Ascoltatemi bene, banda di snob, se pensate che il paesaggio contemporaneo non abbia più nulla da dirci, è perché non avete ancora incontrato l’opera stupefacente di Shara Hughes. Questa artista americana, nata nel 1981 ad Atlanta, ha compiuto la straordinaria impresa di reinventare un genere che molti consideravano esaurito, creando mondi paralleli che sfidano la nostra comprensione convenzionale della natura e della rappresentazione.
In un’epoca saturata di ripetizioni e concetti ormai logori, Hughes si distingue per la sua capacità di creare opere che trascendono le categorie tradizionali. I suoi paesaggi non sono semplici rappresentazioni di luoghi esistenti, ma costruzioni mentali complesse che ci invitano a esplorare i territori inesplorati della nostra psiche. Attraverso il suo sguardo unico, ogni quadro diventa una finestra aperta su un mondo dove le leggi della fisica e della percezione vengono riscritte secondo una logica onirica.
Prendiamo ad esempio la sua opera magistrale “The Delicate Gloom” (2018), che illustra perfettamente la sua capacità di trasformare un semplice motivo floreale in una meditazione profonda sulla natura della coscienza. In questa tela vertiginosa, i colori sembrano pulsare di vita propria, creando ritmi visivi che ricordano i battiti di un cuore cosmico. I viola intensi si mescolano ai verdi acidi in una danza cromatica che evoca gli stati liminali della coscienza, quei momenti in cui la realtà oggettiva si dissolve nel flusso della nostra esperienza soggettiva.
Questo approccio singolare al paesaggio trova un eco affascinante nelle teorie della percezione sviluppate da Maurice Merleau-Ponty nella sua “Fenomenologia della percezione”. Proprio come il filosofo francese suggeriva che la nostra esperienza del mondo è fondamentalmente incarnata e soggettiva, Hughes crea paesaggi che non cercano di rappresentare una realtà oggettiva, ma piuttosto di catturare l’essenza stessa della nostra esperienza percettiva. I suoi quadri non ci mostrano come il mondo appare a un osservatore distaccato, ma come viene vissuto dall’interno, nell’intimità della nostra coscienza.
Il modo in cui Hughes affronta il colore è particolarmente rivelatore di questo approccio fenomenologico. In “What Nerve” (2024), usa puntini blu vivaci che ornano i rami di un albero come tanti occhi che ci osservano. Questi tocchi di colore non sono semplicemente decorativi, ma trasformano l’albero in una presenza consapevole che ci guarda tanto quanto noi la guardiamo. Questa reciprocità dello sguardo, centrale nel pensiero di Merleau-Ponty, diventa qui un elemento strutturante della composizione.
L’artista lavora senza bozze preparatorie, lasciando che la pittura la guidi in un processo che ricorda la descrizione che Merleau-Ponty fa della percezione come un dialogo costante tra il soggetto percettivo e il mondo percepito. Ogni pennellata, ogni decisione cromatica emerge da un’interazione diretta con la materia pittorica, creando forme che sembrano nascere spontaneamente sulla tela, come i pensieri emergono nella nostra coscienza.
In “Obstacles” (2019), Hughes spinge questa esplorazione ancora più avanti. Le ombre degli alberi diventano presenze quasi tangibili che dialogano con la vegetazione circostante, creando un gioco complesso tra visibile e invisibile, tra ciò che è direttamente percepito e ciò che è suggerito. Quest’opera illustra perfettamente ciò che Merleau-Ponty chiamava “la carne del mondo”, quella trama comune che unisce il percettore e il percepito in un’unica stoffa sensibile.
La tecnica di Hughes è tanto sofisticata quanto profonda la sua visione. Usa una varietà di medium, mescolando oli, acrilici e vernici spray direttamente sulla tela. Questo approccio multimediale crea texture ed effetti che arricchiscono la complessità visiva delle sue opere. Colate, schizzi e tratti spontanei non sono semplici effetti stilistici, ma partecipano alla creazione di uno spazio pittorico che riflette la natura dinamica e fluida della nostra esperienza percettiva.
In “Hot Coals” (2024), il sole centrale che sembra arrostire la vegetazione circostante crea una tensione palpabile tra calore e distruzione, tra vitalità e minaccia. Questa dualità non è semplicemente tematica, è inscritta nella materia stessa della pittura, dove gli impasti spessi contrastano con le zone più fluide, creando una superficie che invita tanto il tatto quanto lo sguardo.
L’evoluzione recente del suo lavoro verso formati più verticali è particolarmente interessante. Questa orientazione non convenzionale per paesaggi tradizionali non è una semplice scelta formale, ma un modo per sconvolgere il nostro abituale rapporto con il paesaggio. Privilegiando la verticalità, Hughes ci costringe ad abbandonare la posizione di spettatori distaccati per impegnarci in una relazione più diretta e più incarnata con l’opera.
Il trattamento dei fiori nelle sue opere recenti rivela una nuova dimensione della sua ricerca. In “My Natural Nyctinasty” (2021), un fiore monumentale richiude i suoi petali in un gesto che evoca tanto la protezione quanto l’imprigionamento. Questa immagine potente ci ricorda che la nostra percezione del mondo naturale è sempre colorata dai nostri stessi stati emotivi e dalle nostre proiezioni psicologiche.
