Ascoltatemi bene, banda di snob : Sharon Lockhart non fa niente di delicato. Questa americana nata nel 1964, stabilitasi a Los Angeles, ha trascorso quasi tre decenni a costringerci a guardare ciò che preferiamo ignorare : operaie, bambini anonimi, adolescenti definite “inadaptées”. Armata di una telecamera fissa e di una pazienza che confina con l'ostinazione, impone una durata che mette a disagio i nostri cervelli abituati al continuo zapping. I suoi film si allungano, si ripetono, si rifiutano dello spettacolare. Eppure, qualcosa avviene. In questa lentezza programmata, in questi gesti ripetuti fino all'ipnosi, emerge una forma di resistenza contro l'accelerazione generale delle nostre vite.
Il lavoro di Lockhart si inscrive in una filiazione rivendicata con il cinema d'autore, particolarmente quello di François Truffaut e Jean Rouch. Quando filma Milena Słowińska, questa giovane polacca incontrata nei cortili fatiscenti di Łódź nel 2009, rievocando la scena finale de Quatre Cents Coups in Antoine/Milena (2015), non si limita a un omaggio nostalgico. Il volto di Milena davanti alla camera, questo sguardo che ci trapassa con un misto di sfida e vulnerabilità, riattiva la potenza sovversiva del film di Truffaut [1]. Là dove Antoine Doinel correva verso il mare per sfuggire alla reclusione della società francese degli anni cinquanta, Milena incarna l'inadeguatezza contemporanea, quella delle ragazze poste in istituti, etichettate come “difficili” o “ingestibili”.
Questo riferimento al cinema della Nouvelle Vague non è casuale. Truffaut aveva capito che filmare l'infanzia implicava rinunciare alle gerarchie stabilite, prendere sul serio i desideri e le rivolte dei più giovani. Lockhart spinge questa logica ancora più avanti. In Rudzienko (2016), girato al Centro di socioterapia per ragazze di Rudzienko in Polonia, organizza laboratori di filosofia, teatro e terapia del movimento con una quindicina di adolescenti. Il film risultante alterna piani fissi di paesaggi rurali e testi di conversazioni filosofiche. Le giovani ragazze parlano di Dio senza parlare di Dio, sarebbe contrario alle istruzioni, del libero arbitrio e degli errori che rivelano delle cose. Lockhart filma corpi in movimento nella natura, corse gioiose nell'oscurità, atti di libertà fugace. Come Truffaut, rifiuta la consueta condiscendenza verso i minorenni. Come Rouch nelle sue etnofiction, sfuma deliberatamente i confini tra documentario e messa in scena.
Jean Rouch, quel regista-antropologo francese che filmava in Africa con una camera partecipante, costituisce l’altra principale riferimento di Lockhart. Lei cita esplicitamente la sua influenza, in particolare il suo modo di far interpretare alle persone il proprio ruolo introducendo al contempo elementi coreografati. In Goshogaoka (1997), il suo primo lungometraggio, Lockhart filma per un’ora una squadra femminile di basket di una scuola superiore della periferia di Tokyo che esegue esercizi di allenamento elaborati. Ciò che sembra spontaneo è in realtà meticolosamente coreografato. La camera resta immobile, ma le giocatrici creano il movimento visivo. Questo approccio ibrido, tra osservazione etnografica e performance arrangiata, deve tutto a Rouch. Lockhart pratica ciò che si potrebbe chiamare un’etnofiction della vita ordinaria: si immerge nelle comunità, impara i loro codici, guadagna la loro fiducia, poi costruisce con loro immagini che dicono qualcosa della loro realtà pur essendo apertamente costruite.
Il parallelismo con Rouch va oltre. In Teatro Amazonas (1999), Lockhart filma per ventiquattro minuti un pubblico seduto nell’opera neoclassica di Manaus, in Brasile, che guarda direttamente la camera, e quindi noi, spettatori. Il coro amazzonico, fuori campo, interpreta una composizione originale di Becky Allen che parte da un accordo massiccio per spegnersi progressivamente. Man mano che la musica diminuisce, il rumore della sala aumenta. Questo rovesciamento dello sguardo, dove l’osservato diventa osservatore, richiama le sperimentazioni di Rouch con la “camera partecipante” e le questioni che poneva sull’etica della rappresentazione. Chi guarda chi? Chi detiene il potere nell’atto di filmare? Lockhart trasforma queste domande in un dispositivo formale.
