto nella RDT (Repubblica Democratica Tedesca), formato nel sistema accademico della Germania Est prima della caduta del Muro, Rauch ha conosciuto dall’interno un sistema totalitario che si guarda bene dal glorificare. Ma a differenza di altri artisti della sua generazione, non ha nemmeno abbracciato senza riserve i valori dell’Ovest capitalista. Questa posizione di mezzo gli ha attirato critiche, in particolare dallo storico dell’arte Wolfgang Ullrich che l’ha accusato di inclinare verso una forma di conservatorismo. Rauch ha risposto con un dipinto che rappresenta un critico che defeca in un vaso da camera, prova che la neutralità politica non è sinonimo di assenza di temperamento!

Questa dimensione politica si ritrova anche nella sua tecnica. A differenza di molti artisti contemporanei che delegano l’esecuzione delle loro opere ad assistenti, Rauch dipinge ogni centimetro quadrato delle sue tele. Questo rifiuto della divisione del lavoro può essere letto come una forma di resistenza al sistema di produzione capitalista, un attaccamento quasi artigianale alla materialità dell’opera. Come sottolinea Hannah Arendt in “La condizione dell’uomo moderno”, “l’opera delle nostre mani, in opposizione al lavoro dei nostri corpi, l’homo faber che fa, che costruisce, in opposizione all’animal laborans che fatica e assimila, fabbrica l’infinita varietà di oggetti la cui somma costituisce l’artificio umano” [4]. Rauch è decisamente dalla parte dell’homo faber, del fabbricante che trasforma la materia in senso.

Ciò che mi piace in Rauch è che crea universi che sembrano obbedire a una logica interna rigorosa pur rimanendo fondamentalmente opachi per lo spettatore. Le sue tele sono come sistemi chiusi, autosufficienti, che non hanno bisogno della nostra comprensione per esistere. Questa autonomia dell’opera d’arte, Theodor Adorno l’aveva teorizzata parlando di “enigmaticità” come caratteristica essenziale della vera arte: “Le opere d’arte condividono con gli enigmi questa ambiguità di essere determinate e indeterminate. Sono enigmi perché rompono ciò che potrebbero essere mantenendolo” [5].

Le figure ricorrenti nell’opera di Rauch, quegli uomini in uniforme, quei lavoratori anonimi, quelle donne dall’aspetto di androidi, non sono personaggi in senso narrativo, ma piuttosto archetipi, incarnazioni di posture esistenziali. Mi fanno pensare a ciò che diceva Carl Jung riguardo agli archetipi: “L’archetipo è una tendenza a formare rappresentazioni di un motivo, rappresentazioni che possono variare considerevolmente nei dettagli senza perdere il loro modello di base” [6]. Rauch attinge da questo serbatoio di immagini primordiali per costruire un mondo che ci sembra familiare e allo stesso tempo estraneo.

In “Hüter der Nacht” (2014), un dipinto esposto da David Zwirner, ritroviamo questa qualità archetipica. Un uomo in abito scuro sta in piedi in un paesaggio notturno, tenendo quello che sembra essere una lanterna. È una guardia? Un vegliardo? Una guida? Tutte queste interpretazioni sono possibili, ma nessuna esaurisce il significato dell’immagine. È proprio questa apertura interpretativa che fa la ricchezza dell’opera di Rauch.

Neo Rauch stesso descrive il suo processo creativo come una forma di trance, uno stato meditativo in cui le immagini emergono da una “nebbia bianca” che deve afferrare e portare in superficie. “Mi considero una sorta di sistema di filtrazione peristaltica nel fiume del tempo”, ha dichiarato [7]. Questa metafora organica è rivelatrice: l’artista come corpo attraversato da flussi che filtra e trasforma, piuttosto che come demiurgo onnipotente.

Quell’umiltà di fronte al processo creativo contrasta con l’arroganza di tanti artisti contemporanei che si pongono come profeti di una visione del mondo. Rauch, lui, sembra accettare di essere il medium di una realtà che lo supera, che non pretende di dominare intellettualmente. “Un dipinto dovrebbe essere più intelligente del suo pittore”, afferma [8], rovesciando così la gerarchia tradizionale tra artista e sua opera.

Ciò che mi tocca profondamente nell’opera di Rauch è la sua capacità di creare immagini che resistono alla nostra epoca di consumo visivo accelerato. In un mondo saturato di immagini che si esauriscono in un clic, i suoi quadri richiedono tempo, attenzione, una forma di abbandono. Ci ricordano che vedere davvero è un atto che coinvolge tutto il nostro essere, non solo la nostra retina. Come scriveva John Berger, “vedere viene prima delle parole. Il bambino guarda e riconosce prima di poter parlare” [9]. Rauch ci riporta a questa visione prima, preverbale, dove il mondo ci appare in tutta la sua stranezza.

Neo Rauch è un pittore la cui opera sfugge alle categorie semplici. Né del tutto contemporaneo, né anacronistico; né astratto, né strettamente figurativo; né concettuale, né naïf, occupa un territorio singolare nel panorama artistico attuale. E forse questa è la sua più grande riuscita: aver creato un universo pittorico immediatamente riconoscibile, un mondo parallelo che obbedisce alle proprie leggi fisiche e metafisiche.

Per voi che contemplate le sue tele con un misto di fascinazione e perplessità, non cercate tanto di capirle quanto di lasciarvi catturare da esse. Come portali verso una realtà alternativa in cui la nostra storia recente, con le sue utopie crollate e i suoi sogni incompiuti, viene rivissuta secondo uno scenario diverso. È un mondo in cui Est e Ovest, passato e futuro, quotidiano e mitico coesistono in una strana armonia discordante. Un mondo che ci ricorda che la nostra realtà, quella che diamo per scontata, potrebbe essere solo una delle tante versioni possibili che ci abitano.

Allora, la prossima volta che incrocerete una tela di Rauch in un museo o in una galleria, prendetevi il tempo di perdervi in essa. Lasciatevi destabilizzare da quei colori improbabili, quelle prospettive spezzate, quelle figure in assenza di gravità. Perché, come diceva giustamente Klee, “l’arte non riproduce il visibile, rende visibile” [10]. E ciò che Rauch rende visibile è forse quella parte di stranezza irriducibile che giace nel cuore stesso della nostra modernità.


  1. Bachelard, Gaston. La poetica dello spazio. Parigi: Presses Universitaires de France, 1957.
  2. Brecht, Bertolt. Piccolo organon per il teatro. Parigi: L’Arche, 1963.
  3. Breton, André. Manifesto del surrealismo. Parigi: Gallimard, 1924.
  4. Arendt, Hannah. Condizione dell’uomo moderno. Parigi: Calmann-Lévy, 1961.
  5. Adorno, Theodor W. Teoria estetica. Parigi: Klincksieck, 1974.
  6. Jung, Carl Gustav. L’uomo e i suoi simboli. Parigi: Robert Laffont, 1964.
  7. Rauch, Neo, citato in “Neo Rauch: Comrades and Companions”, film documentario di Nicola Graef, 2016.
  8. Rauch, Neo, intervista con Paul Laster, Conceptual Fine Arts, 2019.
  9. Berger, John. Vedere il vedere. Parigi: Alain Moreau, 1976.
  10. Klee, Paul. Teoria dell’arte moderna. Parigi: Denoël, 1985.
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Riferimento/i

Neo RAUCH (1960)
Nome: Neo
Cognome: RAUCH
Genere: Maschio
Nazionalità:

  • Germania

Età: 65 anni (2025)

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