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Martedì 18 Novembre

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Richard Prince e l’arte del dirottamento visivo

Pubblicato il: 20 Novembre 2024

Di: Hervé Lancelin

Categoria: Critica d’arte

Tempo di lettura: 6 minuti

Richard Prince trasforma il furto in atto creativo, metamorfosando immagini pubblicitarie banali in rivelazioni culturali potenti. La sua rifotografia dei cowboy Marlboro non è solo un’appropriazione, è una dissezione metodica del mito americano che rivela la nostra ossessione collettiva per i simulacri.

Ascoltatemi bene, banda di snob! Richard Prince (nato nel 1949) non è semplicemente un artista che vi fa alzare un sopracciglio con le sue appropriazioni sfacciate. No, è il grande rivelatore della nostra ipocrisia collettiva, lo specchio deformante che ci restituisce la nostra stessa vanità consumistica. Da più di quattro decenni, questo nato nella zona del canale di Panama disseziona la nostra società con la precisione chirurgica di un Michel Foucault visivo, smantellando i nostri miti culturali con una depravazione quasi sadica.

Nella sua incessante ricerca di decostruzione delle immagini che ci circondano, Prince si è imposto come il grande decostruttore della nostra epoca, colui che, come avrebbe detto Roland Barthes, ci costringe a guardare oltre lo “studium” per raggiungere il vero “punctum” della nostra cultura visiva. La sua pratica artistica si articola principalmente attorno a due assi principali che meritano la nostra attenzione.

Innanzitutto, il furto come atto creativo, la rifotografia come strumento di sovversione. Sin dagli anni ’70, Prince ha scelto di rubare, sì, ho detto rubare, immagini piuttosto che crearle. Lavorando negli archivi di Time-Life, ha cominciato a fotografare pubblicità, in particolare quelle delle sigarette Marlboro. Non si trattava di un semplice atto di riproduzione, ma di una forma di cannibalismo artistico che avrebbe fatto sorridere Jean Baudrillard. Prince non si limitava a copiare, divorava l’essenza stessa di queste immagini per rigurgitare il simulacro perfetto.

La sua serie iconica “Untitled (Cowboys)” non è solo un’appropriazione dell’immaginario pubblicitario di Marlboro. È una dissezione metodica del mito americano per eccellenza: il cowboy. Rifotografando queste immagini, Prince non si limita a rubarle, ma le svuota della loro sostanza commerciale per rivelare la loro vacuità intrinseca. Come avrebbe analizzato Guy Debord, trasforma lo spettacolo in anti-spettacolo, la seduzione pubblicitaria in rivelazione sociologica.

Questi cowboy, figure archetipiche della mascolinità americana, diventano sotto il suo obiettivo fantasmi digitali, spettri del nostro desiderio collettivo di mitologia. La tecnica della rifotografia di Prince non è senza richiamare la nozione di “différance” di Jacques Derrida, ogni nuova cattura creando una distanza critica con l’originale che permette di rivelarne i meccanismi nascosti.

Ma non fatevi ingannare: Prince non è un semplice critico della società dei consumi. Il suo genio risiede nel fatto che è contemporaneamente complice e critico del sistema che devia. È allo stesso tempo il virus e l’antidoto, il veleno e il rimedio. Quando il suo “Untitled (Cowboy)” è stato venduto per oltre un milione di dollari da Christie’s nel 2005, ha dimostrato che anche la sovversione può diventare una merce di lusso. Ecco tutta l’ironia del suo approccio, un’ironia che lo rende l’erede spirituale di Marcel Duchamp, ma con una dimensione più perversa e contemporanea.

La rifotografia in Prince non è una semplice tecnica, è una filosofia visiva che anticipa la nostra era dell’appropriazione digitale. Molto prima di Instagram e dei meme, aveva capito che la copia poteva essere più “autentica” dell’originale. Walter Benjamin parlava della perdita dell’aura dell’opera d’arte nell’era della sua riproduzione tecnica, Prince va oltre suggerendo che l’aura può migrare, spostarsi, contaminare la copia stessa.

Il secondo asse della sua pratica artistica è l’ossessione per lo stereotipo americano per creare un’antropologia visiva del desiderio.

Se la prima caratteristica di Prince è la sua tecnica di rifotografia, la seconda è indubbiamente la sua ossessione per gli stereotipi americani. Le sue serie “Nurses”, “Jokes” e “Girlfriends” costituiscono un’antropologia visiva del desiderio americano che avrebbe fatto impallidire Claude Lévi-Strauss.