L’altro territorio di esplorazione di Lockhart, quello che la lega intimamente al mondo della danza e del movimento, si incarna nella sua collaborazione postuma con Noa Eshkol, coreografa, teorica della danza e artista tessile israeliana scomparsa nel 2007. Lockhart scopre il lavoro di Eshkol poco dopo la sua morte, durante un viaggio di ricerca in Israele sponsorizzato dalla Federazione ebraica di Los Angeles. Questo incontro con l’opera di un’artista scomparsa darà luogo a una delle collaborazioni più singolari dell’arte contemporanea: un dialogo tra una regista americana e l’eredità di una coreografa israeliana, trasmesso dai danzatori del Noa Eshkol Chamber Dance Group [2].
Il sistema di annotazione del movimento Eshkol-Wachman, sviluppato da Eshkol con l’architetto Avraham Wachman negli anni Cinquanta, utilizza numeri e simboli per mappare le relazioni spaziali tra le parti del corpo. È un tentativo di creare un linguaggio universale del movimento, a metà strada tra geometria e coreografia. Lockhart filma i danzatori di Eshkol che eseguono meticolosamente queste composizioni in Five Dances and Nine Wall Carpets by Noa Eshkol e Four Exercises in Eshkol-Wachman Movement Notation (entrambi del 2011). L’installazione video, su cinque canali, presenta i danzatori a grandezza naturale al livello del suolo, muovendosi al ritmo di un metronomo risuonante, come se si mescolassero ai visitatori del museo. Questa messa in scena crea una coabitazione inquietante tra i vivi e i fantasmi di una pratica artistica minacciata di scomparsa.
Ciò che interessa Lockhart in Eshkol è l’incontro tra formalismo geometrico e profondo umanesimo. Eshkol era una purista che nelle sue danze cercava di “rinunciare all’uso di tutti gli strumenti che non sono intrinsecamente legati al movimento”, inclusi costumi, musica e illuminazione drammatica. I suoi arazzi murali, realizzati con ritagli di tessuti colorati recuperati, esistevano come opere separate, senza legame con le danze. Eppure, Lockhart sceglie di includere questi arazzi come elementi di scenografia nei suoi film, appuntati su blocchi verticali autoportanti, una scelta che Eshkol probabilmente non avrebbe approvato. Ecco tutto il paradosso di Lockhart: rispetta profondamente gli artisti che studia, ma non li feticizza. Si permette di reinterpretare il loro lavoro secondo la propria logica visiva.
L’ossessione di Lockhart per il sistema di notazione di Eshkol-Wachman rivela la sua più ampia fissazione per i sistemi di codifica del movimento umano. In Lunch Break (2008), riprende in un unico piano-sequenza rallentato un corridoio di armadietti dove degli operai di un cantiere navale del Maine pranzano. Il movimento della macchina da presa, di una lentezza ipnotica, allunga undici minuti di evento reale in ottantatré minuti di film. Ogni gesto, scartare un panino, leggere un giornale, parlare con un collega, acquista una dimensione coreografica. Le lunch box fotografate separatamente diventano ritratti per procura dei loro proprietari. Lockhart applica qui alla classe operaia americana la stessa meticolosa attenzione che Eshkol dedicava alla scomposizione geometrica del movimento. Crea una notazione visiva del lavoro e della pausa, documentando rituali che nessuno giudica degni di essere filmati.
Questa doppia filiazione, con il cinema d’autore impegnato e con la danza concettuale, permette a Lockhart di sviluppare un linguaggio formale unico. I suoi film non raccontano storie. Creano durate. Impongono un tempo di sguardo che è anche un tempo di pensiero. Quando riprende per ottantatré minuti operai che mangiano in silenzio, quando riprende per un’ora una squadra di basket giapponese che si allena, quando riprende per quaranta minuti adolescenti polacche che conversano sull’erba, ci costringe ad abbandonare le nostre aspettative narrative per entrare in un rapporto diverso con il tempo e con l’immagine.
