Ascoltatemi bene, banda di snob. Rebecca Warren non è una scultrice come le altre. È quell’artista britannica che manipola l’argilla con un’intensità quasi criminale, gettando in faccia all’establishment artistico creazioni che oscillano tra il sublime e il grottesco. Le sue opere sembrano emergere da un universo primitivo in cui le convenzioni estetiche sarebbero ancora da inventare. Warren è quella forza che trasforma la materia grezza in forme ambigue, simili a totem pagani ma decisamente contemporanee.
Quando contempliamo le sue massicce sculture in bronzo, dipinte con una deliberata infantilità, ci troviamo di fronte a esseri quasi umanoidi, deformati da protuberanze, bozzi, cavità e colate. Queste creature somigliano a antichi menhir celtici o a statue primitive, ma sono anche parodie mordaci degli omaggi che l’arte moderna ha reso a questi misteriosi totem. I “Los Hadeans” di Warren, con i loro volti scimmieschi e le escrescenze spiniformi, abitano davvero il mondo degli Inferi da cui traggono il loro nome.
Il rapporto di Warren con la materia è fondamentalmente fisico, anzi, brutale. Spinge, tira, manipola l’argilla che poi conserva le impronte delle sue dita, anche quando viene solidificata in bronzo. Questo approccio sensibile e tattile ricorda stranamente il concetto di “corpo senza organi” teorizzato da Gilles Deleuze e Félix Guattari [1]. Nel loro libro “Mille Piani”, questi filosofi descrivono un corpo liberato dai vincoli organici, un corpo che non è organizzato gerarchicamente ma che esiste come una superficie di intensità. Le sculture di Warren incarnano perfettamente questa nozione: sono masse di pura intensità, corpi in continuo divenire che resistono a facili categorizzazioni.
Prendiamo “Helmut Crumb” (1998), questa scultura monumentale che rappresenta gambe femminili dalle proporzioni esagerate, poggiate su tacchi alti. Questa opera, ispirata a un disegno di Robert Crumb e a una fotografia di Helmut Newton, non è una semplice appropriazione sessuale di immagini create da uomini sulle donne. Inverte il potere e mostra gambe di donna vittoriose che avanzano senza testa ma indomabili. Warren non cerca di vittimizzare, ma di trasformare l’iconografia maschile in una forma di emancipazione scultorea. Come scrive Deleuze: “Il corpo senza organi non è un corpo morto ma un corpo vivo, tanto più vivo, tanto più brulicante quanto ha fatto saltare l’organismo e la sua organizzazione” [2].
Il lavoro di Warren richiama anche la teoria del carnevalesco sviluppata da Mikhail Bakhtin. L’aspetto grottesco, umoristico e talvolta scatologico delle sue sculture ricorda la visione bakhtiniana del carnevale come luogo di rovesciamento delle gerarchie e dei valori stabiliti [3]. Nei suoi studi su François Rabelais, Bakhtin ha mostrato come il grottesco corporeo, lungi dall’essere semplicemente degradante, possa diventare un principio di rigenerazione e rinnovamento. Warren utilizza proprio questo “realismo grottesco” per prendere in giro le convenzioni della scultura occidentale pur celebrandole.
Le sue figure in argilla non cotta, deliberatamente incomplete, riflettono perfettamente ciò che Bakhtin chiamava “il corpo grottesco”, mai completato, sempre in costruzione, che supera i propri limiti [4]. Sono in opposizione al canone classico del corpo perfetto, chiuso, liscio e senza difetti. Al contrario, Warren abbraccia il principio carnevalesco nella sua dimensione più corporea: le sue sculture esibiscono protuberanze, cavità, orifizi, escrescenze, sono aperte al mondo e in costante metamorfosi.
È proprio questa dimensione carnevalesca che permette a Warren di giocare con i riferimenti artistici pur sovvertendoli. Le sue sculture in metallo, costruite in uno stile vagamente costruttivista ma arricchite da un pompon rosa derisorio, prendono in giro la pomposità del post-minimalismo. Come scrive la critica Anna Lovatt: “Niente provoca ilarità come la pomposità post-minimalista trafitta da un pompon ben posizionato” [5]. Warren rifiuta la solennità artistica, seguendo il principio bakhtiniano secondo cui la risata carnevalesca mina l’autorità e apre a una verità alternativa.
