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Roni Horn : L’instabilità come materiale

Pubblicato il: 16 Ottobre 2025

Di: Hervé Lancelin

Categoria: Critica d’arte

Tempo di lettura: 15 minuti

Roni Horn crea sculture in vetro massiccio che sembrano liquide, fotografie in serie dove l’identità diventa flusso, installazioni dove il linguaggio si materializza. La sua opera esplora l’instabilità fondamentale di ogni forma, di ogni identità, in una pratica che rifiuta ostinatamente le categorie facili.

Ascoltatemi bene, banda di snob : Roni Horn è una delle poche artiste viventi ad aver capito che l’arte non si fa nella certezza, ma nell’inconforto volontario. Da quasi cinquant’anni questa newyorchese rifiuta ostinatamente di offrirvi ciò che vi aspettate. Nessuna firma visiva stabile, nessuna dichiarazione rassicurante, nessun manifesto comodo. Al contrario, vi getta in un labirinto di vetri fusi, fotografie in serie, disegni ritagliati e testi fluttuanti dove ogni opera sembra contraddire la precedente pur sussurrandole segreti. Il suo lavoro non è un marchio, è uno stato dell’essere che rifiuta l’assegnazione.

Il paradosso come territorio

Il vetro, materiale prediletto da Horn dalla metà degli anni novanta, incarna da solo tutta la perversione concettuale del suo approccio. Queste sculture massicce, che possono pesare fino a cinque tonnellate, possiedono quella qualità inquietante di essere allo stesso tempo solide e liquide. Perché tecnicamente il vetro è un liquido sopreraffreddato, un materiale che si rifiuta di scegliere il proprio campo tra gli stati della materia. Le superfici superiori dei suoi pezzi, levigate a fuoco, si curvano leggermente come acqua trattenuta dalla tensione superficiale. Si pensa di guardare in una piscina in miniatura, ma si osserva in realtà una massa compatta di materia congelata in uno stato intermedio. Questa ambiguità fondamentale non è solo una prova tecnica, è una metafora incarnata dell’identità stessa : mai fissa, sempre in divenire, ostinatamente refrattaria alla definizione.

Le opere come Pink Tons (2008), un cubo di vetro rosa di oltre quattro tonnellate, o la serie Well and Truly (2009-2010), composta da dieci cilindri di vetro in nuance di blu e verde pallido, illustrano questa filosofia materiale. Queste sculture cambiano costantemente in base alla luce naturale, alle condizioni meteorologiche, alla posizione dello spettatore. Rifiutano ogni identità visiva stabile. Ciò che vedete la mattina non è più ciò che vedrete il pomeriggio. Horn lo chiama un “oculus” acquoso, e ha ragione : questi oggetti sono finestre sull’instabilità stessa.

Il doppio come metodo d’inquietudine

Horn lavora ossessivamente a coppie, a serie, a ripetizioni che non sono mai davvero ripetizioni. La sua opera Things That Happen Again: For Two Rooms (1986) colloca due cilindri di rame lavorati identici in due spazi separati. Lo spettatore vede il primo, poi entra in un’altra stanza per trovarsi di fronte al secondo. Impossibile confrontarli fianco a fianco, impossibile verificare la loro identità supposta. Questa esperienza genera un’inquietudine sommessa: la vostra memoria è affidabile? Gli oggetti sono davvero identici? Voi stessi, siete gli stessi tra la prima e la seconda stanza? Horn usa la duplicazione non per rassicurare con la simmetria, ma per instaurare il dubbio. Vi costringe a riconoscere che la vostra stessa presenza, la vostra stessa temporalità, è ciò che attiva e modifica l’opera. Non siete un osservatore neutro, siete il fattore di instabilità.

Questa strategia del doppio raggiunge il suo apice in You Are the Weather (1994-1996), cento fotografie ravvicinate di una donna di nome Margret immersa in diverse sorgenti termali islandesi. Le variazioni di espressione sono minime, quasi impercettibili, determinate dalle condizioni meteorologiche al momento dello scatto. Il volto diventa paesaggio, il meteo diventa emozione, l’identità diventa flusso. Quindici anni dopo, Horn fotografa di nuovo la stessa donna in You Are the Weather, Part 2 (2010-2011), documentando il trascorrere del tempo con la stessa metodologia implacabile. Il tempo non è più astratto, si inscrive nelle rughe, nei cambiamenti sottili dello sguardo, nella gravità che tende la carne. È di una brutalità tenera, di una poesia clinica.

