English | Italiano

Martedì 18 Novembre

ArtCritic favicon

Ronald Ventura : Anatomia di un’identità frammentata

Pubblicato il: 5 Marzo 2025

Di: Hervé Lancelin

Categoria: Critica d’arte

Tempo di lettura: 10 minuti

Ronald Ventura manipola la percezione attraverso opere a più strati dove iperrealismo, graffiti e iconografia religiosa si scontrano. Le sue creature ibride, metà umane e metà animali, diventano il territorio conteso in cui si affrontano diverse forze culturali, riflettendo l’identità complessa delle Filippine.

Ascoltatemi bene, banda di snob, Ronald Ventura non è un artista che si può mettere in una scatola ordinata con un’etichetta. No. Egli è come quella nazione che lo ha visto nascere nel 1973, un amalgama esplosivo e incoerente di strati sovrapposti, influenze disparate e contraddizioni sfavillanti. Ma è proprio qui che risiede il suo fastidioso splendore.

Quando guardo un’opera di Ventura, mi sento come un archeologo dilettante che scava in un sito dove si sono sovrapposte varie civiltà. Ogni pennellata rivela un nuovo strato di storia culturale. Iperrealismo, graffiti, cartoni animati giapponesi, iconografia cattolica, elementi pop, tutto ciò convive sulla stessa tela come vicini rumorosi in un palazzo con muri troppo sottili. Eppure, miracolosamente, funziona.

Prendete “Grayground” (2011), quell’opera che è stata venduta per la modica somma di 1,1 milioni di dollari da Sotheby’s Hong Kong. A un primo sguardo, si potrebbe pensare a un semplice gioco di bambini, un cavallo stilizzato cavalcato da una figura mascherata. Ma guardate più da vicino. I tatuaggi anatomici sul corpo del cavallo rivelano i suoi muscoli e organi, come una tavola di anatomia veterinaria che Damien Hirst avrebbe dimenticato nel suo garage. L’animale diventa allora una metafora delle Filippine stesse, un paese le cui viscere sono esposte, dissezionate, eppure sempre in movimento sotto il peso dei suoi successivi cavalieri coloniali.

Questo gioco costante tra interno ed esterno, tra apparenza ed essenza, non manca di ricordare le teorie di Roland Barthes sulla semiologia e il suo concetto di “mito” come sistema di comunicazione [1]. Per Barthes, le immagini non sono mai innocenti; sono cariche di significati culturali che operano a diversi livelli. Le opere di Ventura funzionano esattamente così, sono sistemi complessi di segni dove ogni elemento visivo rimanda a una rete di significati storici, politici e culturali.

Nelle sue pitture come “Party Animals” (2017), Ventura esplora questa nozione di mitologia contemporanea attraverso una giungla allucinante dove animali domestici, bestie selvagge e creature demoniache formano una inquietante menagerie. Il ragazzino al centro, che potrebbe essere un autoritratto dell’artista da bambino, sembra allo stesso tempo meravigliato e terrorizzato da questo carnevale bestiale. Non è forse questa una perfetta illustrazione di ciò che Barthes chiamava la “naturalizzazione del culturale” [2], quella capacità del mito di trasformare la storia in natura, di presentare come ovvio e naturale ciò che in realtà è costruito e culturale?

Gli strati sovrapposti nell’opera di Ventura, iperrealismo, graffiti, riferimenti alla cultura pop, possono essere letti come molteplici livelli di significato che si interpenetrazioni e si contaminano reciprocamente. Secondo Barthes, “il mito non nasconde nulla: la sua funzione è deformare, non far sparire” [3]. Allo stesso modo, Ventura non cerca di nascondere la complessità culturale delle Filippine, ma piuttosto di deformarla, esagerarla fino a che diventi visibile nella sua intera assurdità.

