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Philip Taaffe: l’alchimista della storia dell’arte

Pubblicato il: 27 Novembre 2024

Di: Hervé Lancelin

Categoria: Critica d’arte

Tempo di lettura: 6 minuti

Philip Taaffe trasforma motivi storici e culturali creando opere che oscillano tra astrazione e ornamento, fondendo riferimenti visivi in composizioni complesse che interrogano la nostra relazione con la storia dell’arte e la natura stessa.

Ascoltatemi bene, banda di snob, parliamo di Philip Taaffe (nato nel 1955), questo alchimista visivo che si prende per il grande archivista della storia dell’arte ma che, in realtà, è molto di più. Forse lo conoscete per le sue appropriazioni degli anni ’80, ma lasciate che vi dica che non avete capito nulla dell’essenza stessa del suo lavoro.

Guardate attentamente le sue opere monumentali, queste testimonianze visive che trascendono la semplice nozione di appropriazione. Taaffe non è un semplice copista, come alcuni spiriti ristretti vorrebbero farci credere. No, è piuttosto quello che Walter Benjamin avrebbe chiamato un “collezionista dialettico”, che manipola forme e simboli con una precisione chirurgica che farebbe invidia a un neurochirurgo. Le sue tele sono laboratori dove disseziona il DNA stesso della storia dell’arte, creando ibridi visivi che sfidano ogni categorizzazione semplicistica.

La prima caratteristica della sua opera risiede nella sua relazione complessa con l’astrazione storica. Quando Taaffe si appropria degli “zips” di Barnett Newman o dei motivi ottici di Bridget Riley, non è per pigrizia intellettuale o per una semplice citazione postmoderna. No, egli procede a una vera trasmutazione alchemica di questi riferimenti. Come avrebbe analizzato Rosalind Krauss, egli opera un “allargamento del campo” dell’astrazione, creando quella che definirei una “metastruttura pittorica”. In “We Are Not Afraid” (1985), non si limita a riprendere il motivo di Newman, lo contorce, lo deforma, lo fa spiraleggiare come un DNA visivo che si replica all’infinito. Quest’opera non è un omaggio servile, è una sfida, un dialogo teso con la storia dell’arte che ricorda ciò che Theodor Adorno diceva sulla dialettica negativa: la contraddizione diventa il motore stesso della creazione.

Le sue tecniche di stampa, collage e sovrapposizione non sono semplici procedimenti tecnici, ma strumenti filosofici che mettono in discussione la natura stessa dell’originalità nell’arte. Come avrebbe sottolineato John Berger, ogni strato delle sue opere è un “modo di vedere” differente che si accumula per creare una nuova realtà visiva. La serigrafia non è più semplicemente un mezzo di riproduzione, ma diventa uno strumento di trasformazione ontologica dell’immagine. Questo approccio ricorda stranamente la teoria della “riproducibilità tecnica” di Benjamin, ma portata ai suoi ultimi limiti.

La seconda caratteristica del suo lavoro è il suo approccio transculturale all’ornamento. Taaffe non si limita a saccheggiare i motivi islamici, bizantini o tribali come un turista visivo in cerca di esotismo. No, crea quello che Geoffroy de Lagasnerie chiamerebbe un pensiero critico sull’appropriazione culturale. Le sue opere diventano spazi di negoziazione culturale dove i motivi perdono la loro specificità geografica per acquisire una nuova universalità. In “Screen with Double Lambrequin” (1989), i motivi orientali si mescolano ai riferimenti occidentali in una danza macabra che trascende le frontiere culturali.

Ciò che è particolarmente interessante è il modo in cui Taaffe usa questi riferimenti ornamentali non come semplici decorazioni, ma come elementi strutturali che portano il peso concettuale dell’opera. Lucy Lippard probabilmente avrebbe visto in questo approccio una forma paradossale di “dematerializzazione dell’arte”, dove l’ornamento, tradizionalmente considerato superficiale, diventa il fondamento stesso del significato.

Le sue composizioni complesse, con i loro strati sovrapposti e i motivi intrecciati, creano ciò che Linda Nochlin avrebbe identificato come una “sovversione delle gerarchie tradizionali dell’arte”. L’ornamento non è più subordinato alla struttura, diventa la struttura stessa. Questo approccio ricorda il modo in cui alcuni filosofi contemporanei come Jacques Rancière pensano la “distribuzione del sensibile”: Taaffe rimescola le carte della gerarchia visiva, creando un nuovo regime estetico dove ornamentale e strutturale sono indissolubili.

