Ascoltatemi bene, banda di snob, un cowboy francese ha invaso l’Ovest americano, ed è ora che ne parliamo. Mark Maggiori, questo francese nato a Fontainebleau che ha scambiato il suo microfono da cantante di nu metal per un pennello, ci offre una visione dell’America più americana degli stessi americani. Lo trovate ironico? Aspettate il seguito.
Permettetemi di descrivervi questo fenomeno: un artista che dipingeva nuvole a forma di orgia durante i suoi studi di arte a Parigi si ritrova oggi a vendere i suoi quadri per centinaia di migliaia di dollari alle aste. Sì, avete letto bene. I suoi dipinti di cowboy sotto cieli drammatici vengono venduti come pane in una colonia estiva. E non è un caso, è un ribaltamento culturale.
Maggiori è un impostore geniale. Un francese che è riuscito a infiltrarsi nella mitologia americana più sacra, quella del cowboy, e a restituirla agli americani come se fosse il loro stesso riflesso, ma migliore. È come se un newyorkese arrivasse a Parigi per dipingere i francesi con berretto e baguette, e tutta la Francia esclamasse: “Finalmente qualcuno che ci capisce!” L’assurdità è totale, ed è proprio per questo che è brillante.
Ciò che è deliziosamente perverso in questa storia è che Maggiori cattura un’America che non esiste più, o che forse non è mai veramente esistita. I suoi quadri sono finestre aperte sul più tipico sogno americano: l’uomo libero in un paesaggio infinito, sotto un cielo minaccioso e magnifico. Un sogno che fa vibrare le corde sensibili dell’identità americana con la precisione di un arciere zen.
Guardando le sue opere come “Purple Haze” o “The Seeker”, si è colpiti da un’evidente citazione al cinema western, in particolare quello di John Ford. Ecco il nostro primo indizio. Maggiori non è semplicemente un pittore, è un regista frustrato che ha scelto la tela ferma invece delle immagini in movimento. Il suo lavoro è impregnato di tecniche cinematografiche, inquadratura perfetta, luce drammatica, momento sospeso, come se avesse congelato le sequenze più emblematiche dei grandi western.
Ogni quadro è un piano accuratamente composto, dove la profondità di campo gioca un ruolo essenziale, proprio come nei vasti panorami di Ford. In “Monument Valley”, Ford ha creato un paesaggio mitico, trasformando un luogo reale in simbolo dell’Ovest americano [1]. Maggiori fa esattamente lo stesso. I suoi cieli, le sue pianure, i suoi canyon non sono semplici scenari, sono personaggi a sé stanti, proprio come in Ford, dove il paesaggio diventa spesso un attore silenzioso ma potente della narrazione.
I cowboy di Maggiori, come gli eroi fordiani, sono spesso ripresi dal basso verso l’alto, magnificati dalla loro posizione nello spazio. Questa tecnica, che Ford usava per dare una dimensione mitica a John Wayne, Maggiori la applica ai suoi soggetti per elevarli al rango di icone. Non è un caso che si provi la stessa emozione davanti a “La Chevauchée fantastique” e davanti a “Thunderhead Riders” di Maggiori, entrambi giocano sulla nostra fascinazione per gli eroi solitari e silenziosi.
Ford diceva: “Faccio western. È così che guadagno da vivere” [2]. Maggiori potrebbe dire la stessa cosa. Ma al di là di questa semplicità apparente, entrambi creano una mitologia americana più vera del vero, uno specchio deformante che riflette agli americani ciò che vogliono essere piuttosto che ciò che sono.
Ma il cinema non è l’unico riferimento che nutre l’opera di Maggiori. Il suo lavoro è anche profondamente radicato in un approccio sociologico che esplora la costruzione dei miti nazionali e la loro funzione nella psiche collettiva. Guardando i quadri di Maggiori, quei cowboy cristallizzati nella loro grandezza sotto cieli apocalittici, si può vedere un’applicazione pratica delle teorie del sociologo Émile Durkheim sui simboli collettivi e il loro potere di coesione sociale. Durkheim ha dimostrato come le società creano totem, simboli sacri che rappresentano la comunità stessa, e come questi simboli diventano oggetti di venerazione [3].