Prendete i suoi “Nurse Paintings”: queste infermiere tratte dai romanzi pulp degli anni ’50 non sono semplici immagini riciclate. Prince le trasforma in icone pop allucinate, saturate di desiderio e ansia. In questi volti mascherati c’è qualcosa che evoca le analisi di Laura Mulvey sul male gaze, ma ribaltato come un guanto. Le infermiere di Prince sono allo stesso tempo oggetti di desiderio e figure minacciose, seduttrici e castratrici. Incarnano perfettamente ciò che Julia Kristeva chiamava l’abbietto, quella fascinazione mista a repulsione che caratterizza il nostro rapporto con il corpo, la malattia, la sessualità.

I suoi “Jokes Paintings” rappresentano forse l’esempio più evidente di questa esplorazione degli stereotipi americani. Queste battute spesso volgari, sessiste o razziste, dipinte su sfondi monocromi, funzionano come ready-made linguistici che rivelano i pregiudizi e le ansie della classe media americana. Prince non si limita a riprodurle, le monumentalizza, trasformando questi frammenti di cultura popolare in totem del nostro inconscio collettivo.

La serie “Girlfriends”, con le sue motocicliste fotografate dai loro fidanzati, spinge ancora più avanti questa esplorazione degli stereotipi di genere. Queste immagini amatoriali, rifotografate e ricontestualizzate, diventano sotto il suo obiettivo uno studio antropologico del desiderio maschile e della rappresentazione femminile nella sottocultura biker. È come se Susan Sontag incontrasse Easy Rider in una galleria d’arte contemporanea.

Ciò che rende il lavoro di Prince così perturbante è che è contemporaneamente critico e compiacente, denunciando gli stereotipi pur perpetuandoli. È come un virus che ha sviluppato una relazione simbiotica con il suo ospite. La sua opera è uno specchio deformante che ci riflette le nostre contraddizioni, i nostri desideri inconfessati, i nostri pregiudizi repressi.

Prince non si limita a documentare questi stereotipi, li spinge fino all’assurdo. Le sue serie funzionano come studi di caso sulla costruzione sociale del desiderio e dell’identità nell’America postmoderna. Judith Butler probabilmente avrebbe visto nel suo lavoro un’illustrazione perfetta della performatività del genere e delle identità sociali.

L’artista agisce come un etnografo perverso dell’America contemporanea, collezionando e catalogando le sue ossessioni, le sue nevrosi, i suoi fantasmi. Ma a differenza di un vero etnografo, non pretende obiettività. Al contrario, si crogiola nella soggettività, nella manipolazione, nel dirottamento. Il suo lavoro è una sorta di anti-documentario che rivela più verità sulla nostra società di qualunque reportage obiettivo.

Ciò che è affascinante in Prince è che trasforma questi stereotipi in feticci artistici. Opera una sorta di transustanziazione visiva, trasformando il piombo della cultura popolare in oro concettuale. Le sue appropriazioni non sono semplici copie, ma mutazioni culturali che rivelano i meccanismi nascosti della nostra società dell’immagine.

Richard Prince non è un moralista, è troppo intelligente per questo. È piuttosto un diagnostico delle nostre patologie culturali, un Dr. Frankenstein che riassembla i membri sparsi del nostro immaginario collettivo per creare mostri rivelatori. Il suo lavoro è uno specchio che non riflette tanto la realtà quanto i nostri fantasmi sulla realtà.

Richard Prince è l’artista che ha capito prima di tutti che nella nostra società dell’immagine, l’autenticità è diventata obsoleta. Non ci sono più originali da copiare, solo copie di copie, simulacri che si riproducono all’infinito. Il suo genio è stato trasformare questa consapevolezza in una strategia artistica, creando un’opera che è contemporaneamente un sintomo e una diagnosi della nostra condizione postmoderna.

Ecco perché il suo lavoro continua a affascinarci e a irritarci. È l’artista perfetto della nostra epoca, colui che ha capito che in un mondo saturo di immagini, il furto può essere più creativo della creazione, e che la copia può essere più autentica dell’originale. È la nostra cattiva coscienza artistica, colui che ci costringe a guardare in faccia la nostra stessa vacuità culturale. Ed è proprio per questo che è indispensabile.

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Riferimento/i

Richard PRINCE (1949)
Nome: Richard
Cognome: PRINCE
Genere: Maschio
Nazionalità:

  • Stati Uniti

Età: 76 anni (2025)

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