Ascoltatemi bene, banda di snob: ecco un artista che rifiuta di distogliere lo sguardo di fronte all’apocalisse ordinaria delle nostre metropoli contemporanee. Sayre Gomez, maestro dell’iperrealismo californiano, ci confronta con una verità che preferiamo ignorare dietro i nostri schermi e i nostri filtri Instagram. Le sue tele, di una precisione tecnica stupefacente, rivelano la poesia nascosta nella spazzatura della nostra civiltà consumista. Ogni colpo di pennello, ogni bagliore di neon malfunzionante, ogni adesivo staccato testimonia un’umanità che sopravvive negli interstizi del capitalismo tardivo.
L’opera di Gomez si articola attorno a un paradosso fondamentale: come può l’illusione perfetta rivelare una verità più autentica della realtà stessa? I suoi dipinti, realizzati con aerografo secondo tecniche prese in prestito dai decoratori hollywoodiani, trasformano i paesaggi urbani di Los Angeles in allegorie contemporanee. In Palm Tower, quell’antenna mascherata da palma sotto un cielo degno di Tiepolo, l’artista espone la mascherata della nostra infrastruttura tecnologica. Il sublime pittorico incontra la trivialità industriale in un attrito che genera un malessere profondo, una sensazione di imminente catastrofe che attraversa tutta la sua opera.
Questa estetica della disillusione trova le sue radici in una tradizione letteraria europea particolarmente ricca. L’approccio di Gomez evoca irresistibilmente l’universo di J.G. Ballard, quell’esploratore delle patologie della modernità tardiva. Come l’autore britannico nei suoi romanzi di anticipazione urbana, Gomez rivela come i nostri ambienti plasmino la nostra psiche collettiva. I centri commerciali abbandonati, i cartelloni pubblicitari decrepiti e le auto bruciate dei suoi dipinti ricordano i paesaggi mentali di Ballard, dove la tecnologia e il desiderio consumista generano nuove forme di alienazione. In Crash o La Foresta di Cristallo, Ballard descriveva già questa estetizzazione della violenza urbana che Gomez materializza nelle sue composizioni accuratamente orchestrate [1].
L’artista condivide con lo scrittore questa fascinazione per gli spazi liminali, quelle zone dove la civiltà rivela le sue crepe. I suoi dipinti di negozi chiusi, di terreni incolti disseminati di rifiuti e di segnaletica malfunzionante costituiscono altrettanti territori psicogeografici dove si cristallizzano le tensioni della nostra epoca. Ballard parlava di “fiction speculativa” per descrivere le sue esplorazioni dei futuri probabili; Gomez pratica una “pittura speculativa” che rivela i presenti nascosti delle nostre metropoli. Le loro rispettive opere operano per accumulo di dettagli apparentemente insignificanti che, una volta assemblati, disegnano un ritratto impietoso della nostra condizione contemporanea.
Questa dimensione critica dell’arte di Gomez si illumina anche dal suo rapporto con l’immaginario cinematografico, in particolare con il cinema di fantascienza distopica. L’influenza della settima arte sulla sua pratica va oltre la semplice citazione estetica per diventare un modo operativo. Le sue tele funzionano come piani sequenza immobili, dei fermo immagine estratti da un film invisibile che documenterebbe l’agonia del Sogno Americano. Questo approccio cinematografico si manifesta nella sua padronanza della luce, nei suoi inquadramenti precisi e nella sua capacità di creare una tensione narrativa a partire da elementi statici.
L’opera di Gomez dialoga particolarmente con l’estetica del film noir e del cinema di serie B degli anni ’50 e ’60, quelle produzioni che già esploravano le zone d’ombra del sogno americano. Come nei film di Don Siegel o Samuel Fuller, i suoi dipinti rivelano un’America sotterranea, quella degli emarginati e degli spazi diseredati. Le sue composizioni notturne, immerse in neon pallidi e illuminazioni artificiali, evocano l’immaginario espressionista del film noir aggiornandolo nel contesto della metropoli contemporanea.
Ancora di più, Gomez si iscrive nella linea del cinema di fantascienza pessimista, da Blade Runner di Ridley Scott ai film di John Carpenter. I suoi paesaggi urbani condividono con queste opere una visione crepuscolare della modernità, dove la tecnologia, lungi dal liberare l’umanità, la sottopone a nuove forme di oppressione. Le torri di telecomunicazione mascherate da vegetazione, gli schermi onnipresenti e le infrastrutture degradate delle sue tele evocano questi futuri distopici in cui il confine tra organico e artificiale si dissolve pericolosamente.
Il trattamento del colore in Gomez prende anche in prestito dal vocabolario cromatico del cinema fantastico e horror. I suoi tramonti dai toni chimici, le sue illuminazioni al neon saturate e i suoi cieli apocalittici richiamano la palette visiva di film come Suspiria di Dario Argento o Mandy di Panos Cosmatos. Questa colorimetria espressionista trasforma il banale in inquietante, il familiare in minaccioso, rivelando le potenzialità di orrore nascoste nella nostra quotidianità urbana.
L’artista sviluppa una grammatica visiva che prende in prestito i codici del cinema di genere per trasformare la realtà documentaria in un’esperienza estetica disturbante. Le sue tecniche di composizione, ereditate dai decoratori di set hollywoodiani, creano un’iperrealtà che rivela i meccanismi di costruzione delle nostre immaginazioni collettive. Ogni dettaglio delle sue tele è calcolato con la precisione di un direttore della fotografia, ogni effetto di luce pensato come un elemento narrativo. Questo approccio cinematografico alla pittura permette a Gomez di superare la semplice rappresentazione per creare veri e propri ambienti immersivi.