Il cowboy americano è esattamente questo: un totem moderno, un simbolo quasi religioso che incarna i valori fondanti dell’identità americana, libertà, individualismo, coraggio di fronte alla natura selvaggia. Maggiori, con uno sguardo esterno ma ammirato, cattura l’essenza di questo totem e lo rafforza, partecipando così al mantenimento di quella che Durkheim chiamerebbe “la coscienza collettiva” americana.
C’è qualcosa di profondamente durkheimiano nel modo in cui Maggiori santifica i suoi soggetti. I suoi cowboy non sono semplicemente uomini, sono manifestazioni di un ideale sociale. Durkheim spiegava che “la religione è qualcosa di eminentemente sociale” [4], e si potrebbe dire lo stesso del culto del cowboy nell’immaginario americano. Ironia della sorte, Maggiori ne è diventato uno dei grandi sacerdoti.
Quello che è interessante è che Maggiori, in quanto straniero, può vedere questo totem più chiaramente di chi è cresciuto con esso. Osserva la mitologia americana con uno sguardo nuovo, senza il cinismo che potrebbe influenzare un artista americano contemporaneo che affronta gli stessi temi. La sua sincerità è tanto rinfrescante quanto destabilizzante.
La sociologia durkheimiana ci insegna anche come i rituali collettivi rinforzino la coesione sociale. Le mostre di Maggiori, i suoi “drops” di litografie che creano una frenesia di acquisto online, funzionano esattamente come questi rituali. I suoi fan non partecipano semplicemente a un atto commerciale, ma comunicano con un simbolo della loro identità collettiva.
Analizzando la carriera di Maggiori attraverso questa lente sociologica, si comprende meglio perché questo francese è riuscito a imporsi così rapidamente in un campo tradizionalmente riservato agli americani. Non è semplicemente un osservatore esterno, è diventato un partecipante attivo nella produzione e nel mantenimento dei simboli collettivi americani. E lo fa con un’autenticità che disarma ogni critica.
Durkheim sottolineava l’importanza delle “rappresentazioni collettive” che permettono alle società di pensare a se stesse e di mantenersi nel tempo [5]. I dipinti di Maggiori funzionano esattamente come queste rappresentazioni collettive per l’America contemporanea, offrendo un’immagine idealizzata di sé in un momento di profonda crisi identitaria.
Osservate cosa succede in una galleria quando viene svelato un nuovo Maggiori. Gli americani si radunano, si entusiasmano, si riconoscono in queste immagini di un tempo che in realtà non hanno mai conosciuto. È esattamente ciò che Durkheim descriveva: il potere di un simbolo collettivo di creare un senso di appartenenza e di continuità storica, anche se artificiale.
Ma c’è di più. La visione di Maggiori non è solo nostalgica, è anche stranamente contemporanea. I suoi cowboy non sono semplicemente reliquie di un passato idealizzato, sono avatar di ciò che molti americani aspirano ancora a essere: uomini (e talvolta donne) liberi, autosufficienti, in comunione diretta con una natura grandiosa e terribile.
In un’America sempre più urbanizzata, digitalizzata e disconnessa dai suoi miti fondatori, Maggiori offre una riconnessione, un ritorno alle radici simboliche. È proprio questa la funzione sociale essenziale dei totem e dei rituali identificata da Durkheim: mantenere la coesione sociale riaffermando i valori fondamentali della comunità.
La cosa più ironica di tutto ciò è che sia un francese, uno straniero assoluto a questa mitologia, a svolgere questo ruolo. Maggiori è come un antropologo che, dopo aver studiato a lungo una tribù straniera, finisce per diventare uno dei suoi sciamani più rispettati. Ha integrato i codici così perfettamente da dominarli meglio dei nativi.
Passiamo ai cieli di Maggiori, quelle nuvole drammatiche che sembrano sul punto di inghiottire i suoi cowboy. Questi cieli non sono semplici elementi decorativi, sono i veri protagonisti delle sue opere. Rappresentano la grandezza e il terrore della natura americana, quel senso del sublime che ha sempre definito il rapporto degli americani con il loro paesaggio.
