Ascoltatemi bene, banda di snob: Tan Ping non gioca nel cortile degli artisti convenzionali che masticano indefinitamente le stesse ricette. Quest’uomo, nato nel 1960 a Chengde, ha passato quasi quarant’anni a smontare metodicamente ogni certezza su ciò che la pittura può o deve essere. Mentre la maggior parte degli artisti contemporanei cinesi navigano ancora tra il folklore esportabile e l’occidentalizzazione di facciata, Tan Ping apre una via singolare, quella di un interrogativo radicale che attraversa le frontiere culturali senza mai compiacerle.
Formatosi presso l’Accademia Centrale di Belle Arti di Pechino e poi a Berlino dal 1989 al 1994, Tan Ping incarna questa generazione di passaggio che ha vissuto la trasformazione della Cina contemporanea assimilando i codici dell’arte occidentale. Ma contrariamente ai suoi contemporanei che spesso hanno scelto la loro parte, lui ha fatto di questa tensione permanente tra Oriente e Occidente il suo principale territorio creativo. Le sue opere non cercano di riconciliare questi mondi, esplorano piuttosto le zone di attrito dove nascono nuove possibilità espressive.
L’architettura della disintegrazione
L’opera di Tan Ping si articola attorno a un interrogativo centrale che attraversa tutti i suoi lavori dagli anni ’90: “Che cos’è la pittura?” Questa domanda apparentemente semplice nasconde in realtà un’impresa di decostruzione sistematica delle convenzioni pittoriche. I suoi primi lavori astratti, nati da un incidente nel suo atelier berlinese nel 1987, una lastra di rame dimenticata troppo a lungo nell’acido che aveva corroso la figura umana da lui incisa, hanno rivelato la bellezza dell’imprevisto e della materialità pura.
Questa rivelazione lo ha portato a sviluppare quella che diventerà la sua firma: la tecnica della copertura. Contrariamente agli artisti astratti tradizionali che costruiscono le loro composizioni, Tan Ping procede per sottrazione e sepoltura. Le sue tele diventano una sorta di testimonianze sepolte dove ogni strato di pittura seppellisce il precedente, creando profondità misteriose e temporalità multiple. L’artista qualifica questo approccio come “non avere uno scopo coincide con avere uno scopo”, mettendo l’accento sui comportamenti inconsci [1].
Questo metodo si avvicina all’architettura medievale dove le cattedrali si costruivano nell’arco di secoli, integrando gli stili di ogni epoca senza cercare omogeneità. Tan Ping edifica le sue tele secondo lo stesso principio di accumulo storico, ma al contrario: invece di aggiungere, ricopre, invece di rivelare, seppellisce. Ogni opera diventa così un monumento alla temporalità, un condensato di storia pittorica stratificata.
L’architettura gotica ci insegna che la bellezza nasce spesso dalla tensione tra forze opposte, la spinta e la resistenza, il peso e l’elevazione, l’ombra e la luce. Le opere di Tan Ping funzionano secondo questa stessa logica dialettica. Le sue grandi tele, talvolta di formato monumentale come “History” (2015, 300 x 400 cm), organizzano un conflitto permanente tra rivelazione e occultamento, presenza e assenza, costruzione e distruzione.
Questa tensione architettonica si manifesta particolarmente nei suoi dipinti in situ, sviluppati dal 2016. Queste opere che traboccano dalla tela per invadere le pareti dello spazio espositivo trasformano letteralmente l’architettura del luogo. La pittura nera che fuoriesce dalla tela per strisciare sulle superfici bianche della galleria crea un dialogo spaziale che ricorda gli interventi architettonici radicali degli anni 1960. Ma là dove questi ultimi cercavano spesso la rottura spettacolare, Tan Ping privilegia l’infiltrazione progressiva, la contaminazione dolce ma inesorabile dello spazio.