Emily Dickinson : l’architettura dell’assenza

L’ossessione di Horn per la poetessa americana Emily Dickinson non è un semplice riferimento culturale, è un’affinità strutturale profonda. Dickinson (1830-1886), che scrisse quasi mille e ottocento poesie di cui meno di una decina furono pubblicate in vita, condivideva con Horn questo gusto per la reclusione scelta, per il lavoro in solitudine come atto di resistenza. Dickinson usava il trattino come strumento di sospensione, di rifiuto della conclusione. Le sue poesie brevi, prive di titoli, rifiutavano le convenzioni metriche della sua epoca. Creava spazi vuoti, silenzi carichi di senso, ambiguità volontarie. In lei, l’identità era sempre plurale, instabile, soggetta a metamorfosi. Il “Io” delle sue poesie non era mai fisso, cambiava maschera, genere, stato dell’essere.

Horn ha creato diverse serie di opere basate sulla poesia di Dickinson. In When Dickinson Shut Her Eyes (1993), trasforma i primi versi delle poesie in aste di alluminio quadrate di diverse lunghezze, appoggiate a un muro, con il testo incassato in plastica nera colata. Le parole diventano oggetti tridimensionali, la poesia diventa scultura. Ma soprattutto, Horn libera i versi dalla pagina, dà loro una presenza fisica nello spazio. Il linguaggio non è più soltanto letto, è provato corporalmente. La serie Key and Cue continua questa collaborazione postuma, usando frammenti di poesie di Dickinson come materia prima per meditazioni sulla memoria, l’identità, la temporalità.

Ciò che lega fondamentalmente Horn a Dickinson è il loro rifiuto comune del simbolismo facile. Dickinson scriveva: “Per fare una prateria ci vuole un trifoglio e un’ape”. Questa precisione, questa attenzione al dettaglio concreto piuttosto che all’astrazione, la ritroviamo in tutta l’opera di Horn. Le due donne lavorano per accumulazione di dettagli minuscoli piuttosto che per grandi gesti. Comprendono che l’immenso si nasconde nell’infinitesimale, che la totalità si rivela nel frammento. Dickinson parlava di “Circumference”, questa linea che definisce i limiti dell’esperienza umana suggerendo al contempo l’illimitato oltre. Horn crea degli “oculus” vitrei che funzionano esattamente secondo lo stesso principio: aperture che sono anche limiti, finestre sull’abisso.

La solitudine scelta dalle due donne non è una fuga ma un metodo di lavoro. Dickinson si ritirava nella sua stanza, indossava solo bianco, rifiutava la maggior parte delle visite. Horn viaggia da sola in Islanda dal 1975, si isola in paesaggi ostili, dorme in fari abbandonati. Questo isolamento volontario crea le condizioni dell’attenzione estrema. Senza la distrazione del sociale, senza il rumore del mondo, si possono osservare i cambiamenti più sottili: le variazioni di luce sull’acqua, le microespressioni di un volto, i tremolii quasi impercettibili dell’identità. Le due artiste hanno capito che la solitudine non è l’assenza di relazione, ma la relazione più intensa possibile con il mondo non umano: il meteo, la geologia, il linguaggio stesso.

Dickinson scriveva spesso sulla morte e sull’immortalità, non come astrazioni teologiche ma come esperienze concrete, quasi tattili. Materializzava l’immateriale. Horn fa esattamente l’opposto: immaterializza il materiale. Le sue sculture in vetro massiccio sembrano fluttuare, le sue fotografie dell’acqua del Tamigi in Still Water (The River Thames, for Example) (1999) sono annotate con note a piè di pagina che raccontano storie di suicidi e desideri, trasformando l’acqua nera in testimonianze narrative. Per entrambe le donne, il confine tra il fisico e il psichico, tra il materiale e lo spirituale diventa poroso fino all’indistinguibilità.

L’architettura dell’instabilità : costruire con il vuoto

Se si dovesse identificare una forma architettonica che corrisponda al lavoro di Horn, non sarebbe né il monumento né la cattedrale, ma il faro. Non sorprende che lei abbia vissuto in un faro islandese nel 1982 per creare la serie Bluff Life. Il faro è una struttura che esiste per creare vuoto: un raggio di luce che attraversa l’oscurità, uno spazio di veglia e solitudine, un punto di riferimento che segnala precisamente il pericolo che permette di evitare. L’architettura del faro è funzionale ma simbolica, pragmatica ma poetica.

