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Reza Derakshani, il funambolo delle tradizioni

Pubblicato il: 3 Gennaio 2025

Di: Hervé Lancelin

Categoria: Critica d’arte

Tempo di lettura: 4 minuti

Reza Derakshani trasforma il catrame in oro, fondendo la tradizione persiana e la modernità occidentale in opere che sovvertono i confini dell’arte contemporanea. La sua tecnica rivoluzionaria e la sua visione unica creano un linguaggio visivo che trascende le categorie abituali della storia dell’arte.

Ascoltatemi bene, banda di snob, vi parlerò di un artista che sconvolge le vostre piccole certezze borghesi: Reza Derakshani, nato nel 1952 a Sangsar, in Iran. Un creatore che non si limita a dipingere, ma compone una sinfonia visiva in cui si scontrano tradizione e modernità con una forza tellurica che vi farebbe cadere dalla vostra poltrona Luigi XV.

Iniziamo dalla sua relazione viscerale con la natura e l’esilio. Cresciuto in una tenda nera sulla cima di una montagna iraniana, Derakshani è cresciuto in mezzo a cavalli e campi di fiori selvatici blu e gialli. Questa esperienza nomade primitiva non è un semplice dettaglio biografico per impressionare i vostri amici durante i vostri cenoni mondani. No, è la stessa fonte della sua tecnica rivoluzionaria: utilizza il catrame per tetti come base, sì, avete letto bene, CATRAMO!, prima di applicare strati di colore, oro, argento, smalto e sabbia.

Questo approccio ricorda le sperimentazioni di Robert Rauschenberg con i suoi “Combines”, ma Derakshani spinge il concetto ancora oltre. Crea superfici testurizzate che sembrano respirare, vibrare, come se la materia stessa fosse viva. È ciò che Walter Benjamin avrebbe chiamato “l’aura” dell’opera d’arte, ma qui essa è letteralmente palpabile. Potete quasi sentire l’odore delle steppe iraniane emanare dalle sue tele, mescolato a quello più acre del catrame industriale. Questa dualità tra natura e artificio non è casuale, incarna la tensione permanente tra tradizione e modernità che attraversa tutta la sua opera.

La serie “Hunting”, iniziata nel 2007, illustra perfettamente questa fusione. Derakshani riprende il motivo tradizionale della caccia, onnipresente nell’arte persiana classica, ma lo decompone con una violenza che avrebbe fatto sorridere Willem de Kooning. I cavalieri si fondono in esplosioni di colore che richiamano tanto le miniature persiane quanto l’espressionismo astratto americano. È come se Jackson Pollock avesse deciso di rivisitare gli affreschi di Persepoli dopo aver bevuto tre bottiglie di vino.

Questa appropriazione non è un esercizio di stile per compiacere i conservatori dei musei occidentali. No, è un vero confronto tra due mondi, una battaglia pittorica dove la tradizione non è una gabbia ma una trampolino verso la libertà creativa. Theodor Adorno parlava della “dialettica negativa” come mezzo per superare le opposizioni binarie, ebbene, Derakshani ne fa una dimostrazione magistrale sulle sue tele.

La seconda tematica che attraversa la sua opera è quella dell’esilio e dell’alienazione, ma attenzione, non nel senso lamentoso che alcuni artisti contemporanei ci propongono ovunque. Derakshani trasforma questa esperienza in una forza creativa esplosiva. Dopo aver lasciato l’Iran dopo la rivoluzione islamica del 1979, ha vissuto a New York, in Italia, a Dubai, e ora divide il suo tempo tra Austin e Istanbul. Questa esistenza nomade moderna riecheggia la sua infanzia sulle montagne iraniane, creando un ciclo temporale affascinante che nutre la sua arte.

Nella sua serie “Garden Party”, crea paradisi artificiali che sono altrettante allegorie della perdita e del desiderio di ritorno. Le composizioni sembrano fluttuare tra cielo e terra, come sospese in uno spazio-tempo indefinito. Queste opere ricordano ciò che Gilles Deleuze chiamava “spazi qualsiasi”, luoghi deterritorializzati che sfuggono a qualsiasi tentativo di categorizzazione geografica o culturale.

Il modo in cui utilizza il colore in queste opere è assolutamente stupefacente. I blu profondi si scontrano con rossi incandescenti, creando una tensione cromatica che fa vibrare la retina. È come se Mark Rothko avesse deciso di dipingere sotto acido ascoltando musica persiana tradizionale. D’altronde, non dimentichiamo che Derakshani è anche musicista, ha persino collaborato con John Densmore dei Doors, e questa dimensione musicale traspare nel ritmo visivo delle sue composizioni.

La sua tecnica è così sofisticata da far invidia ai vostri professori di arte contemporanea. Non si limita a giustapporre elementi, li fa letteralmente fondere in un’alchimia visiva unica. Le figure emergono dai fondi astratti come spettri, poi si dissolvono di nuovo nella materia pittorica. È ciò che Maurice Merleau-Ponty chiamava la “carne del mondo”, questa interfaccia dove il visibile e l’invisibile si incontrano e si intrecciano.

Il risultato è un’opera che trascende le categorie abituali della storia dell’arte. Derakshani non è un artista “orientale” né un artista “occidentale”, è entrambi insieme e nessuno dei due. Crea un linguaggio visivo unico che fa esplodere queste dicotomie semplicistiche. La sua arte è esposta al Metropolitan Museum of Art di New York, al British Museum di Londra, al Museo Russo di San Pietroburgo, e credetemi, non è un caso.

Allora la prossima volta che sentirete qualcuno dire che l’arte contemporanea non ha più nulla da insegnarci, trascinatelo con la forza davanti a un quadro di Derakshani. E se ancora non capisce, beh, probabilmente è troppo impegnato ad ammirare la sua collezione di riproduzioni di Monet comprate su Wish.

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Riferimento/i

Reza DERAKSHANI (1952)
Nome: Reza
Cognome: DERAKSHANI
Genere: Maschio
Nazionalità:

  • Iran

Età: 73 anni (2025)

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