Il progetto Little Review presentato al Padiglione polacco della Biennale di Venezia nel 2017 sintetizza tutte queste preoccupazioni. Lockhart rende omaggio a Janusz Korczak, pedagogo e attivista polacco per i diritti dell’infanzia che creò dal 1926 al 1939 un giornale interamente scritto e curato da bambini. Con le ragazze di Rudzienko, traduce per la prima volta in inglese numeri selezionati del Mały Przegląd, intesse un dialogo tra passato e presente, mostra corpi adolescenti in movimento, ripresi su sfondo nero in scenette che evocano sia il teatro sia la danza. I bastoni che le ragazze alzano negli ultimi minuti del film, raccolti nelle foreste californiane, diventano totem femministi, simboli di potere ritrovato [3].
Lockhart lavora lentamente, torna di continuo agli stessi luoghi, alle stesse persone. Ha filmato la comunità di Pine Flat in California per quattro anni, è tornata più di quindici volte in Polonia a trovare Milena e i suoi compagni, ha trascorso più di un anno con i lavoratori di Bath nel Maine. Questo metodo di immersione prolungata, ereditato dall’antropologia visiva, le permette di superare lo sguardo turistico per accedere a qualcosa che somiglia a un’intimità. Ma non è mai un’intimità confortevole. Le sue immagini mantengono sempre una distanza, un’inquadratura, una composizione che ricordano che si tratta di costruzione. “L’arte esiste per farci pensare e vedere diversamente”, afferma [4].
Il suo ultimo film, Windward (2025), girato sull’isola di Fogo a Terranova, torna all’infanzia ma in un registro quasi pastorale. Dodici quadri mostrano bambini che giocano in paesaggi naturali grandiosi. Niente telefoni, niente schermi, nessuna crisi climatica apparente, una visione quasi edenica che contrasta violentemente con il nostro presente. Alcuni vi vedranno una nostalgia. Altri, una provocazione: e se rallentare, osservare, concedere tempo ai bambini e alla natura fosse già un gesto politico?
Il lavoro di Lockhart non offre risposte facili. Non lusinga lo spettatore. Esige. Mette alla prova la nostra capacità di attenzione, la nostra tolleranza alla noia, il nostro desiderio di narrazione. Ma per chi accetta di sottoporsi alla sua temporalità particolare, qualcosa accade. I gesti si caricano di senso. I silenzi diventano eloquenti. I corpi ordinari acquisiscono una dignità monumentale. In un mondo saturato di immagini istantanee e usa e getta, Lockhart crea durate che resistono, presenze che perdurano. Ci ricorda, con un’ostinazione che può sembrare anacronistica, che guardare veramente richiede tempo. Che comprendere l’altro esige pazienza. Che la giustizia sociale comincia forse da questo semplice gesto: concedere attenzione alle vite che la nostra società preferisce non vedere.
La sua opera costituisce così una forma di resistenza silenziosa ma tenace contro l’economia dell’attenzione che regola la nostra epoca. Ogni piano fisso, ogni minuto supplementare, ogni rifiuto del montaggio rapido afferma il valore del tempo lungo, dell’osservazione sostenuta, della presenza mantenuta. Scegliendo di filmare comunità emarginate, bambini di villaggi remoti, operaie nei cantieri navali, adolescenti in difficoltà, ballerini che perpetuano una tradizione minacciata, Lockhart non scade mai nel miserabilismo né nell’esotismo. Offre loro ciò che la nostra società nega loro: tempo. Tempo per esistere sullo schermo, tempo perché i loro gesti si dispieghino, tempo affinché noi, spettatori, impariamo a vederli davvero. Forse è questo, in definitiva, il suo gesto più radicale: trasformare il tempo in un gesto di valorizzazione. Nei suoi film, nessuno è di fretta. Nulla è montato in nome dell’efficacia narrativa. La noia diventa metodo, la durata diventa politica, e la lentezza diventa atto di cura.
- François Truffaut, Les Quatre Cents Coups, film, 1959
- Mostra Sharon Lockhart | Noa Eshkol, co-commissariata dal Los Angeles County Museum of Art e dall’Israel Museum di Gerusalemme, 2011
- Sharon Lockhart, Little Review, installazione presentata al Padiglione polacco, 57ª Biennale di Venezia, 2017
- Sharon Lockhart, intervista su Frieze, giugno 2005
















