English | Italiano

Martedì 18 Novembre

ArtCritic favicon

Pélagie Gbaguidi : Ecologia decoloniale

Pubblicato il: 16 Novembre 2025

Di: Hervé Lancelin

Categoria: Critica d’arte

Tempo di lettura: 12 minuti

Pélagie Gbaguidi esplora la storia coloniale attraverso dipinti, disegni e installazioni che mettono a confronto gli archivi della dominazione. Quest’artista beninese con base a Bruxelles, che si definisce griot contemporaneo, estrae le violenze e i traumi del Codice Nero per creare opere memoriali in cui ogni perforazione diventa un gesto di cura e di resistenza collettiva.

Ascoltatemi bene, banda di snob: voi che frequentate i vernissage sorseggiando pessimo champagne, voi che collezionate significanti senza mai confrontarvi con i significati, preparatevi a incontrare un’artista che rifiuta le vostre categorie confortevoli. Pélagie Gbaguidi, nata a Dakar nel 1965 e stabilitasi a Bruxelles, non si cura dei vostri complimenti sdolcinati sull’estetica delle sue opere. Questa beninese, formatasi all’École des beaux-arts Saint-Luc di Liegi nel 1995, si definisce come griot contemporaneo, termine che dovrebbe farvi riflettere sulla vostra posizione di spettatori occidentali, comodamente adagiati nell’amnesia collettiva.

Il suo lavoro non è decorativo, è viscerale. I suoi dipinti, disegni e installazioni non cercano di piacere ma di squarciare il velo d’oblio con cui abbiamo coperto le violenze fondanti della nostra modernità. Quando espone alla Documenta 14 nel 2017 la sua monumentale installazione The Missing Link: Dicolonisation Education by Mrs Smiling Stone, non si limita a occupare lo spazio, lo infesta. Banchi di scuola, rotoli di carta sospesi dal soffitto, fotografie di archivio, terra e rossetto su carta: questi sono i materiali con cui Gbaguidi costruisce le sue epopee memoriali. Questa installazione interroga frontalmente la trasmissione del sapere sulla schiavitù, il nazismo e l’apartheid, ponendo la domanda scomoda: chi decide cosa merita di essere insegnato, cosa deve essere ricordato, cosa può essere dimenticato?

Il legame tra Gbaguidi e il pensiero decoloniale, particolarmente quello sviluppato dal filosofo martinicano Malcom Ferdinand, non è casuale ma strutturale. Nel suo libro Une écologie décoloniale pubblicato nel 2019, Ferdinand teorizza quella che lui definisce la “doppia frattura” della modernità: da un lato, la frattura ambientale promossa da una civiltà tecnocratica e capitalista; dall’altro, la frattura coloniale instaurata dalla colonizzazione occidentale e dall’imperialismo [1]. Gbaguidi incarna artisticamente questa doppia frattura che Ferdinand concettualizza filosoficamente. Quando dichiara in un’intervista: “Ho sviluppato una linea di ricerca connessa considerando la natura come un archivio fisico e organico” [2], si riallaccia esattamente alla preoccupazione di Ferdinand che afferma che la crisi ecologica non può essere separata dalla storia coloniale.

L’artista va oltre affermando: “la scoperta dei siti preistorici di Sterkfontein mi ha profondamente ispirata, e risuona ancora più intensamente oggi nel registro dell’ecologia decoloniale, in riferimento al lavoro di Malcom Ferdinand, e a come la natura sia testimone di tutte queste tragedie e crisi che attraversiamo” [2]. Questa convergenza intellettuale tra Gbaguidi e Ferdinand rivela una comprensione comune: le lotte antirazziste, femministe, per i diritti e le libertà devono trovare un terreno comune, poiché derivano tutte dalla violenza dell’eredità coloniale e dell’imperialismo come indicatori attuali delle crisi economiche, identitarie ed ecologiche mondiali. Gbaguidi non si limita a illustrare queste idee, le incarna in una pratica artistica che fa del suo stesso corpo un luogo di resistenza e riparazione.

Nel suo progetto Hunger, creato con un collettivo di artisti chiamato On-trade-Off a Z33 Hasselt, Gbaguidi solleva la questione della fame nel mondo ponendo questa domanda fondamentale: perché non parliamo delle cause della povertà? Questa domanda richiama direttamente il pensiero di Ferdinand che, nella sua concezione dell’ecologia decoloniale, insiste sulla necessità di rivelare le cause della povertà piuttosto che accettarla come un dato di fatto. Per Gbaguidi come per Ferdinand, si tratta di produrre conoscenze che contribuiscano a eliminare la colonialità e a migliorare le condizioni di vita sul pianeta. L’artista rifiuta la compartimentazione delle lotte e mostra che la predazione delle risorse naturali, le violenze contro i corpi razzializzati e la distruzione ecologica sono intrinsecamente legate.