E che storia! Colonizzate successivamente dalla Spagna, dagli Stati Uniti e brevemente dal Giappone, le Filippine possiedono un’identità culturale stratificata come una millefoglie che la pasticciera avrebbe preparato sotto LSD. Ventura non tenta di risolvere questa schizofrenia identitaria, la abbraccia con una gioia quasi perversa. Nella sua serie “Zoomanities” (2008), i corpi umani sfoggiano teste di animali come se il Minotauro avesse deciso di fondare un franchise mondiale.

Questi ibridi ci riportano inevitabilmente all’universo cinematografico di David Cronenberg e al suo concetto di “Nuova Carne” [4]. Il regista canadese, attraverso film come “Videodrome” o “La mosca”, ha esplorato l’idea di una trasformazione radicale del corpo umano sotto l’influenza della tecnologia e dei media. Per Cronenberg, come per Ventura, il corpo non è mai un’entità stabile ma un territorio conteso, un campo di battaglia dove si scontrano diverse forze culturali, tecnologiche e biologiche.

L’opera “E.R. (Endless Resurrection)” (2014) di Ventura illustra perfettamente questa parentela con l’universo cronenberghiano. In questa installazione video, l’artista documenta i rituali di autocastigazione praticati durante la Settimana Santa nelle Filippine, dove i penitenti arrivano fino a farsi crocifiggere per espiare i propri peccati. Questi corpi sofferenti, volutamente trasformati in spettacoli di dolore, rivelano l’influenza profonda del cattolicesimo importato dai colonizzatori spagnoli. Ma Ventura non si limita a filmare questi rituali, li mette in dialogo con una riproduzione de “La Flagellazione di Cristo” di Caravaggio, creando così un ponte temporale vertiginoso tra il barocco europeo e le pratiche religiose contemporanee filippine.

Questa giustapposizione è caratteristica dell’approccio di Ventura: non gerarchizza le influenze culturali, ma le fa coesistere nello stesso spazio, creando quella che Cronenberg chiamerebbe una “zona di trasgressione” dove i confini tra il sacro e il profano, il tradizionale e il contemporaneo, il locale e il globale diventano porosi. “Mi interessa ciò che viene creato liberando la mia mente dal senso originario dell’immagine e fondendola con altri elementi affinché interagiscano tra loro”, spiega Ventura, “è ciò che tradisce il significato primo dell’immagine e ne crea uno nuovo” [5].

Questo tradimento deliberato del senso originale riecheggia la visione cronenberghiana della trasformazione corporea come forma di evoluzione, o meglio di devoluzione. In “Cross Turismo” (2014), Ventura rappresenta un uomo prostrato e imbrigliato a una croce, circondato da immagini di carnevale, graffiti e personaggi dei fumetti. L’iconografia religiosa tradizionale è così pervertita, deviata dal suo contesto originario per creare un nuovo tipo di corpo sacro, un ibrido postmoderno che testimonia una spiritualità in mutazione.

C’è qualcosa di visceralmente disturbante in questo approccio, come se Ventura ci invitasse ad assistere a un’autopsia culturale in diretta. Ma è proprio questa capacità di metterci a disagio che costituisce la sua forza. In un mondo artistico saturo di opere lisce e innocue, Ventura osa ancora proporci immagini che graffiano sotto la superficie lucida della coscienza, rivelando le interiora sanguinanti dell’inconscio collettivo filippino.

Non è un caso se gli animali occupano un posto così importante nel suo bestiario personale. Dal bulldog tatuato al cavallo scuoiato, passando per le creature ibride di “Hunter” (2015), queste figure animali servono da veicoli per un’esplorazione della bestialità latente che dorme in ciascuno di noi. Come le creature mutanti di Cronenberg, sono allo stesso tempo affascinanti e repulsive, incarnando le nostre paure più primitive e aprendo la via a nuove possibilità di esistenza.

In “La Nuova Carne: Sessualità e orrore nella cultura contemporanea”, l’accademico Xavier Mendik analizza come, in Cronenberg, “il corpo diventa un sito di contestazione, un testo su cui si iscrivono varie angosce culturali” [6]. Questa osservazione potrebbe altrettanto bene applicarsi all’opera di Ventura, dove il corpo umano, spesso deformato, trasformato o ibridato, diventa il ricettacolo di tutte le tensioni che attraversano la società filippina contemporanea.

