Ascoltatemi bene, banda di snob! Smettete i vostri chiacchiericci mondani sulle ultime tendenze concettuali e venite a contemplare l’opera di un vero architetto dei colori. Stanley Whitney, quell’artista che ha avuto l’audacia di credere nella pittura quando tutti la dichiaravano morta, viene a ricordarci con forza che l’astrazione non ha ancora smesso di sorprenderci.
Lo osservo da anni, quel pittore singolare che ha aspettato cinquant’anni per trovare la sua firma visiva. Cinquant’anni! Nella nostra epoca ossessionata dalla giovinezza e dal successo immediato, Whitney ci offre una lezione magistrale di pazienza e perseveranza. Ci è voluto tutto questo tempo perché arrivasse a quella griglia così caratteristica, quei rettangoli di colori impilati come le pietre di una cattedrale cromatica.
Non fatevi ingannare, il suo approccio non è una semplice ripetizione meccanica. Ogni tela è una lotta, un’esplorazione delle possibilità infinite offerte dal colore. Whitney lavora come un muratore del Rinascimento, posando i suoi blocchi di pigmenti uno a uno, da sinistra a destra, dall’alto verso il basso. Ma dove il muratore cerca la stabilità, Whitney coltiva il sottile squilibrio, il fremito, l’instabilità controllata che dà vita alle sue composizioni.
La sua pratica mi fa pensare a Edmund Husserl e alla sua fenomenologia. Come il filosofo tedesco che cercava di tornare “alle cose stesse”, Whitney va all’essenza del colore, spogliandolo da qualsiasi narrazione per conservare solo la sua presenza pura, il suo essere-lì. Ogni rettangolo di colore diventa un fenomeno in sé, una manifestazione diretta dell’esperienza visiva.
C’è qualcosa di profondamente democratico nel suo modo di organizzare lo spazio pittorico. Nessun colore domina realmente, ciascuno esiste in una relazione di uguaglianza con i suoi vicini. È un po’ come se Whitney avesse creato una società ideale in cui ogni individuo avesse il suo posto, senza gerarchie, senza oppressioni. Una sorta di utopia cromatica.
Il suo processo creativo è affascinante. Dipinge sempre ascoltando “Bitches Brew” di Miles Davis. Questa musica complessa, questa fusione di jazz-rock sperimentale, trova il suo eco nelle sue composizioni dove i colori si scontrano e dialogano come gli strumenti nell’album di Davis. La struttura c’è, ma rimane flessibile, organica, vivente.
Guarda attentamente “Dance the Orange” del 2013. Le arance vibranti si scontrano con i blu profondi, creando una tensione elettrica che attraversa tutta la tela. Le orizzontali che separano le file non sono mai perfettamente dritte, ondeggiano leggermente come se respirassero. Whitney non cerca la perfezione geometrica, preferisce l’imperfezione che fa vibrare la materia.
La fenomenologia husserliana ci insegna che la nostra percezione del mondo è sempre intenzionale, rivolta agli oggetti della nostra coscienza. I dipinti di Whitney funzionano esattamente così: dirigono il nostro sguardo, ma senza mai intrappolarlo. L’occhio si muove liberamente da un blocco di colore all’altro, scoprendo continuamente nuove relazioni, nuovi dialoghi cromatici.
Whitney non si è mai lasciato rinchiudere nelle aspettative del mondo dell’arte. Quando negli anni ’60 ci si aspettava che gli artisti neri producessero un’arte apertamente politica, lui scelse l’astrazione. Quando la pittura era dichiarata morta negli anni ’70, continuò a dipingere. Questa ostinazione non era testardaggine, ma la profonda convinzione che ci fossero ancora territori da esplorare in questo millenario mezzo espressivo.
Il suo lavoro è una meditazione sul tempo. Il tempo necessario per trovare la propria strada, il tempo indispensabile per addomesticare il colore, il tempo della contemplazione necessaria per vedere veramente le sue opere. Nel nostro tempo di istantaneità e consumo rapido dell’arte, Whitney ci invita a rallentare, a prenderci il tempo per guardare davvero.
Le influenze dell’architettura italiana sono evidenti nel suo lavoro, specialmente dal suo soggiorno a Roma negli anni ’90. I blocchi di colore impilati evocano le pietre del Colosseo, le facciate dei palazzi rinascimentali. Ma Whitney non fa citazioni letterali. Assorbe queste influenze e le trasforma in qualcosa di profondamente contemporaneo e personale.
