English | Italiano

Martedì 18 Novembre

ArtCritic favicon

Rachel Whiteread : Scultrice dell’invisibile

Pubblicato il: 13 Settembre 2025

Di: Hervé Lancelin

Categoria: Critica d’arte

Tempo di lettura: 8 minuti

Rachel Whiteread rivoluziona la scultura contemporanea colando l’invisibile: l’interno di una borsa dell’acqua calda, lo spazio sotto una scala, l’anima di una casa vittoriana. I suoi calchi del vuoto creano monumenti funerari di una bellezza straordinaria che rivelano la poesia segreta dei nostri spazi domestici più banali.

Ascoltatemi bene, banda di snob: Rachel Whiteread scolpisce l’invisibile con la precisione di un chirurgo e la delicatezza di un becchino. Da più di tre decenni, questa artista britannica nata nel 1963 trasforma i nostri spazi domestici più banali in monumenti funerari di una bellezza mozzafiato. Prima donna a vincere il Turner Prize nel 1993, ha rivoluzionato la scultura contemporanea colando non gli oggetti stessi, ma i vuoti che essi delimitano.

Il suo procedimento, di una semplicità disarmante, consiste nel creare uno stampo dell’aria che ci circonda: l’interno di una borsa dell’acqua calda diventa un torso spettrale in gesso rosa, lo spazio sotto una scala si trasforma in cemento monumentale, l’anima di una casa vittoriana risorge come un blocco di cemento immacolato. Whiteread non riproduce il mondo, ne estrae i fantasmi. Ogni opera funziona come un negativo fotografico della nostra esistenza, rivelando ciò che non vediamo mai: le forme vuote che danno senso alle nostre vite.

Questa particolare alchimia trova le sue radici in un gesto iniziale che lei stessa descrive come un “momento hallelujah”: a diciannove anni preme un cucchiaio nella sabbia e vi colma metallo fuso. L’oggetto risultante possiede la forma di un cucchiaio pur avendo perso la sua funzione stessa di cucchiaio. Questa epifania artistica contiene in nuce tutta la sua estetica: elevare la banalità del quotidiano tramite un semplice ribaltamento concettuale.

L’architettura come memoria collettiva

L’opera di Whiteread intrattiene legami profondi con la storia dell’architettura moderna e i suoi traumi sociali. Nata nell’Inghilterra di Margaret Thatcher, è cresciuta in un paesaggio urbano segnato dalla distruzione sistematica dei quartieri operai e dalla privatizzazione degli alloggi sociali. Questa violenza architettonica impregna le sue creazioni più emblematiche.

House (1993), il suo capolavoro distruttivo, incarna questa dimensione politica con una forza brutale. Colando l’interno di una casa vittoriana destinata alla demolizione nell’East End londinese, crea un monumento involontario a una classe sociale in via di estinzione. L’opera, distrutta dal consiglio comunale dopo soli tre mesi di esistenza, cristallizza le tensioni attorno alla gentrificazione urbana.

Questa preoccupazione per l’habitat popolare attraversa tutta la sua produzione. Ghost (1990), calco dell’interno di un salotto vittoriano, funziona come un mausoleo domestico dove ogni dettaglio, dall’interruttore al camino annerito dalla fuliggine, testimonia i gesti quotidiani dei suoi ex abitanti. Più di recente, i suoi Appartamenti e Scale si ispirano all’architettura standardizzata del dopoguerra, quegli alloggi sociali con proporzioni calcolate sulla “ampiezza di un braccio” che definiscono lo spazio minimo di sopravvivenza urbana.

L’approccio di Whiteread risuona con le teorie dello storico dell’architettura Spiro Kostof, che analizza come gli spazi domestici riflettano le strutture di potere di una società [1]. In lei, questa dimensione politica non è mai un discorso esplicito ma emerge dalla materialità stessa dei suoi calchi. Il cemento grezzo delle sue scale evoca l’architettura brutalista dei grandi complessi, mentre la candida bianchezza dei suoi appartamenti calchi suggerisce l’asepsi delle politiche di ricollocamento.

Le sue opere recenti, come Down and Up (2025) esposta nei giardini del Goodwood Estate, spostano questa riflessione architettonica verso il paesaggio. Questa scala di cemento che emerge da un campo verde crea una collisione impressionante tra urbanità e natura inglese. Calpestato da una scala di una sinagoga di Bethnal Green, porta la memoria di comunità spostate verso spazi sempre più periferici.