L’architettura moderna ha imparato a giocare con l’incompiuto, il frammento, la rovina programmata. Frank Gehry scompone i suoi volumi, Tadao Ando scolpisce vuoti, Zaha Hadid liquefa le forme. Tan Ping, lui, architetto della scomparsa, costruisce edifici pittorici destinati al loro stesso seppellimento. Le sue opere non si elevano verso la luce come le cattedrali, si immergono nell’oscurità fertile della materia, creando spazi di meditazione in cui lo sguardo deve imparare nuove geografie.
La serie “Overspread” (2013-2018) spinge questa logica al suo parossismo. Queste tele di grande formato, completamente nere in superficie, rivelano i loro segreti solo a un’osservazione prolungata. Sotto l’apparente uniformità si intravedono rilievi, variazioni testurali, profondità insospettate. Come nell’architettura di Peter Zumthor che rivela le sue sottigliezze nella durata dell’esperienza, le opere di Tan Ping richiedono un tempo di addomesticamento, un’educazione dello sguardo alla sfumatura.
Questa architettura del seppellimento trova il suo pendant teorico negli scritti di Marc Augé sui “non-luoghi” della modernità. Tan Ping creerebbe dei “non-dipinti”, spazi pittorici che sfuggono alle categorie abituali dell’arte? Le sue opere non rappresentano nulla, non narrano alcuna storia, non recano alcun messaggio esplicito. Esistono come monumenti all’esperienza pura, architetture della sensazione che si costruiscono nella relazione tra l’opera e lo spettatore.
La scrittura del tempo e lo spazio della memoria
Se l’architettura rivela la dimensione spaziale dell’opera di Tan Ping, è verso la letteratura che bisogna rivolgersi per comprendere la sua relazione con il tempo e la memoria. Le sue opere procedono infatti per accumulazione narrativa, ogni strato di pittura aggiunge un capitolo a un racconto continuamente riscritto. Questo metodo evoca immediatamente la scrittura di Claude Simon, premio Nobel per la letteratura nel 1985, che costruiva i suoi romanzi per stratificazioni mnemoniche successive.
In Simon, il passato non si racconta, si sovrappone al presente in un flusso di coscienza dove le temporalità si intrecciano. Le sue frasi-fiume, le sue ripetizioni ossessive, le sue correzioni permanenti del racconto in corso creano una prosa architettonica paragonabile alle stratificazioni pittoriche di Tan Ping. Quando Simon scrive: “Ricordo che nevicava, no: pioveva, no: nevicava e pioveva insieme”, pratica letterariamente ciò che Tan Ping fa pittoricamente con le sue sovrapposizioni successive.
La tecnica della sovrapposizione sviluppata dall’artista cinese è affine a questa scrittura della correzione perpetua. Ogni nuovo strato di pittura modifica, sfuma, a volte contraddice il precedente, senza però cancellarlo completamente. Restano tracce, affiorano, creano fantasmi visivi che arricchiscono la lettura dell’opera. Come in Simon, niente è mai definitivo, tutto può essere messo in discussione, rielaborato, ricoperto.
Questo approccio trova la sua giustificazione teorica nelle ricerche condotte dall’artista dal 2004, anno in cui il cancro del padre lo ha confrontato con la fragilità dell’esistenza. Le cellule cancerose, oggetti prima di terrore poi di fascinazione, hanno alimentato tutta una serie di opere in cui la proliferazione cellulare diventa metafora della creazione artistica. Queste “cellule” pittoriche si moltiplicano, si trasformano, invadono lo spazio della tela secondo una logica al tempo stesso organica e distruttiva.
Simon sviluppava una concezione simile della letteratura come organismo vivente, capace di mutazioni imprevedibili. I suoi romanzi tardivi, in particolare “L’Acacia” (1989), esplorano questa dimensione auto-generativa della scrittura dove il testo sembra crescere da sé, seguendo la sua logica interna piuttosto che le intenzioni dell’autore. Tan Ping, allo stesso modo, lascia che i suoi dipinti evolvano secondo la loro dinamica propria, accettando gli incidenti, i pentimenti, le trasformazioni inattese.