L’influenza del cinema sul suo lavoro si manifesta anche nella sua concezione seriale della creazione. Come un regista che sviluppa un universo filmico coerente attraverso diverse opere, Gomez costruisce metodicamente una mitologia personale di Los Angeles. Le sue serie X-Scapes, Halloween City o Heaven ‘N’ Earth funzionano come gli episodi di una saga visiva che mappa le mutazioni della metropoli californiana. Questo approccio seriale gli permette di approfondire le sue ossessioni tematiche variando gli angoli di approccio, creando un corpus di notevole coerenza narrativa.
La precisione tecnica di Gomez, ben lungi dall’essere un semplice esercizio di abilità, costituisce una posizione estetica e politica. In un’epoca in cui l’immagine digitale ha banalizzato la manipolazione visiva, il suo ritorno alla maestria artigianale dell’aerografo afferma la persistenza della mano umana di fronte all’automazione. Le sue sculture di colonne di parcheggio, riprodotte con una cura maniacale a partire da materiali di recupero, interrogano il nostro rapporto con l’autenticità in un mondo saturo di simulacri.
Questa ricerca dell’iperrealtà rivela paradossalmente l’artificialità dei nostri ambienti contemporanei. Riproducendo fedelmente le texture degradate, le superfici graffiate e i colori sbiaditi dei suoi soggetti urbani, Gomez espone i processi di usura e deterioramento che colpiscono i nostri spazi di vita. Le sue tele diventano archivi della decomposizione, testimonianze della fragilità delle nostre costruzioni umane di fronte al tempo e agli elementi.
L’artista sviluppa anche una riflessione profonda sui codici visivi della rappresentazione contemporanea. I suoi dipinti di vetrine, con i loro riflessi complessi e le superfici stratificate, mettono in discussione la nostra percezione della realtà nell’era degli schermi onnipresenti. Come afferma lui stesso: “La fotografia non può più presentare la verità in modo obiettivo. Mi piace l’idea di cercare di capire la verità o di trovarla in un modo indiretto. La verità è qualcosa di soggettivo” [2].
Questa consapevolezza della soggettività insita in ogni rappresentazione pone Gomez in una posizione critica di fronte alle pretese documentarie dell’arte contemporanea. Le sue composizioni, accuratamente orchestrate a partire da elementi disparati tratti dal suo archivio fotografico personale e dalle banche di immagini digitali, assumono pienamente il loro carattere costruito. Questo approccio post-fotografico rivela i meccanismi di produzione della nostra immaginazione visiva, mettendo in discussione il valore di verità attribuito all’immagine.
L’opera di Gomez si arricchisce di una dimensione sociologica particolarmente rilevante nel contesto americano contemporaneo. Le sue rappresentazioni della povertà urbana, dei senzatetto e degli spazi abbandonati testimoniano le fratture sociali che attraversano la società californiana. Lontano da qualsiasi voyeurismo compassionevole, i suoi dipinti rivelano con freddezza clinica i meccanismi di esclusione e marginalizzazione che operano nelle nostre metropoli.
Questo approccio documentaristico trova la sua forza nella capacità di rivelare l’extraordinario nell’ordinario, lo spettacolare nel banale. I suoi dipinti di centri commerciali abbandonati, terreni incolti e veicoli incidentati trasformano i sintomi della crisi urbana in oggetti estetici inquietanti. Questa estetizzazione della miseria sociale potrebbe sembrare problematica, ma Gomez evita la trappola del compiacimento grazie alla rigore del suo approccio e alla distanza critica che mantiene rispetto ai suoi soggetti.
Le sue sculture di manichini e oggetti di uso quotidiano, dipinti in monocromi saturi, interrogano i meccanismi di feticizzazione commerciale che regolano le nostre società di consumo. Questi oggetti familiari, cristallizzati nel loro involucro colorato, diventano reliquie di una civiltà futura, reperti archeologici del nostro presente consumista. Questo approccio museografico rivela l’obsolescenza programmata che colpisce non solo i nostri oggetti, ma anche i nostri spazi di vita e le nostre relazioni sociali.
L’artista sviluppa un’estetica della rovina contemporanea che rivela i cicli di distruzione e ricostruzione che scandiscono l’evoluzione urbana. Le sue rappresentazioni di cantieri, demolizioni e terreni industriali abbandonati testimoniano la violenza creatrice del capitalismo, la sua capacità di trasformare continuamente lo spazio urbano al ritmo delle fluttuazioni economiche. Questa geografia dell’instabilità rivela i meccanismi di accumulazione primitiva che continuano a operare nelle nostre metropoli contemporanee.
L’opera di Sayre Gomez rappresenta una testimonianza essenziale della nostra epoca, uno specchio spietato puntato sulle nostre illusioni collettive. I suoi dipinti, di una bellezza inquietante, rivelano la poesia nascosta nelle macerie della nostra tarda modernità. Ci ricordano che l’arte autentica nasce spesso dal confronto con ciò che preferiamo ignorare, in quelle zone d’ombra dove si rivelano le contraddizioni del nostro tempo. Di fronte all’accelerazione tecnologica e alla crescente dematerializzazione delle nostre esperienze, Gomez riafferma la necessità di guardare davvero, di prendersi il tempo per l’osservazione e la contemplazione. Il suo iperrealismo paradossale ci invita a riscoprire la complessità del reale, al di là delle semplificazioni mediatiche e dei filtri digitali che plasmano la nostra percezione contemporanea.
- J.G. Ballard, Crash (1973) e La Foresta di cristallo (1966), romanzi che esplorano le mutazioni psicologiche indotte dagli ambienti tecnologici e urbani.
- Intervista con Sayre Gomez, GQ Magazine, febbraio 2024.
