Questa geografia dell’esclusione trova la sua espressione più compiuta nelle sue Shy Sculptures, opere volutamente nascoste in luoghi remoti. Whiteread spiega questo approccio come una reazione alle polemiche che circondano le sue opere pubbliche: “Volevo allontanarmi dal tumulto e creare qualcosa di molto silenzioso, che quasi nessuno avrebbe visto.” Queste sculture nascoste funzionano come monumenti segreti alla marginalità sociale, visibili solo a chi accetta di avventurarsi ai margini del mondo urbano.

L’architetto Bernard Tschumi, nella sua analisi della “violenza architettonica”, mostra come lo spazio costruito possa diventare uno strumento di controllo sociale [2]. Le opere di Whiteread rivelano questa violenza attraverso l’assenza: i suoi spazi calchi conservano la traccia dei corpi che li hanno abitati pur proclamandone la sparizione definitiva. Ogni scultura funziona come un monumento ai vinti della modernizzazione urbana.

La poetica del lutto e la psicoanalisi dell’oggetto

Oltre alla sua dimensione sociologica, l’arte di Whiteread esplora i meccanismi psichici del lutto e della memoria. Le sue opere funzionano come oggetti transizionali nel senso inteso dallo psicoanalista Donald Winnicott: permettono di negoziare la perdita mantenendo presente ciò che è scomparso.

Questa dinamica appare con particolare evidenza nei suoi primi calchi domestici. Torso (1988), getto in gesso dell’interno di una borsa dell’acqua calda, evoca irresistibilmente un corpo di bambino mummificato. Shallow Breath (1988), ottenuto calcando lo spazio sotto un materasso, suggerisce l’impronta fantasmagorica di un dormiente assente. Queste opere operano secondo una logica di sostituzione malinconica: l’oggetto solido sostituisce il vuoto lasciato dalla scomparsa.

Sigmund Freud, in “Lutto e melanconia”, distingue il lavoro normale del lutto dalla fissazione malinconica [3]. Il lutto accetta la perdita e permette il distacco progressivo; la melanconia rifiuta questa separazione e mantiene l’oggetto perduto in una presenza fantasmica. L’arte di Whiteread sembra navigare tra questi due poli: mummifica la sparizione rendendola tuttavia tangibile.

Le sue opere più inquietanti esplorano questa zona intermedia in cui l’assenza diventa presenza. Closet (1988), calco dell’interno di un armadio rivestito di feltro nero, materializza l’angoscia infantile degli spazi chiusi. L’artista vi proietta le proprie paure d’infanzia, trasformando un mobile banale in un ricettacolo di angosce primarie. Il feltro nero funziona come una pelle protettiva che avvolge il vuoto con una tenerezza inquietante.

Questa dimensione tattile attraversa tutta la sua opera. Le sue resine traslucide invitano alla carezza pur vietando il contatto; i suoi concreti ruvidi portano l’impronta di superfici scomparse come una pelle conserverebbe la traccia di un contatto. Whiteread spiega questa particolare sensualità: “Voglio che le mie opere sembrino membri della famiglia”. Questa familiarità inquietante rivela la dimensione inconscia del nostro rapporto con gli oggetti domestici.

La serie delle sedie illustra perfettamente questa logica sostitutiva. Untitled (One Hundred Spaces) (1995) allinea cento calchi colorati dello spazio sotto diverse sedie. Ogni forma evoca un sedile assente pur suggerendo la presenza spettrale di chi vi sedeva. L’accumulo trasforma queste tracce individuali in un monumento collettivo a tutti i corpi scomparsi.

Questa poetica della mancanza trova il suo compimento nel Memoriale dell’Olocausto di Vienna (2000). Whiteread vi rovescia il suo consueto metodo: invece di moldare i vuoti, riproduce positivamente migliaia di libri di cui visibili sono solo i bordi, con i dorsi rivolti verso l’interno. Questa biblioteca invertita materializza l’impossibilità della trasmissione: i libri sono lì ma illeggibili, presenti ma inaccessibili. Il sapere distrutto dalla barbarie nazista diventa un muro impenetrabile di silenzio.

L’analista Nicolas Abraham, nei suoi studi sulla “cripta psichica”, descrive come alcuni traumi si trasmettano di generazione in generazione sotto forma di “fantasmi” [4]. Le sculture di Whiteread funzionano come cripte collettive dove si annidano i fantasmi dei nostri oggetti perduti. Ogni opera conserva in sé la traccia di gesti scomparsi, mantenendo presente un’intimità ormai passata.