La sua opera più ambiziosa in termini architettonici è senza dubbio Vatnasafn/Library of Water (2007), installazione permanente nell’ex edificio della biblioteca di Stykkishólmur, in Islanda. Horn ha sostituito i libri con ventiquattro colonne di vetro riempite d’acqua proveniente dal ghiaccio sciolto di ventiquattro diversi ghiacciai. Il pavimento in gomma ocra è incastonato con parole in inglese e islandese che descrivono sia le condizioni meteorologiche sia gli stati umani: “cold”, “calm”, “fierce”, “suddalegt” (una parola islandese che significa sia un tempo umido sia una persona sgradevole). Le parole diventano un clima emozionale che si attraversa fisicamente camminando nello spazio.

L’architettura tradizionale aspira alla permanenza. Le biblioteche sono monumenti alla conservazione, fortezze contro l’oblio. Horn sovverte questa funzione creando una biblioteca d’acqua invece che di libri, un archivio del transitorio anziché del permanente. L’acqua, a differenza dei libri, non contiene informazioni stabili. Essa riflette, distorce, cambia costantemente. Alcune colonne sono rimaste torbide e opache, altre sono perfettamente chiare. Tutte variano a seconda della luce, dell’ora del giorno, della stagione. Questa biblioteca non archivia il passato, registra il presente perpetuo.

Lo spazio architettonico in Horn non è mai neutro. Nelle sue installazioni fotografiche come You Are the Weather, le immagini non sono semplicemente appese alle pareti, creano un ambiente immersivo, un “surround” che si espande nello spazio della galleria. Lo spettatore è circondato dai volti, accerchiato dagli sguardi, obbligato a girarsi su se stesso per vedere tutto. Questa disposizione spaziale trasforma l’osservazione in una coreografia forzata. Non si può vedere tutto in un colpo d’occhio, bisogna muoversi, ruotare, tornare indietro. L’architettura della mostra diventa un’architettura dell’esperienza temporale.

Confrontiamolo con l’architettura del Pantheon di Roma, costruito nel secondo secolo d.C., con il suo oculo centrale aperto sul cielo. Questo oculo, unica fonte di luce dell’edificio, crea un legame diretto tra lo spazio interno sacro e il cosmo esterno. La pioggia entra da questa apertura, i raggi del sole tracciano archi attraverso lo spazio nel corso della giornata. L’architettura smette di essere una protezione dagli elementi per diventare un quadro che li incorpora. Le sculture di vetro di Horn con le loro superfici “oculus” funzionano secondo un principio simile: non separano l’interno dall’esterno, creano una zona di indistinzione dove i due si interpenetrono.

L’architettura modernista del ventesimo secolo, incarnata da Mies van der Rohe e dal suo famoso “less is more”, aspirava a una trasparenza totale, alla cancellazione del muro tra dentro e fuori. Ma questa trasparenza era illusoria, basata su una fede ingenua nella neutralità del materiale. Horn comprende che la trasparenza non è mai neutra, è sempre carica, sempre portatrice di distorsioni. Il suo vetro non cerca di sparire, afferma la sua presenza materiale pur offrendo un’illusione di fluidità. È un’architettura che rifiuta la falsa promessa della trasparenza esplorandone però le possibilità estetiche.

Nelle sue opere in gomma come Agua Viva (2004), che integra frammenti del testo di Clarice Lispector in lastre di gomma sul pavimento, Horn crea un’architettura letterale che lo spettatore deve attraversare. Il testo non è più qualcosa che si legge da lontano, è qualcosa che si calpesta, si schiaccia, si consuma. Questa materializzazione brutale del linguaggio trasforma la lettura in azione fisica. L’architettura del pavimento diventa un’architettura di significato, dove camminare diventa interpretare.

L’Islanda come co-autrice

L’Islanda non è semplicemente un soggetto per Horn, è una collaboratrice a pieno titolo. Dal suo primo viaggio nel 1975, torna regolarmente su quest’isola vulcanica la cui geologia giovane e brutale sembra corrispondere a qualcosa nella sua psiche. Ha ottenuto la cittadinanza islandese con decreto parlamentare nel 2023, riconoscimento ufficiale di un legame di quasi cinquant’anni. La sua serie di libri To Place (1990-), che conta ora undici volumi, documenta questa relazione ossessiva. Non sono guide turistiche ma meditazioni sul modo in cui un luogo può modellare una coscienza.