Le sculture metalliche di Warren stabiliscono anche un dialogo ambiguo con il femminismo. Spesso dipinge le sue costruzioni in acciaio di rosa e le arricchisce con pompon soffici, come per imporre una femminilità irriverente a forme abitualmente associate alla mascolinità. La sua opera “Let’s All Chant”, costituita da piani metallici intersecati dipinti di un rosa caramella brillante, prende il titolo dal brano disco del 1977 dei Michael Zager Band che esorta l’ascoltatore a “muovere il corpo”. Warren infonde così movimento e sensualità a forme minimaliste tradizionalmente fredde e statiche.
La scultrice naviga costantemente tra diverse tradizioni artistiche. Se le sue opere figurative ricordano Umberto Boccioni e Alberto Giacometti, i suoi lavori in acciaio riecheggiano Richard Serra e John McCracken. Ma Warren non è una semplice copista. Tra le sue mani, l’arsenale di materiali e strategie scultoree, bronzo e acciaio, figurazione e geometria, acquisisce un tocco personale grazie a motivi dipinti a mano, schizzi disordinati nei toni di ghiaccio, menta, vaniglia e fragola. Diverse opere sfoggiano allegramente pompon rosa e azzurro pastello, e la testa di “Three” è sormontata da un grazioso fiocco.
Nel contesto bakhtiniano, questa fusione di elementi disparati può essere interpretata come una manifestazione del “corpo grottesco collettivo” [6]. Le sculture di Warren non sono entità isolate ma punti di giunzione dove si incontrano e si scontrano diverse tradizioni artistiche, creando così un dialogo intergenerazionale che è allo stesso tempo rispettoso e irriverente.
Le opere recenti di Warren mostrano un’evoluzione significativa. Le sue figure antropomorfe della serie “Los Hadeans” testimoniano un abbandono del grottesco esagerato in favore di una sottile umanizzazione che risiede in allusioni all’abbigliamento, al tono della pelle e al linguaggio corporeo. Aggiungendo questi dettagli riconoscibili ad anatomie altrimenti antediluviane e a forme astratte, Warren crea un’intelligibilità sottile all’interno dell’alterità, una specie di campo di addestramento per il riconoscimento, molto benvenuto oggi.
Questa evoluzione riflette la concezione deleuziana del divenire. Per Deleuze, il divenire non è un’imitazione o un’identificazione a qualcosa, ma un processo di cambiamento che stabilisce una zona di vicinato o copresenza [7]. Le sculture recenti di Warren non sono rappresentazioni di figure umane, ma divenire-umani, zone in cui l’umano e il non umano si contaminano reciprocamente.
Warren gioca costantemente con le aspettative. Le sue sculture in argilla cruda sembrano sfidare la gravità, mentre i suoi massicci bronzi danno un’impressione di assenza di peso grazie alla loro pittura leggera e alle forme slanciate. Questa tensione tra peso e leggerezza, tra permanenza e fragilità, è al cuore della sua pratica. Come ha dichiarato lei stessa: “Mi piace la permanenza, la leggerezza. C’è anche un elemento di apprendimento precoce quando si usa la carta, scarabocchiare, strappare, buttare. È piacevole portare queste cose al centro a volte” [8].
Contrariamente a Barbara Hepworth, la cui opera è caratterizzata dalla ricerca dell’ideale e della perfezione formale, Warren abbraccia l’imperfezione e l’ambiguità. Le sue sculture non sono oggetti finiti ma processi in corso, momenti congelati in un flusso costante di trasformazione. Questo approccio riecheggia la concezione bakhtiniana del corpo grottesco come entità mai completata, sempre in divenire [9].
Il rapporto di Warren con la storia dell’arte è complesso e ambivalente. Si appropria delle forme e delle tecniche dei suoi predecessori ma le trasforma in modo da creare qualcosa di radicalmente nuovo. Come ha detto: “Fai l’arte che fai, non l’arte che pensi dovresti fare, o l’arte che vorresti poter fare… C’è un momento in cui devi accettare ciò che puoi realmente fare” [10]. Questa accettazione dei propri limiti e possibilità è ciò che dà forza e autenticità al suo lavoro.
