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Salvo: il pittore che reinventò la luce

Pubblicato il: 7 Dicembre 2024

Di: Hervé Lancelin

Categoria: Critica d’arte

Tempo di lettura: 6 minuti

Salvatore Mangione, detto Salvo, trasforma ogni paesaggio in un teatro metafisico, dove una luce elettrica trascende il reale. Le sue vedute urbane e i panorami naturali, dai colori allucinatori, rivelano una modernità nascosta che frequentiamo senza mai vederla veramente.

Ascoltatemi bene, banda di snob, quello che bisogna capire su Salvatore Mangione, detto Salvo (1947-2015), è che è stato uno degli artisti più sovversivi della sua generazione. Mentre voi vi estasiavate davanti a monocromi e installazioni concettuali minimaliste nel 1973, lui, questo genio siciliano esiliato a Torino, ha avuto il supremo coraggio di tornare alla pittura figurativa. Sì, avete capito bene, alla pittura! Quella cosa che consideravate morta e sepolta, quella pratica che giudicavate obsoleta, lui l’ha resurrezionata con una insolenza magistrale che vi ha lasciati tutti a bocca aperta.

La storia inizia nella Torino degli anni ’60, questa città industriale del nord Italia dove il giovane Salvo arriva dalla sua Sicilia natale. In quegli anni, si guadagnava da vivere vendendo copie di Rembrandt e Van Gogh, imparando il mestiere nell’umiltà del copista. Ma non fatevi ingannare, non era per mancanza di originalità. Era una strategia consapevole, un modo per appropriarsi della storia dell’arte per meglio sovvertirla più tardi. Come scriveva Walter Benjamin nelle sue tesi sulla storia, il passato non è un tempo passato ma una forza attiva che può far esplodere il continuum della storia.

In un primo momento, Salvo si afferma come l’artista del decentramento radicale. Tra il 1968 e il 1972, nel pieno fervore dell’Arte Povera, condivide il suo studio con Alighiero Boetti e frequenta tutto ciò che l’avanguardia italiana conta di rivoluzionari: Michelangelo Pistoletto, Mario Merz, Giuseppe Penone. Ma là dove i suoi contemporanei cercano di decostruire l’oggetto d’arte, Salvo invece si concentra sulla figura stessa dell’artista. I suoi autoritratti fotografici in cui si mette in scena come Raffaello o come santo che benedice la folla non sono semplici provocazioni narcisistiche. Sono atti di guerriglia semiotica, per riprendere i termini di Umberto Eco, dei dirottamenti che rivelano l’assurdità delle pose eroiche dell’artista moderno.

Le lastre di marmo dove incide “Io sono il migliore” (Sono il migliore) o “Salvo è vivo” (Salvo è vivo) funzionano come enunciati performativi che mettono in discussione lo stesso status dell’artista nella società. Non è un caso se queste opere appaiono proprio nel momento in cui Roland Barthes proclama la morte dell’autore. Salvo porta la logica fino al suo punto di rottura: se l’autore è morto, allora l’artista può diventare chiunque, anche un santo, anche un eroe, anche un rivoluzionario cubano.

Ma è nel suo secondo periodo, a partire dal 1973, che Salvo diventa veramente rivoluzionario. La sua decisione di tornare alla pittura figurativa è un atto di resistenza culturale di una audacia inaudita. In un’epoca in cui l’arte concettuale regna sovrana, dove la pittura è considerata una pratica borghese superata, Salvo afferma la possibilità di una pittura critica, di una figurazione che non sia una semplice regressione nostalgica ma una reinvenzione radicale del nostro rapporto con il visibile.

I suoi paesaggi dai colori elettrici, le sue vedute urbane immerse in una luce irreale, le sue composizioni che sembrano emergere da un sogno allucinato sono tante schiaffi al buon gusto dominante. Jacques Rancière probabilmente vedrebbe in questo approccio una vera redistribuzione del sensibile, un modo di reinventare il nostro rapporto con il visibile creando immagini che sono allo stesso tempo familiari e profondamente strane.

Prendiamo i suoi paesaggi notturni degli anni 1980-1990. Non sono semplici vedute pittoresche, ma esplorazioni profonde della temporalità e della percezione. Le tonalità irreali che usa, blu elettrici, rosa fosforescenti, gialli acidi, creano una tensione visiva che mette in crisi la nostra percezione abituale del reale. Maurice Merleau-Ponty scriveva che la pittura non è una finestra sul mondo ma un modo per mostrare come le cose diventano cose e il mondo diventa mondo. Salvo porta questa logica ai suoi limiti più estremi.