Le opere di Gbaguidi materializzano quello che Ferdinand chiama “l’abitazione coloniale” della terra, questo modo particolare di abitare il mondo che nega all’altro, umano o non umano, il diritto di essere convivente del pianeta. I suoi disegni e dipinti, con le loro perforazioni e buchi che trapassano la superficie della carta o della tela, possono essere interpretati come aperture su un’altra realtà, ma per l’artista sono anzitutto un gesto di cura. Queste perforazioni non sono ferite, ma atti di respirazione, tentativi di lasciare circolare l’aria in storie soffocate. Gbaguidi fora l’archivio ufficiale, quello costruito per giustificare la dominazione, per lasciare emergere le voci dei dominati.

L’artista, definendosi come griot contemporaneo, ridefinisce la dimensione dell’oralità nell’eredità tradizionale attraverso il proprio approccio alla plasticità. Non trasmette soltanto racconti, li riattiva attraverso il gesto artistico. I suoi disegni a matita colorata, a cera e al pastello grasso diventano rituali di riparazione, celebrazioni che sfuggono al trauma. Come spiega: “La materia tossica, legata all’archivio coloniale, è trattata da rime che sono cantate attraverso la poesia, dipinte, disegnate e ritualizzate da gesti performativi. Ogni disegno è una celebrazione che sfugge al trauma, una piccola vittoria sull’orrore psicologico del nostro tempo” [2].

Si Gbaguidi dialoga con la filosofia decoloniale contemporanea, ma allo stesso tempo si radica in uno scontro diretto e senza compromessi con la storia coloniale. Il suo lavoro sul Code Noir, iniziato nel 2004, costituisce uno degli esempi più impressionanti di questa archeologia critica. Il Code Noir, editto reale francese promulgato nel 1685 da Luigi XIV, codificava la schiavitù nelle colonie francesi e definiva giuridicamente lo status di “bene mobile” delle persone ridotte in schiavitù. Questo testo giuridico, che regolava la vita, la morte, le punizioni e la riproduzione degli schiavi, è uno dei monumenti più osceni della storia occidentale. Gbaguidi non evoca questo documento con la distanza accademica degli storici, lo attraversa, lo lacera, lo riscrive.

La sua serie Le Code Noir, presentata in particolare alla Biennale di Dakar nel 2006, è composta da sette tele che estraggono la violenza di questo testo legislativo e la rendono visibile in tutto il suo orrore. L’artista non riproduce il Code Noir, ne fa emergere i traumi visibili e invisibili, le nevrosi collettive che ha generato e che persistono attraverso le generazioni. Questo lavoro memoriale ha portato all’acquisizione di cento disegni da parte del Mémorial ACTe in Guadalupa, riconoscimento del valore sia artistico che pedagogico di quest’opera [3]. Gbaguidi trasforma l’archivio coloniale in uno strumento pedagogico per comprendere i meccanismi dell’asservimento e la fabbricazione delle ideologie razziali.

L’approccio di Gbaguidi nei confronti degli archivi coloniali si distingue radicalmente dall’atteggiamento museale tradizionale. Non si limita a consultare passivamente i documenti storici, li confronta, li interroga, li mette in crisi. Nel suo lavoro Naked Writings, per il quale ha indagato gli archivi del Museo reale dell’Africa centrale a Tervuren, l’artista compie quella che chiama una “de-fossilizzazione dello sguardo”. Il titolo fa riferimento all’importanza del disimparare, di liberarsi dalle convinzioni precedenti e, di conseguenza, di decolonizzare la mente. Gli archivi non sono per lei oggetti inerti del passato ma armi sempre attive che continuano a strutturare il nostro presente.

Quando Gbaguidi crea la sua serie De-Fossilization of the Look nel 2018, in dialogo con la Madonna del Parto di Piero della Francesca (dopo il 1457), non si limita a fare storia dell’arte comparata. Scruta questa immagine del Rinascimento attraverso una serie di disegni automatici e pitture, interrogandosi sulla rappresentazione della maternità sacralizzata e sul ruolo e l’agentività della donna nella società patriarcale. Questa Madonna incinta, il cui abito è disfatto, esponendo un indumento intimo, il cui volto e postura esprimono stanchezza, diventa per Gbaguidi un punto di accesso per mettere in discussione i racconti ufficiali sulla femminilità, la maternità e il corpo.

