Ascoltatemi bene, banda di snob! Sarah Morris (nata nel 1967) non è solo un’artista che fa belle griglie colorate per decorare i vostri salotti asettici. È una delle poche che ha capito che l’astrazione geometrica non è morta con Mondrian, ma che può ancora parlarci del nostro mondo iper-capitalista, sovra-industrializzato e paradossalmente disconnesso.
Guardate i suoi dipinti monumentali, queste composizioni matematiche che sembrano uscite da un manuale di geometria non euclidea. Queste opere non sono fatte per abbellire i vostri interni di design. Sono il riflesso implacabile della nostra società algoritmica, dove ogni decisione è dettata da matrici di dati. Morris utilizza la pittura gliceroftalica industriale, quella che si trova in qualsiasi negozio di bricolage. Una scelta radicale che richiama il pensiero di Walter Benjamin sulla riproducibilità tecnica dell’arte. Trasforma questo materiale banale in superfici lucide che agiscono come specchi deformanti della nostra realtà urbana.
Le sue ultime serie “Sound Graph” e “Spiderweb” sono particolarmente incisive. Queste tele sembrano catturare l’essenza stessa di ciò che Gilles Deleuze chiamava le “società di controllo”. Le linee si intrecciano come flussi di informazioni, creando nodi di tensione che evocano i punti nevralgici delle nostre metropoli sorvegliate. La griglia non è più solo un dispositivo formale ereditato dal modernismo, ma diventa una metafora gelida delle nostre vite scandite dagli algoritmi.
Ma Morris non si limita a dipingere. Filma anche le nostre città con una precisione chirurgica che farebbe sembrare Dziga Vertov un dilettante. I suoi film come “Rio”, “Beijing” o “Abu Dhabi” non sono semplici documentari turistici. Sono dissezioni implacabili di ciò che Guy Debord chiamava la “società dello spettacolo”. Cattura queste metropoli nella loro smisuratezza architettonica, nel loro hubris capitalistico, nel loro desiderio patologico di controllo.
In “Finite and Infinite Games” (2017) spinge ancora più avanti la sua riflessione ispirandosi alle teorie di James P. Carse. Ci mostra come l’architettura contemporanea, incarnata dalla Philharmonie dell’Elba a Amburgo, diventi il teatro di una lotta tra due concezioni del mondo: quella del gioco finito (vincere a tutti i costi) e quella del gioco infinito (giocare per continuare a giocare).
Il suo lavoro è uno schiaffo ai sostenitori di un’arte decorativa e innocua. Usa i codici dell’astrazione geometrica non per creare opere decorative, ma per dissezionare i meccanismi di potere che governano le nostre società. I suoi dipinti e i suoi film funzionano come radiografie della nostra epoca, rivelando le strutture invisibili che ci costringono.
Sarah Morris trasforma dati freddi, siano essi piante architettoniche, statistiche economiche o registrazioni sonore, in esperienze estetiche viscerali. Riuscì in questo raro colpo d’effetto: rendere visibile l’invisibile senza cadere nel didattismo. Le sue opere ci mettono di fronte alla realtà delle nostre città-macchina, queste megalopoli che ci promettono il paradiso mentre ci rinchiudono in griglie dorate.
A tutti coloro che pensano che l’arte contemporanea debba limitarsi a essere decorativa, Morris oppone una pratica radicalmente politica. Riprende le armi formali del modernismo: la griglia, il colore puro, la geometria, per rivoltarle contro il sistema che le ha svuotate della loro sostanza rivoluzionaria. I suoi dipinti sono virus visivi che si infiltrano negli spazi asettici del capitalismo maturo per rivelarne le contraddizioni.
Il modo in cui associa pittura e cinema è particolarmente pertinente. Questi due media, apparentemente antagonisti, si nutrono a vicenda in una dialettica affascinante. I suoi film documentano la realtà brutale delle nostre metropoli mentre i suoi dipinti astraggono le strutture sottostanti. È proprio quella che Fredric Jameson chiamava la “cartografia cognitiva” del capitalismo maturo.
La sua installazione “Ataraxia” (2019) porta questa logica al suo parossismo. Coprendo le pareti di un’intera stanza con motivi geometrici, crea uno spazio mentale che evoca tanto le sale di controllo delle multinazionali quanto le celle imbottite degli ospedali psichiatrici. L’atarassia, quello stato di calma imperturbabile ricercato dai filosofi stoici, diventa qui il sintomo di una società anestetizzata dai propri dispositivi di controllo.
Mentre oggi l’architettura è diventata il braccio armato del capitalismo finanziario, dove i grattacieli sono meno edifici e più grafici tridimensionali della speculazione immobiliare, Morris pone domande essenziali: chi controlla lo spazio? Come la geometria del potere plasma le nostre vite? Le sue opere sono macchine di visione che ci permettono di vedere ciò che non volevamo vedere.
Non fatevi ingannare: dietro l’eleganza formale delle sue composizioni si nasconde una critica tagliente della nostra modernità tardiva. Morris non è una decoratrice per lobby di multinazionali, è un’anatomista del capitalismo contemporaneo. Scopre le strutture del potere con la precisione di un chirurgo e la rabbia contenuta di un’attivista.
