L’Islanda offre a Horn ciò che cerca: l’inconfort produttivo, la sensazione di essere esposta agli elementi, l’assenza di mediazione tra sé e la natura. In paesaggi dove le condizioni meteorologiche cambiano ogni dieci minuti, dove le formazioni vulcaniche creano una geometria estranea, dove l’isolamento è strutturale piuttosto che accidentale, Horn trova le condizioni ideali per il suo lavoro. Ha detto che l’Islanda è un verbo la cui azione è “centrarsi”. Questa frase enigmatica significa che l’Islanda non funziona come scenario ma come forza attiva che concentra l’attenzione, che riporta costantemente al presente crudo.

Il paesaggio islandese appare nella sua opera non come rappresentazione pittoresca ma come presenza geologica. In Pi (1998), quarantacinque immagini a colori scattate in sei anni in Islanda documentano la luce, l’acqua, le formazioni rocciose con una precisione quasi scientifica. Ma questa documentazione non è oggettiva, è profondamente soggettiva, registrando tanto lo stato psichico dell’artista quanto le condizioni fisiche del luogo. Il paesaggio diventa psicopaesaggio, la geologia diventa psicogeologia.

La fotografia come trappola temporale

La fotografia in Horn non è mai un istante decisivo alla Cartier-Bresson. È un processo di accumulazione, variazione, ripetizione ossessiva. In Portrait of an Image (with Isabelle Huppert) (2005-2006), fotografa l’attrice francese mentre interpreta i propri personaggi cinematografici. Cinquanta immagini di Huppert che imita Huppert che imita Emma Bovary, o Béatrice in La Dentellière, o i suoi altri ruoli emblematici. Questo gioco di specchi vertiginoso pone la domanda: dove inizia l’identità autentica e dove finisce la performance? Huppert, che Horn definisce “anti-iconica” in opposizione a Marilyn Monroe, rifiuta la fissità. Ogni ruolo aggiunge uno strato di complessità al suo personaggio pubblico piuttosto che ridurlo a un’essenza.

La scelta di Huppert non è casuale. L’attrice francese è famosa per prendersi rischi, per interpretare personaggi psicologicamente complessi e spesso inquietanti. Non cerca di essere amata dal pubblico, cerca la verità del personaggio, anche se brutta. Questa integrità artistica fa eco all’approccio di Horn. Le due donne rifiutano la facilità, rifiutano di dare al pubblico ciò che si aspetta. Lavorano nell’inconfort come metodo.

In Still Water (The River Thames, for Example) [1], quindici litografie fotografiche della superficie del Tamigi sono annotate con note a pie’ di pagina che raccontano aneddoti, riflessioni, frammenti narrativi. Una donna in una Ford Fiesta gialla si getta nel fiume con il suo setter irlandese. L’acqua è nera, torbida, sexy secondo Horn. Queste note trasformano le immagini di superfici d’acqua in testimonianze narrative, in depositarie di tutte le storie che si sono svolte dentro e intorno al fiume. La fotografia smette di essere documentazione per diventare finzione, o meglio rivela che tutta la documentazione contiene finzione, che ogni sguardo è già interpretazione.

Il disegno come respiro

Horn ha detto che il disegno è per lei “una forma di attività respiratoria quotidiana”. È l’unica pratica nella sua opera dove mantiene un contatto diretto con il materiale, senza mediazione tecnica, senza produzione esternalizzata. Disegna ogni giorno. Questa disciplina monastica crea una continuità, un filo rosso attraverso un corpus altrimenti frammentato. I disegni vengono ritagliati e riassemblati, creando “centri” multipli, isole di linee e segni. Sono coperti da quella che lei chiama “fine drizzle”, cioè una pioggerellina di note a matita, dove il disegno diventa scrittura e la scrittura diventa disegno.

La serie Wits’ End gioca con gli idiomi e i proverbi, decostruendoli per creare espressioni assurde. Le parole sono le sue immagini, e le dipinge in modo espressionista. In LOG (March 22, 2019 – May 17, 2020), più di quattrocento opere su carta documentano quotidianamente il periodo della pandemia. Collages di testi trovati, titoli di giornale, vecchie fotografie di film, bollettini meteorologici. L’ultima voce porta l’iscrizione paradossale: “I am paralyzed with hope” (Sono paralizzata dalla speranza). Questa frase cattura perfettamente l’energia contraddittoria di tutto il lavoro di Horn: l’immobilità che contiene il movimento, la disperazione che contiene la speranza, la paralisi che è essa stessa una forma di azione.