In un mondo artistico spesso dominato da un’eccessiva concettualizzazione e disincarnazione, Warren ci ricorda l’importanza dell’impegno fisico con la materia. Le sue sculture sono il risultato di una lotta corpo a corpo con argilla, bronzo e acciaio, una lotta che lascia tracce visibili nell’opera finale. Come ha osservato Deleuze, “l’arte forse comincia con l’animale, almeno con l’animale che delimita un territorio e fa una casa” [11]. Warren delimita il suo territorio nella materia stessa, rivendicando uno spazio dove i corpi possono esistere al di fuori delle categorie normative.
Il lavoro di Warren ci invita a ripensare il nostro rapporto con il corpo, la materia e la storia dell’arte. Fonde riferimenti così diversi come il primitivismo, il modernismo, il femminismo e la cultura pop, creando opere che sfidano le categorizzazioni facili. Come ha scritto Bakhtine, il carnevale è “il luogo dove coesistono e dialogano elementi solitamente separati” [12]. Allo stesso modo, le sculture di Warren sono spazi di dialogo dove diverse tradizioni artistiche, diverse concezioni del corpo e diversi approcci alla materia coesistono e si confrontano.
L’opera di Rebecca Warren costituisce una forma di resistenza gioiosa alle convenzioni artistiche stabilite. Attraverso il suo impegno con la materialità grezza e la sua appropriazione sovversiva delle tradizioni scultoree, crea un universo in cui il corpo, liberato dai vincoli organici e sociali, può esplorare nuove possibilità di esistenza. Come scriveva Deleuze, “l’arte non è un privilegio dell’uomo, ma un cammino che la natura prende per raggiungere altri stati di sé stessa” [13]. Le sculture di Warren ci mostrano proprio questi altri stati possibili, questi divenire inaspettati che emergono quando la materia è liberata dai suoi vincoli abituali.
Warren ha dichiarato una volta che ci vuole “un bel po’ di audacia per stare davanti a una delle sue sculture e dire ‘sono io che l’ho fatta'” [14]. Questa sensazione di essere superati dalla propria creazione è caratteristica di un approccio scultoreo che privilegia l’intuizione e la sperimentazione rispetto al controllo razionale. Come spiega: “Penso che il mio livello di impegno verso le esigenze reali dell’arte stessa, delle forme stesse, sia insolito. Può sfuggirti e devi accettarlo. Può sorprenderti e non essere ciò che ti aspettavi” [15].
Questa apertura all’imprevisto, questa volontà di seguire le esigenze della materia piuttosto che imporle una visione preconcepita, è ciò che rende Warren un’artista veramente importante per il nostro tempo. In un mondo ossessionato dal controllo e dalla perfezione, ci ricorda il valore dell’imprevedibile, dell’imperfetto, del processo in corso. Le sue sculture sono monumenti all’indeterminatezza, celebrazioni della vita in tutta la sua complessità disordinata.
- Deleuze, Gilles e Guattari, Félix. Mille Plateau. Les Éditions de Minuit, Paris, 1980.
- Ibid.
- Bakhtine, Mikhaïl. L’oeuvre de François Rabelais et la culture populaire au Moyen Âge et sous la Renaissance. Gallimard, Paris, 1970.
- Ibid.
- Lovatt, Anna. “Rebecca Warren”. ArtReview, 9 giugno 2017.
- Bakhtine, Mikhaïl. Op. cit.
- Deleuze, Gilles e Guattari, Félix. Op. cit.
- Smith, Laura. “Rebecca Warren, ‘From the mess of experience'”. Tate Etc., 6 ottobre 2017.
- Bakhtine, Mikhaïl. Op. cit.
- Smith, Laura. Op. cit.
- Deleuze, Gilles e Guattari, Félix. Che cos’è la filosofia ? Les Éditions de Minuit, Paris, 1991.
- Bakhtine, Mikhaïl. Op. cit..
- Deleuze, Gilles e Guattari, Félix. Mille Plateau. Op. cit.
- Smith, Laura. Op. cit.
- Ibid.
