Nelle sue vedute della valle del Po, nei suoi panorami delle colline del Monferrato, nei suoi paesaggi siciliani, la natura è trasfigurata da una luce che non esiste da nessuna parte in natura. Gli alberi sembrano congelati in un’immobilità minerale, le architetture acquisiscono una presenza fantasmagorica. È ciò che Martin Heidegger chiamerebbe lo svelamento dell’essere, questa capacità dell’arte di far emergere la verità non come aderenza alla realtà ma come precipitazione di un mondo nuovo.

Salvo crea immagini che sono allo stesso tempo radicate nella tradizione e radicalmente contemporanee. I suoi paesaggi urbani, con le loro prospettive falsamente ingenue e i loro colori impossibili, ci parlano di una modernità che tutti conosciamo ma che non vediamo mai davvero. Walter Benjamin avrebbe riconosciuto in queste immagini dialettiche ferme, momenti in cui il tempo si cristallizza in una configurazione carica di tensioni. Le strade deserte, le piazze vuote, le architetture solitarie diventano gli emblemi di una condizione contemporanea in cui il sublime è migrato ai margini del quotidiano.

I suoi viaggi incessanti, in Afghanistan con Boetti, poi in Grecia, Turchia, Siria, Oman, Tibet, Islanda, alimentano una visione del paesaggio che trascende il locale per raggiungere l’universale. Ogni luogo diventa sotto il suo pennello un teatro metafisico dove si gioca il dramma della percezione. I minareti di Istanbul, le tombe musulmane di Sarajevo, le montagne islandesi sono trasformati da una luce che sembra venire da un altro mondo. Questa luce, Salvo la lavora esclusivamente con l’elettricità, rifiutando la luce naturale per creare meglio i suoi effetti allucinanti.

Nel 1986 pubblica “Della Pittura”, un trattato in 238 punti ispirato al “Tractatus Logico-Philosophicus” di Wittgenstein. Non è un manifesto tradizionale ma un tentativo di pensare la pittura come un linguaggio autonomo, capace di creare le proprie regole e la propria logica. Come scriveva Theodor Adorno, l’arte più radicale è quella che mantiene la capacità di creare senso pur resistendo al recupero da parte del sistema dominante.

Le ottomanie, questi paesaggi in cui appaiono minareti ridotti alla loro più semplice espressione geometrica, segnano una nuova tappa nella sua ricerca. Questo neologismo che inventa mostra la sua capacità di creare non solo immagini ma anche concetti. Queste architetture semplificate all’estremo, immerse in una luce irreale, diventano segni puri, geroglifici di un alfabeto visivo personale.

Negli anni ’90 e 2000 Salvo intensifica ancora la sua ricerca cromatica. Le sue vedute di pianure, nuova tematica che appare nella sua opera, sono l’occasione per esplorare i limiti della percezione. La planarità del paesaggio diventa uno schermo su cui proiettare variazioni cromatiche di un’intensità allucinatoria. Queste opere richiamano le ricerche di Josef Albers sull’interazione dei colori, ma trasportandole nel campo della figurazione.

Gli ultimi anni della sua vita sono segnati da un ritorno a certi temi abbandonati da più di trent’anni: una grande Italia, una Sicilia, un Bar. Ma questo ritorno non è una ripetizione: ogni motivo viene reinventato, trasformato da tre decenni di esplorazione pittorica. Come scriveva Gilles Deleuze, la ripetizione non è mai ritorno dell’identico ma produzione della differenza.

La pratica di Salvo ci mostra che la tradizione può essere il veicolo della più grande novità. Scegliendo di dipingere in un’epoca in cui ciò sembrava anacronistico, non ha dimostrato conservatorismo ma radicalità. Ha mostrato che la pittura poteva ancora essere uno strumento di pensiero critico, un modo per interrogare il nostro rapporto con il mondo visibile. Rancière parlerebbe qui di un “partage du sensible”, quel modo in cui l’arte ridefinisce ciò che è visibile, dicibile e pensabile in una società data.

Se ancora non capite perché Salvo sia uno degli artisti più importanti della sua generazione, è perché siete ancora prigionieri dei vostri pregiudizi modernisti. Ha avuto il coraggio di tornare alla pittura quando tutti la dichiaravano morta, e l’ha fatto non per conservatorismo ma per pura radicalità. Ci ha mostrato che la tradizione non è un peso morto ma una forza viva capace di trasformare il nostro presente. E questo, banda di snob, è una lezione che fareste bene a meditare a lungo davanti alle sue tele incandescenti.

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Riferimento/i

SALVO (1947-2015)
Nome:
Cognome: SALVO
Altri nome/i:

  • Salvatore Mangione

Genere: Maschio
Nazionalità:

  • Italia

Età: 68 anni (2015)

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