L’artista sovverte la tradizione rinascimentale della prospettiva lineare con un obiettivo fisheye: cattura tutto simultaneamente, avvolge i suoi soggetti e li dissotterra in fibre, come se li guardasse dall’interno. Come afferma: “Disegno senza prospettiva: la mia prospettiva è una prospettiva da bambino, da uccello, da insetto e da pesce” [3]. Questa dichiarazione non è casuale. Rifiutando la prospettiva lineare, questa conquista tecnica del Rinascimento occidentale che impone un punto di vista unico, centrale e sovrano, Gbaguidi respinge anche l’epistemologia coloniale che pretende che esista un solo modo legittimo di vedere e conoscere il mondo.

La sua installazione per la Biennale di Lubumbashi nel 2019, Echo museum, the archive and Udji Kinge, descritta come “un video sulle performance in cave di minerali, destinato a rivelare spazi psicologici affetti da problemi sociali e politici”, incarna questo metodo di lavoro. Gbaguidi filma i corpi al lavoro nelle miniere della Repubblica Democratica del Congo, questi corpi sfruttati per estrarre i minerali necessari alle nostre tecnologie “verdi”. Riporta: “Nelle miniere della Repubblica Democratica del Congo, donne, bambini e uomini estraggono illegalmente minerali, lavorando a mani nude, senza protezione al sole, per ridurre grandi pietre in ghiaia. Riempiono secchi che vendono per sopravvivere. Tre ore di lavoro per riempire un secchio costano 20 centesimi” [2].

Questa violenza economica contemporanea non è, per Gbaguidi, un incidente del capitalismo globalizzato ma la continuazione diretta dell’estrattivismo coloniale. La storia non è morta, si perpetua sotto nuove forme. L’artista rifiuta il discorso tecno-soluzionista che vorrebbe affermare che le nostre azioni “eco-responsabili” possano essere disconnesse da queste realtà brutali. Al contrario, insiste sul fatto che i nostri comportamenti, ovunque viviamo su questo pianeta, sono legati per creare un’economia della relazione, un’etica morale del benessere mentale.

Durante la pandemia di Covid-19, Gbaguidi ha sviluppato una riflessione particolare sulle intersezioni tra contaminazione, confinamento e politiche di segregazione. Racconta di essere stata richiamata alle indagini di Jacques Derrida sulla sovranità, ma precisa: “Non ero in cerca di sovranità; ero piuttosto in cerca di dialogo con la natura, in cerca di cura, in cerca di riparazione della terra madre” [2]. Questa sfumatura è fondamentale. Gbaguidi non cerca di affermare una sovranità individuale o collettiva che riproduca gli schemi di dominazione, ma di stabilire una relazione di cura con il vivente. Le linee dei suoi disegni l’hanno riportata all’essenziale e hanno riattivato il senso del collettivo. Le hanno permesso di fare più spazio all’invisibile e di metterlo a nudo, rinascendo attraverso i gesti elementari della vita quotidiana e della conversazione.

Questa attenzione alla cura attraversa tutta la sua pratica recente. Le perforazioni nei suoi disegni e dipinti, che descrive esplicitamente come “un atto di cura”, funzionano come respiri in narrazioni soffocanti. La sua opera Chaine Humaine (2022), serie di disegni realizzati a pastello grasso, lana e matita colorata su carta, mostra corpi intrecciati, connessi, formando catene che evocano sia la concatenazione della schiavitù sia la solidarietà della resistenza. Questi corpi non sono individualizzati ma collettivi, ricordando che la liberazione può essere solo un’impresa comune.

Nella sua mostra Le jour se lève alla Galleria Zeno X nel 2022, Gbaguidi pone domande che risuonano direttamente con l’urgenza politica contemporanea: Come possiamo esistere senza dominare gli altri? Perché la società ha bisogno di capitale umano? Qual è il legame tra oggetto e soggetto nel mondo capitalista? Queste interrogazioni non sono retoriche ma materializzate nelle opere esposte, che articolano il dolore e la violenza continua e latente legate alle nevrosi collettive. I dipinti Le jour se lève: Ritual & Green e Le jour se lève: The Mutants (2021), realizzati ad acrilico e pigmento su tela, presentano figure umane in mutazione, immerse in un processo di trasformazione che potrebbe essere sia una disumanizzazione sia una reinvenzione radicale del corpo.

Gbaguidi coltiva la sua connessione alle percezioni animiste e matriarcali del mondo, intrinseche alla cultura pre-coloniale del Benin. Trasmette uno spirito animato da impressioni ancestrali ereditate e contemporanee. Questa trasmissione non è nostalgica ma decisamente orientata al futuro. L’artista non cerca di far rivivere un passato idealizzato, ma di attingere alle epistemologie e cosmologie che la colonizzazione ha tentato di cancellare, per costruire altri modi di abitare il presente e di immaginare il futuro. La sua pratica artistica è in questo senso profondamente politica: propone una redistribuzione radicale del sensibile, per usare un’espressione che potremmo prendere in prestito da altri pensatori, una messa in discussione di ciò che può essere visto, detto, pensato o immaginato.