Prendete “Imaginary Garden with Seed Clusters” (2013), dove i motivi botanici si trasformano in un doppio elica visiva che evoca tanto il DNA quanto le illuminazioni medievali. Quest’opera non è solo una semplice celebrazione della natura, è una meditazione profonda sulla struttura stessa della vita e dell’arte. Le forme naturali diventano segni culturali, e viceversa, in un continuo andirivieni che ricorda le teorie di Claude Lévi-Strauss sul pensiero selvaggio.

La sua pratica della marmorizzazione e della decalcomania non è solo una semplice tecnica decorativa, ma una metafora della sedimentazione storica, un modo per materializzare il tempo nello spazio pittorico. Ogni strato di pittura diventa una stratificazione temporale, creando ciò che Arthur Danto avrebbe chiamato una “trasfigurazione del banale” dove la tecnica diventa essa stessa portatrice di significato filosofico.

I critici superficiali che lo riducono a un semplice appropriazionista degli anni 1980 passano completamente alla cieca la complessità del suo progetto. Taaffe non si limita a citare la storia dell’arte, la digerisce, la trasforma e la rigenera. Le sue opere sono macchine del tempo che collegano le grotte di Lascaux agli ultimi progressi della biologia molecolare, tutto in un balletto visivo di una complessità vertiginosa.

L’artista crea ciò che Michel Foucault avrebbe chiamato un “eterotopia pittorica”, uno spazio in cui diverse temporalità e culture coesistono simultaneamente. Nelle sue opere più recenti, come “Painting with Diatoms and Shells” (2022), spinge questa logica ancora più avanti, creando composizioni in cui le forme microscopiche della vita marina si trasformano in motivi cosmici. Quest’opera non è una semplice illustrazione scientifica, ma una meditazione profonda sulle strutture che sottendono ogni forma di vita.

La sua tecnica del “litho-scraping”, sviluppata durante la pandemia, non è solo un’innovazione tecnica, ma una risposta esistenziale alla nostra epoca di riproduzione digitale frenetica. Utilizzando l’inchiostro litografico su lastra di vetro, crea immagini che oscillano tra l’impronta fossile e l’ologramma digitale, mettendo così in discussione il nostro rapporto con la materialità stessa dell’immagine in un mondo sempre più virtuale.

Contrariamente ad alcuni artisti contemporanei che si limitano a cavalcare le tendenze del mercato, Taaffe scava profondamente negli strati della storia visiva, creando ciò che Roland Barthes avrebbe chiamato un “grado zero della pittura”, dove ogni gesto pittorico è simultaneamente un’affermazione e un’interrogazione. Le sue opere non sono prodotti finiti ma processi in corso, laboratori visivi dove la storia dell’arte è costantemente reinventata.

E non venga detto che il suo lavoro è troppo intellettuale o elitario. Al contrario, crea ciò che Jacques Rancière chiamerebbe una “condivisione del sensibile” democratica, dove ogni spettatore può entrare nell’opera al proprio livello, sia tramite la pura sensazione visiva che tramite l’analisi concettuale più raffinata. Le sue composizioni sono come partiture musicali complesse che possono essere apprezzate tanto per la loro melodia superficiale quanto per la loro struttura armonica profonda.

Taaffe ci ricorda che la vera innovazione non consiste nello spazzare via il passato, ma nel reinventarlo in modo critico e creativo. Le sue opere sono macchine per pensare che ci costringono a riconsiderare il nostro rapporto con la storia, la cultura e la natura stessa. Non si tratta semplicemente di pittura, ma di una vera epistemologia visiva che mette in discussione le nostre certezze più fondamentali sull’arte e la sua funzione nella società contemporanea.

E se pensate ancora che Taaffe sia solo un abile manipolatore di riferimenti storici, è perché non avete capito nulla della profondità del suo progetto. Non si tratta di citazione ma di trasformazione, non di appropriazione ma di trasfigurazione. Ognuna delle sue opere è un microcosmo che contiene tutta la storia dell’arte, non come un museo morto ma come un organismo vivente in continua evoluzione.

In un mondo dove l’arte contemporanea sembra spesso persa tra il cinismo del mercato e la vacuità concettuale, Taaffe ci mostra che è ancora possibile creare opere che siano allo stesso tempo intellettualmente stimolanti e visivamente sumptuous. Ci ricorda che la pittura non è morta, ma continua a reinventarsi, a patto di avere il coraggio di immergersi nelle sue profondità più oscure per estrarne nuove possibilità.

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Riferimento/i

Philip TAAFFE (1955)
Nome: Philip
Cognome: TAAFFE
Genere: Maschio
Nazionalità:

  • Stati Uniti

Età: 70 anni (2025)

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