Le sue creazioni recenti, Poltergeist e Doppelgänger (2020-2021), esplorano più direttamente questa ossessione per l’oggetto. Queste casette squarciate, dipinte uniformemente di bianco, evocano traumi inspiegati. Rami e detriti le attraversano come stigmi, suggerendo una violenza misteriosa. Il bianco immacolato che le ricopre funziona come un sudario che cancella l’origine del dramma pur conservandone la traccia.

L’eternità del banale

Questa capacità di rivelare l’extraordinario nell’ordinario situa Whiteread in una tradizione estetica che attraversa tutta l’arte moderna. Le sue opere più riuscite realizzano questa trasmutazione alchemica che eleva la banalità quotidiana al rango di simbolo universale.

Water Tower (1998), installazione temporanea su un tetto di SoHo a New York, illustra perfettamente questa poetica della rivelazione. Colando l’interno di un serbatoio d’acqua in resina traslucida, trasforma questa infrastruttura urbana invisibile in una lanterna spettrale che domina il paesaggio di Manhattan. L’opera scompariva e riappariva a seconda degli effetti di luce, creando un dialogo sottile tra presenza e assenza nel cuore della metropoli.

Le sue opere recenti in cartapesta rivelano un’evoluzione sensibile del suo vocabolario plastico. Untitled (Lavender and Pink) (2022) calca lastre di lamiera ondulata utilizzando carte di scarto del suo laboratorio. Questi substrati compositi creano un’archeologia domestica dove si sovrappongono le stratificazioni della sua creazione. Il colore, a lungo assente dal suo lavoro, emerge qui con una violenza lirica che contrasta con l’austerità dei suoi primi calchi.

Questa evoluzione stilistica rivela una maturità artistica che rifiuta la ripetizione meccanica dei propri procedimenti. Whiteread sembra ora esplorare sistemi di entropia e trasformazione piuttosto che la monumentalità fissa dei suoi inizi. I suoi nuovi assemblaggi caotici, come Untitled (Thicket) (2022), evocano catastrofi recenti pur mantenendo quell’unica capacità di rivelare la bellezza nella desolazione.

La pittura spessa che ricopre queste opere recenti funziona come un “imbalsamamento” destinato a resistere al degrado. Questa metafora mortifera rivela la dimensione esistenziale del suo lavoro: di fronte all’usura del tempo e all’oblio collettivo, l’arte diventa l’ultimo baluardo contro la scomparsa.

Whiteread assume pienamente questa funzione conservatrice dell’arte. Lei dichiara di voler “preservare il quotidiano e dare autorità alle cose dimenticate”. Questa missione di archiviazione poetica la avvicina ai grandi collezionisti dell’invisibile, da Joseph Cornell a Christian Boltanski. Ma là dove questi ultimi accumulano le tracce, lei le sintetizza in forme pure che rivelano l’essenza di ciò che preservano.

L’opera di Rachel Whiteread si impone oggi come una delle più coerenti e necessarie della scultura contemporanea. Rivelando la poesia segreta dei nostri spazi più banali, ci ricorda che l’arte autentica nasce sempre da questa capacità di vedere l’invisibile. I suoi calchi del vuoto non creano solo oggetti estetici: rivelano la dimensione tragica e sublime della nostra condizione di esseri mortali che abitano spazi peribili.

In un mondo ossessionato dall’innovazione permanente e dal consumo sfrenato, Rachel Whiteread ci offre il raro lusso della contemplazione. Le sue sculture bianche e silenziose creano isole di pace dove il tempo sembra sospeso. Ci invitano a questa rivoluzione intima che consiste nel portare uno sguardo nuovo su ciò che ci circonda quotidianamente. Perché forse è proprio questo il vero genio di questa artista: insegnarci a vedere la bellezza in ciò che non guardiamo mai, a scoprire lo straordinario nell’ordinario, a percepire la presenza nell’assenza. In questo, Rachel Whiteread ci riconcilia con il mistero della nostra stessa esistenza.


  1. Spiro Kostof, A History of Architecture: Settings and Rituals, Oxford University Press, 1995
  2. Bernard Tschumi, Architecture and Disjunction, MIT Press, 1994
  3. Sigmund Freud, “Lutto e malinconia” (1917), in Métapsychologie, Gallimard, 1968
  4. Nicolas Abraham e Maria Torok, L’Écorce et le Noyau, Flammarion, 1987
Was this helpful?
0/400

Riferimento/i

Rachel WHITEREAD (1963)
Nome: Rachel
Cognome: WHITEREAD
Genere: Femmina
Nazionalità:

  • Regno Unito

Età: 62 anni (2025)

Seguimi