Questi cieli tumultuosi stabiliscono una tensione drammatica essenziale nell’opera di Maggiori: l’uomo minuscolo di fronte all’immensità della natura. Non è un caso se questa tensione sia al centro stesso della mitologia americana, dove l’individuo è perpetuamente definito dalla sua capacità di affrontare e sopravvivere in una natura ostile ma magnifica.
Dipigendo questi cieli minacciosi, Maggiori non si limita a riprodurre una tecnica pittorica, ma tocca qualcosa di profondamente radicato nella psiche americana: la convinzione che il carattere nazionale sia stato forgiato da questo confronto con la natura selvaggia. È un’idea che lo storico Frederick Jackson Turner ha teorizzato nella sua celebre “Frontier Thesis”, dove sostiene che l’identità americana si sia costruita proprio su questa linea di confine tra civiltà e selvatichezza [6].
La cosa più strana nella storia di Maggiori è questa traiettoria improbabile. Come fa un cantante francese di nu metal a diventare il beniamino del mercato dell’arte western americano? È come se Joey Starr si mettesse a dipingere scene di caccia alla volpe e tutta l’aristocrazia britannica si strappasse le sue tele. L’assurdità è totale.
Ma forse è proprio questa distanza che dà forza a Maggiori. Non essendo americano, non deve confrontarsi con le complessità politiche e storiche della rappresentazione del cowboy. Può affrontarla con una freschezza ingenua, come un simbolo puro piuttosto che come un personaggio storico problematico.
Questa distanza gli permette anche di evitare le trappole del kitsch in cui cadono molti artisti western. I suoi cowboy non sono caricature, hanno una presenza, una gravità che li radica in una realtà tangibile nonostante la loro dimensione mitica. È un equilibrio difficile da mantenere, e forse qui risiede il vero genio di Maggiori.
C’è qualcosa di profondamente paradossale nel successo di Maggiori. Da un lato, i suoi quadri sono terribilmente tradizionali nella tecnica e nel soggetto. Dall’altro, il solo fatto che un francese possa appropriasi così completamente dell’iconografia americana è di per sé un atto quasi sovversivo, un commento involontario sulla globalizzazione dei miti nazionali.
Riflettendoci, non c’è niente di più americano di questa storia. Uno straniero che arriva, si appropria dei codici locali, li domina meglio dei nativi e finisce per fare fortuna. È il sogno americano nella sua forma più pura, una storia di successo che conferma il mito stesso che sfrutta.
Quindi sì, Maggiori è forse un impostore, ma è un impostore geniale, e la sua impostura rivela più verità sull’America contemporanea di molte analisi sociologiche erudite. Ci mostra come i miti sopravvivano, si trasformino, si globalizzino, mantenendo però il loro potere emotivo fondamentale.
Forse qui risiede il vero interesse dell’opera di Maggiori: non nelle sue indiscutibili qualità tecniche o nel suo fenomenale successo commerciale, ma in ciò che ci rivela sulla persistenza dei miti nazionali nell’era della globalizzazione. Su come un francese possa diventare più americano degli americani, mostrando loro ciò che disperatamente vogliono continuare a credere di essere.
E voi, banda di snob che pensate di sapere tutto sull’arte contemporanea, che ridacchiate davanti a questi cowboy sotto cieli drammatici, forse state perdendo uno dei fenomeni artistici più rivelatori della nostra epoca. Un fenomeno che ci mostra come i miti nazionali possano trascendere le frontiere pur mantenendo il loro potere emotivo. Una lezione che l’arte concettuale, con tutta la sua intelligenza, fatica spesso a trasmetterci con altrettanta efficacia.
- Gallagher, T. (2009). “John Ford: L’uomo e i suoi film”. University of California Press.
- Bogdanovich, P. (1978). “John Ford”. University of California Press.
- Durkheim, É. (1912). “Le forme elementari della vita religiosa”. Presses Universitaires de France.
- Ibid.
- Durkheim, É. (1898). “Rappresentazioni individuali e rappresentazioni collettive”. Revue de Métaphysique et de Morale.
- Turner, F. J. (1893). “Il significato della frontiera nella storia americana”. Annual Report of the American Historical Association.
