L’arte di Ventura, come il cinema di Cronenberg, ci confronta con la nostra stessa materialità, con la fragilità dei nostri confini corporei e identitari. Ci ricorda che siamo esseri incarnati, immersi in una rete complessa di influenze culturali che plasmano non solo la nostra percezione del mondo ma anche stessa la nostra carne. Questa consapevolezza acuta della nostra incarnazione riecheggia le analisi di Julia Kristeva sull’osceno e sui confini del corpo. “Non è l’assenza di pulizia o salute a rendere qualcosa di osceno”, scrive, “ma ciò che disturba un’identità, un sistema, un ordine. Ciò che non rispetta i limiti, i posti, le regole” [7].

Le opere di Ventura coltivano proprio questa perturbazione delle identità e dei sistemi. I suoi personaggi ibridi, metà umani e metà animali, confondono i confini tra le specie. Le sue composizioni, dove si affiancano iperrealismo e cartoon, arte classica e graffiti, abolendo le gerarchie estetiche tradizionali. La sua stessa pratica, che mescola pittura, scultura, installazione e video, rifiuta di lasciarsi rinchiudere in una categoria unica.

Prendete “Recyclables” (2012), questa serie prodotta durante la sua residenza presso il Singapore Tyler Print Institute. Ventura ivi devia segnali stradali triangolari arancioni, universalmente riconosciuti come avvertimenti di pericolo. Su uno di essi sovrappone un personaggio da cartone animato con testa da scheletro sopra un mucchio di immondizia in proliferazione; su un altro, degli occhi spaventati guardano attraverso una maschera antigas. Queste immagini evocano un’imminente apocalisse ambientale, giocando allo stesso tempo con i codici visivi della cultura popolare e della segnaletica urbana.

Questa capacità di appropriarsi e deviare segni preesistenti richiama l’approccio di Barthes in “Mitologie”, dove analizza come le immagini della quotidianità, pubblicità, fotografie di stampa, oggetti di consumo, veicolano ideologie sociali e politiche [8]. Allo stesso modo, Ventura si appropria delle icone visive che saturano il nostro ambiente, da personaggi Disney a simboli religiosi, per sovvertirli e rivelarne i significati latenti.

La sua opera “Paradise” (2020), realizzata durante la pandemia, illustra perfettamente questo approccio. Su questa tela monumentale di 366 x 244 cm, una cascata in bianco e nero fa da sfondo a un bizzarro raduno di personaggi che vanno da animali antropomorfi a una versione tormentata di Topolino. La parola “PARADISE” attraversa l’opera con lettere da carnevale, ma i colori ambigui non affermano senza equivoci la gioia e la felicità. Come spiega l’artista stesso, quest’opera riflette “il modo in cui le persone sono, piene del desiderio di portare la festa ovunque ma sempre anche oppresse da storie e capitoli di vita che non sono sempre positivi” [9].

Questa tensione tra celebrazione e disperazione, tra fascinazione e ripulsione, è al centro dell’estetica di Ventura. Essa echeggia ciò che Cronenberg chiamava “l’estasi della carne”, quella strana esultanza che accompagna la trasformazione corporea anche quando è dolorosa o terrificante. In “La mosca”, il personaggio di Seth Brundle, mentre si trasforma in un insetto gigante, esclama: “Sono un insetto che sognava di essere un uomo e che adorava questo. Ma ora il sogno è finito, e l’insetto è sveglio” [10]. Questa consapevolezza tragica della nostra animalità fondamentale attraversa anch’essa l’opera di Ventura.