La potenza dell’opera di Gbaguidi risiede nella sua capacità di mantenere insieme più temporalità: il passato coloniale che non passa, il presente segnato dalla persistenza delle strutture di dominio, e un futuro che va costruito in modo diverso. I suoi rotoli di carta sospesi, i suoi disegni che si estendono per metri di lunghezza, materializzano questa temporalità estesa. L’opera non è mai chiusa, si svolge, continua e insiste. I gesti ripetitivi del disegno, tratto dopo tratto, figura dopo figura, diventano una forma di resistenza all’oblio, un’insistenza testarda a far esistere ciò che è stato negato.

Allora, voi che siete arrivati fin qui, cosa ricordare? Che Pélagie Gbaguidi non è un’artista che si può tranquillamente integrare nelle vostre collezioni senza essere trasformati. Il suo lavoro richiede da voi una responsabilità: quella di riconoscere la vostra posizione nei sistemi di dominio che lei mette a nudo. Non potete accontentarvi di apprezzare “esteticamente” queste opere senza confrontarvi con ciò che esse dicono del nostro mondo. La bellezza che lei crea non è consolatoria ma destabilizzante. Non viene ad alleviare le vostre angosce contemporanee ma ad intensificarle, a renderle produttive. Perché questo è il magnifico paradosso di questa artista: confrontandoci con le peggiori atrocità della nostra storia collettiva, apre la possibilità di altri modi di essere insieme. I suoi fori sono respirazioni, le sue catene sono solidarietà, i suoi archivi morti diventano vivi.

L’opera di Gbaguidi ci ricorda che l’arte non è un lusso ma una necessità vitale. In un mondo in cui i discorsi ufficiali cercano costantemente di minimizzare, edulcorare, dimenticare le violenze strutturali, l’artista mantiene aperta la ferita della memoria. Non per masochismo, ma perché solo una memoria viva può permettere una guarigione autentica. Come esprime con una lucidità tagliente: “Il mio lavoro ruota attorno all’idea di vedere la parola e le immagini come segni che devono essere decifrati e trasmessi” [2]. Decifrare e trasmettere: ecco il doppio movimento che anima la sua pratica. Decifrare i segni che la colonialità ha inscritto nei nostri corpi, nei nostri territori, nei nostri immaginari. Trasmettere non una verità definitiva ma un metodo d’indagine, un modo di restare vigilanti, di non lasciarsi addormentare dai racconti convenzionali.

Di fronte all’amnesia collettiva che le nostre società coltivano con tanta cura, Gbaguidi oppone una memoria attiva, critica, performativa. Il suo lavoro non è quello di una storica che documenta il passato, ma quello di una griotta che convoca i morti affinché infestino il presente e ci obblighino a rispondere delle nostre azioni. In questo confronto senza concessioni con l’orrore storico, paradossalmente c’è una forma di speranza, non la speranza ingenua che tutto andrà meglio, ma la speranza ostinata che un altro modo di abitare il mondo rimanga possibile se accettiamo di guardare in faccia da dove veniamo. L’opera di Pélagie Gbaguidi non ci offre una consolazione facile, ma ci dona qualcosa di più prezioso: la possibilità di pensare e agire diversamente, di costruire ciò che lei chiama, con altri, una “economia della relazione”, un mondo in cui le lotte ecologiche e decoloniali non sarebbero più separate ma capirebbero che affrontano lo stesso avversario. È questa lucidità implacabile, servita da una pratica artistica di rara intensità, che fa di Gbaguidi una figura imprescindibile dell’arte contemporanea. Non perché ci lusinghi, ma perché ci obbliga a crescere.


  1. Malcom Ferdinand, Una ecologia decoloniale. Pensare l’ecologia dal mondo caraibico, Parigi, Le Seuil, 2019
  2. Jareh Das, “The Body as Archive”, intervista con Pélagie Gbaguidi, Ocula Magazine, 18ª Biennale di Istanbul, 2023
  3. “Pélagie Gbaguidi”, Archives of Women Artists, Research and Exhibitions, 2024
Was this helpful?
0/400

Riferimento/i

Pélagie GBAGUIDI (1965)
Nome: Pélagie
Cognome: GBAGUIDI
Genere: Femmina
Nazionalità:

  • Benin

Età: 60 anni (2025)

Seguimi