La sua tavolozza cromatica, che può sembrare intuitiva a prima vista, rivela una comprensione sofisticata della fenomenologia del colore. Le combinazioni che crea non sono arbitrarie, ma servono a evocare esperienze percettive specifiche. Un viola profondo può suggerire la profondità spaziale evocando allo stesso tempo uno stato emotivo, mentre un giallo elettrico può creare una sensazione di prossimità immediata.
In “Burn Out” (2024), Hughes esplora i limiti della nostra percezione del calore attraverso il colore. Su quasi tre metri di larghezza, crea una sinfonia di rossi e arancioni che non rappresenta semplicemente il calore, ma ce lo fa sentire in modo quasi fisico. Questa capacità di trasformare una sensazione termica in esperienza visiva illustra perfettamente la sinestesia naturale della nostra percezione, che Merleau-Ponty considerava fondamentale.
L’approccio di Hughes alla prospettiva è particolarmente rivelatore della sua comprensione della percezione spaziale. I suoi paesaggi presentano spesso più punti di vista simultanei, creando spazi impossibili che sfidano la nostra comprensione razionale. Questa moltiplicazione delle prospettive non è un semplice gioco formale, ma un’esplorazione della natura fondamentalmente ambigua della nostra esperienza spaziale.
In “Swelling” (2024), crea un’onda monumentale che sembra dispiegarsi in più dimensioni simultaneamente. Quest’opera non rappresenta semplicemente un’onda, cattura l’esperienza vissuta di trovarsi di fronte a una forza naturale schiacciante. La composizione ci fa sentire fisicamente il vertigine e l’instabilità, illustrando come la nostra percezione dello spazio sia inseparabile dalla nostra esperienza corporea.
L’importanza del vuoto nelle sue composizioni merita anch’essa di essere sottolineata. Gli spazi negativi nelle sue opere non sono mai davvero vuoti ma vibrano di un’energia potenziale. In “Trust and Love” (2024), lo spazio tra due alberi intrecciati diventa una presenza attiva che struttura tutta la composizione. Questo trattamento del vuoto richiama la concezione merleau-pontiana dell’invisibile come parte integrante del visibile.
Il modo in cui Hughes tratta i bordi e le cornici nelle sue opere è particolarmente significativo. Spesso crea cornici dipinte che incorniciano la scena principale, creando un mise en abyme che ci invita a mettere in discussione la natura stessa della percezione e della rappresentazione. Queste cornici funzionano come soglie percettive, punti di passaggio tra diversi livelli di realtà.
Il suo processo creativo, che inizia senza un piano prestabilito e si sviluppa in modo organico, riflette la natura stessa del nostro impegno percettivo con il mondo. Ogni tela diventa un viaggio di scoperta, un’esplorazione delle infinite possibilità della percezione che emerge progressivamente attraverso l’atto del dipingere.
In “I’m a Fan” (2024), gioca con la nostra percezione del movimento attraverso la rappresentazione di palme mosse dal vento. Le foglie che sembrano ondeggiare davanti ai nostri occhi non sono semplicemente rappresentate in movimento, ma creano una sensazione cinestetica che coinvolge tutto il nostro corpo. Questa capacità di trasformare un’esperienza visiva in una sensazione corporea è al centro della sua pratica.
I paesaggi di Hughes non sono semplicemente luoghi da contemplare, ma spazi di esperienza attiva dove lo spettatore è invitato a coinvolgere tutto il suo essere sensibile. In “Float Along” (2024), i bordi che incorniciano la composizione creano un effetto di portale che ci invita letteralmente a entrare nello spazio del quadro. Questo invito al viaggio percettivo è caratteristico del suo approccio che non si accontenta mai della semplice rappresentazione.
La sua recente serie “Tree Farm” (2024) spinge ancora più oltre questa esplorazione della percezione incarnata. Gli alberi che dipinge non sono semplici oggetti naturali, ma presenze vive che sembrano respirare sulla tela. In “Wits End” (2024), un piangente con rami tortuosi diventa una metafora del nostro stesso corpo sensibile, le sue ramificazioni evocano il nostro sistema nervoso.
Gli ultimi sviluppi del suo lavoro includono anche un’esplorazione della ceramica, dove trasporta la sua visione unica nella terza dimensione. Queste sculture, sebbene nuove nella sua pratica, prolungano naturalmente la sua ricerca sulla percezione incarnata, offrendo allo spettatore un’esperienza ancora più direttamente fisica delle sue forme organiche.
Shara Hughes è riuscita a creare un linguaggio visivo unico che trascende i limiti tradizionali del paesaggio per esplorare le fondamenta stesse della nostra esperienza percettiva. Le sue opere non si limitano a rappresentare il mondo, ma ci invitano a percepirlo di nuovo, con freschezza e intensità che trasformano la nostra comprensione di cosa può essere la pittura oggi. Il suo lavoro ci ricorda che la vera innovazione artistica non risiede nella novità superficiale, ma nella capacità di rinnovare il nostro sguardo sul mondo e su noi stessi.
