Nelle sue sculture della serie “Bulul” (2014), ispirate alle figure rituali delle divinità del riso della regione di Ifugao nelle Filippine, Ventura esplora questa frontiera porosa tra umanità e animalità. Trasforma queste sculture tradizionali in ibridi contemporanei, anatomici, tatuati, cubisti, angeli contro demoni, creando ciò che lui stesso definisce un “jazz up your Bulul”. Questa reinterpretazione di figure sacre tradizionali attraverso il filtro della cultura contemporanea ricorda il modo in cui Cronenberg, in “Crash”, trasforma l’incidente automobilistico, trauma per eccellenza della modernità, in una nuova forma di rituale erotico.

Ma mentre Cronenberg spinge le sue esplorazioni fino alle conclusioni più estreme e inquietanti, Ventura mantiene sempre un equilibrio precario tra provocazione e accessibilità. Le sue opere, nonostante il contenuto spesso perturbante, conservano una virtuosità tecnica e una bellezza formale che le rendono seducenti anche per un pubblico non esperto. Forse è questo che spiega il suo straordinario successo commerciale nel mercato dell’arte contemporanea asiatica.

Questa tensione tra radicalità concettuale e seduzione estetica rende Ventura un artista particolarmente emblematico del nostro tempo, un’epoca in cui la trasgressione viene immediatamente assorbita e mercificata dal sistema che pretende di criticare. Le sue opere ci pongono di fronte a un paradosso: come mantenere una posizione critica verso la globalizzazione culturale pur partecipando pienamente ai circuiti internazionali dell’arte contemporanea?

La domanda resta aperta, ma ciò che è certo è che Ventura continua a produrre opere che sfidano ogni facile categorizzazione. Attraverso la sua costante esplorazione dei limiti dell’identità culturale e corporea, ci offre una visione caleidoscopica delle Filippine contemporanee, un paese in perpetuo mutamento, lacerato tra tradizioni ancestrali e influenze globali, tra passato coloniale e aspirazioni future.

In questo senso, la sua arte costituisce un perfetto esempio di quella che Barthes chiamava “la signifiance”, quel processo attraverso cui i significati proliferano e sfuggono a qualsiasi tentativo di fissarli definitivamente [11]. Le opere di Ventura sono testi aperti, testimonianze visive in cui si sovrappongono e si scontrano diversi strati di significato, diverse stratificazioni culturali e storiche.

Allora la prossima volta che vi troverete di fronte a un dipinto di Ronald Ventura, non limitatevi ad ammirarlo per la sua virtuosità tecnica o per il suo prezzo nel mercato dell’arte. Lasciatevi catturare dai suoi strati multipli, perdetevi nelle sue contraddizioni e nelle sue ambiguità. Perché è proprio in quello spazio instabile tra categorie, in quelle zone di trasgressione dove i confini si confondono, che risiede la vera potenza della sua opera.


  1. Barthes, Roland. “Mitologie”, Éditions du Seuil, 1957.
  2. Ibidem.
  3. Ibidem.
  4. Cronenberg, David. Intervista in “Cronenberg on Cronenberg”, Faber & Faber, 1992.
  5. Ventura, Ronald. Citato in “Ronald Ventura. An Introspective” di Angelo Andriuolo per Juliet Art Magazine, 9 aprile 2022.
  6. Mendik, Xavier. “The New Flesh: Sexuality and Horror in Contemporary Culture”, Manchester University Press, 1998.
  7. Kristeva, Julia. “Poteri dell’orrore. Saggio sull’abiezione”, Éditions du Seuil, 1980.
  8. Barthes, Roland. “Mitologie”, Éditions du Seuil, 1957.
  9. Ventura, Ronald. Citato in “Ronald Ventura. An Introspective” di Angelo Andriuolo per Juliet Art Magazine, 9 aprile 2022.
  10. Cronenberg, David. “La Mosca”, 20th Century Fox, 1986.
  11. Barthes, Roland. “Il piacere del testo”, Éditions du Seuil, 1973.
Was this helpful?
0/400

Riferimento/i

Ronald VENTURA (1973)
Nome: Ronald
Cognome: VENTURA
Genere: Maschio
Nazionalità:

  • Filippine

Età: 52 anni (2025)

Seguimi