Il rifiuto della mercificazione

In un mondo dell’arte dominato dalla sovrapproduzione, da laboratori-fabbrica che impiegano centinaia di assistenti per soddisfare le richieste del mercato, Horn mantiene una produzione limitata. Controlla minuziosamente come viene presentato il suo lavoro, rifiutando l’illuminazione LED che “appiattisce completamente il lavoro”, insistendo sulla luce naturale. Le sue mostre non viaggiano sempre. La sua grande retrospettiva al museo d’arte di Reykjavík nel 2009, My Oz, è rimasta in Islanda, un rifiuto deliberato della circolazione internazionale abituale. Questo gesto afferma che il luogo conta, che il contesto è costitutivo dell’opera.

Non produce per un pubblico astratto ma secondo una necessità interiore. Quando questa necessità scompare, si ferma. Ha dichiarato di aver finito con le sculture di vetro, di aver finito con la serie Dickinson. Queste opere esistono ora nel mondo, autonome. Questa capacità di chiudere un capitolo e di passare oltre senza nostalgia è rara. La maggior parte degli artisti sfrutta i propri successi fino all’esaurimento. Horn rifiuta questa logica di estrazione capitalista applicata alla propria creatività.

Il suo atteggiamento verso l’identità artistica riflette la stessa integrità. Ha vissuto la sua vita in uno “stato leggero di travestimento”, rifiutando di identificarsi fortemente a un genere, rifiutando di partecipare alla scena queer anche se il suo lavoro risuona profondamente con le questioni d’identità fluida. Questa posizione da outsider non è posture ma necessità. Dice: “Non sono sicura di essere un’artista visiva”. Questa affermazione non è falsa modestia ma riconoscimento che il suo lavoro eccede le categorie disponibili.

Verso una conclusione che non è una conclusione

Guardiamo in faccia la realtà: l’opera di Roni Horn resiste alla conclusione. È costruita sul rifiuto della chiusura, sull’insistenza che ogni identità, ogni forma, ogni senso è provvisorio. I suoi cerchi possono sempre essere circondati da altri cerchi, per parafrasare Emerson che Dickinson leggeva assiduamente. Ogni risposta genera nuove domande, ogni chiarezza rivela nuove opacità.

Ciò che rende Horn essenziale oggi, nel 2025, mentre viviamo in una cultura ossessionata dall’identità fissa, dalle categorie rigide, dalla performance costante del sé sui social network, è proprio il suo rifiuto di giocare a questo gioco. Insiste che l’identità è fluida, contestuale, temporale. Ci mostra che la forza non risiede nella fissità ma nella capacità di cambiare, di adattarsi, di rimanere aperti nonostante il disagio.

La sua opera è un antidoto al branding, alla mercificazione dell’identità artistica. È un promemoria che l’arte può ancora funzionare come spazio di resistenza, come luogo dove le certezze sono sospese invece che rafforzate. In un mondo saturato di immagini, Horn crea immagini che richiedono tempo, che esigono un’attenzione sostenuta, che rifiutano il consumo rapido.

La bellezza delle sue sculture in vetro non è gratuita, è un artefatto del suo processo concettuale. Non cerca di sedurre ma di perturbare, di instaurare un dubbio produttivo. Questa bellezza è una conseguenza, non un obiettivo. Arriva come effetto secondario della rigore intellettuale, dell’integrità materiale, dell’attenzione ossessiva ai dettagli.

L’eredità di Horn sarà questa dimostrazione che è possibile mantenere una pratica artistica rigorosa senza compromessi, senza concessioni al mercato, senza sacrificare la complessità alla chiarezza. Mostra che si può essere profondamente concettuali pur creando oggetti sensuali, che si può essere filosoficamente sofisticati pur restando accessibili all’esperienza diretta. Il suo lavoro dimostra che l’ambiguità non è confusione ma ricchezza, che l’incertezza non è debolezza ma coraggio.

Allora sì, Roni Horn è difficile. Lei rifiuta di renderti le cose facili. Non ti spiega le sue opere, non ti dà le chiavi di interpretazione. Ti costringe a essere presente, a guardare attentamente, a dubitare di quello che vedi. Ed è esattamente ciò di cui abbiamo bisogno: artisti che rifiutano di infantilizzarci, che ci trattano come adulti capaci di tollerare il disagio e l’ambiguità. Horn non ti dà risposte, ti dà domande migliori. E in un mondo saturo di false certezze, è il più grande dono che un artista possa offrire.


  1. Roni Horn, Still Water (The River Thames, for Example), 1999, Museum of Modern Art, New York
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Riferimento/i

Roni HORN (1955)
Nome: Roni
Cognome: HORN
Genere: Femmina
Nazionalità:

  • Stati Uniti
  • Islanda

Età: 70 anni (2025)

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