C’è una dimensione quasi metafisica nel suo modo di trattare lo spazio. Come Husserl, che cercava di comprendere la struttura fondamentale della coscienza, Whitney esplora la struttura fondamentale del colore e dello spazio pittorico. Le sue tele non sono finestre su un mondo immaginario, ma oggetti che esistono pienamente nel nostro mondo, che modificano la nostra percezione dello spazio.
Whitney ama citare Mondrian come un’influenza principale, ma mentre il maestro olandese cercava una forma di trascendenza spirituale attraverso la geometria pura, Whitney rimane ben radicato nel mondo materiale. I suoi colori sono sensuali, fisici, quasi tattili. Si percepisce la mano che ha steso la pittura, le esitazioni, i ripensamenti, le decisioni.
Ciò che mi interessa in Whitney è che crea opere che sono allo stesso tempo rigorosamente strutturate e profondamente intuitive. Ogni tela è il risultato di un processo di decisioni consapevoli, su dove posizionare un blocco di colore, ma anche di una forma di improvvisazione jazz dove un colore chiama un altro in un flusso continuo di creatività.
La sua tavolozza è straordinariamente varia. Usa tanto colori primari brillanti quanto toni più sottili, grigi colorati, sfumature che sfidano la descrizione. Ogni colore è trattato con lo stesso rispetto, la stessa attenzione. Non c’è gerarchia nel suo universo cromatico, nessun colore nobile o volgare.
I titoli delle sue opere recenti rivelano una coscienza politica acuta. “Always Running from the Police, NYC 2020” o la sua serie “No to Prison Life” mostrano che l’astrazione può portare un messaggio senza diventare illustrativa o didattica. È una forma di resistenza silenziosa ma potente.
Whitney ci ricorda che la pittura non è morta, anzi non è mai stata così viva. In un mondo saturo di immagini digitali, le sue tele affermano la necessità di un’esperienza diretta, fisica, dell’arte. Richiedono la nostra presenza, la nostra attenzione, il nostro tempo. La fenomenologia ci insegna che la nostra percezione del mondo è sempre incarnata, radicata nel nostro corpo. Anche i dipinti di Whitney sono profondamente incarnati. Portano i segni del corpo che li ha creati, dei gesti che li hanno fatti nascere. Ci invitano a un’esperienza che non è solo visiva, ma pienamente sensoriale.
Il suo successo tardivo, è iniziato a essere davvero riconosciuto solo dopo i sessant’anni, è una lezione di umiltà per il mondo dell’arte. Ci ricorda che i veri artisti non lavorano per il successo ma per una necessità interiore, che la creazione autentica richiede tempo, pazienza, perseveranza.
Ecco un artista che è riuscito a restare fedele alla sua visione pur evolvendosi costantemente. Ogni nuova tela è un’esplorazione, un’avventura nel territorio infinito del colore. Whitney ci mostra che è possibile lavorare con vincoli rigorosi, la griglia, i rettangoli, mantenendo allo stesso tempo una libertà totale di invenzione.
Guardo le sue opere e penso a ciò che Husserl chiamava l’époché, questa sospensione del mondo per meglio coglierne l’essenza. Whitney mette tra parentesi tutto ciò che non è essenziale per la pittura per raggiungere qualcosa di fondamentale: la relazione pura tra colore e spazio.
Le sue tele sono spazi di libertà dove il colore può essere pienamente se stesso, senza dover rappresentare o simboleggiare altro. Forse è proprio questa, in definitiva, la grande lezione di Whitney: la libertà non deriva dall’assenza di vincoli, ma dal modo in cui si abitano questi vincoli, dal modo in cui li si fa propri.
Allora sì, banda di snob, guardate bene questi dipinti. Prendetevi il tempo di vederli davvero, di lasciarli agire su di voi. Whitney ci offre qualcosa di raro: un’arte che non cerca di impressionarci ma di farci vedere il mondo in modo diverso, di farci sentire la presenza pura del colore e dello spazio. Un’arte che ci ricorda che la bellezza non sta in ciò che vediamo ma nel modo in cui vediamo.
