Questa filosofia dell’opera aperta si manifesta in modo spettacolare nella sua serie “Drawing” (2015), in cui l’artista esplora i limiti minimi dell’atto pittorico. Questi disegni a carbone, realizzati in meno di due minuti ciascuno, catturano momenti di pura spontaneità creativa. Richiamano gli “Instantanés” di Claude Simon, quei brevi testi che afferrano l’effimero nella sua verità fugace. Come lo scrittore francese, Tan Ping comprende che l’arte contemporanea deve imparare a cogliere l’istante pur inscrivendosi nella durata.
La dimensione temporale del suo lavoro si dispiega pienamente nelle sue performance di pittura in situ. Queste creazioni pubbliche, documentate da video, rivelano il processo creativo nella sua dimensione eventiuale. L’artista dipinge davanti al pubblico, trasformando l’atto privato di creazione in spettacolo collettivo. Questa teatralizzazione richiama le sperimentazioni del Nouveau Roman con le forme ibride tra letteratura e spettacolo dal vivo.
I video che documentano queste performance costituiscono essi stessi opere autonome. Essi rivelano la gestualità dell’artista, il ritmo della sua creazione, le esitazioni e le determinazioni che punteggiano l’atto creativo. Questi documenti visivi funzionano come le bozze dello scrittore care alla critica genetica: svelano i processi abitualmente nascosti della creazione.
L’opera video “CHI CHU” (2014-2015) spinge questa riflessione al suo termine. Questa serie di disegni a carbone, tutti realizzati in meno di due minuti, esplora i limiti della spontaneità creativa. Il titolo stesso evoca le onomatopee cinesi, suggerendo un ritorno alle fonti primitive del linguaggio. Come Simon esplorava le stratificazioni geologiche della memoria familiare, Tan Ping scava gli strati archeologici dell’atto creativo per ritrovare la sua essenza originaria.
Questa archeologia della creazione si collega alle preoccupazioni contemporanee sulla memoria collettiva e individuale. Nell’epoca in cui le tecnologie digitali trasformano il nostro rapporto col tempo e con la storia, l’opera di Tan Ping propone una resistenza poetica. I suoi dipinti, per la loro materialità affermata e la loro lentezza di elaborazione, costituiscono isolotti di temporalità alternativa in un mondo di immediatezza.
Claude Simon scriveva che “il passato esiste solo nel presente dove sorge”. Le opere di Tan Ping incarnano questa filosofia temporale: rendono visibile la storia della loro stessa elaborazione, trasformano il processo creativo in soggetto artistico, fanno del tempo della creazione il vero contenuto dell’opera. In ciò, si inseriscono nella grande tradizione modernista che, da Proust a Simon, ha fatto del tempo l’oggetto centrale della creazione artistica contemporanea.
L’economia della sparizione
Oltre alla sua dimensione estetica, l’opera di Tan Ping interroga fondamentalmente la nostra epoca e le sue mutazioni economiche e sociali. Le sue opere di ricoprimento propongono un’economia paradossale dove il valore nasce dalla distruzione, dove l’accumulazione avviene per sottrazione. Questa logica controintuitiva risuona potentemente con le trasformazioni del capitalismo contemporaneo e i suoi cicli di creazione-distruzione.
Quando Tan Ping ricopre metodicamente le sue tele con strati successivi di vernice nera, pratica una forma di spreco produttivo che evoca gli eccessi consumistici delle nostre società. Ma contrariamente alla logica mercantile che produce per vendere e buttare, le sue opere trasformano questo spreco in bellezza, questa distruzione in creazione. Le sue tele diventano monumenti all’anti-produttività, spazi dove l’efficienza economica cede il posto alla gratuità poetica.
Questa economia della scomparsa trova la sua legittimità nel contesto cinese contemporaneo. Tan Ping ha vissuto le trasformazioni spettacolari del suo paese dagli anni 1980, questa folle corsa verso la modernizzazione che ha visto scomparire interi settori della cultura tradizionale. Le sue opere portano la traccia di queste mutazioni: seppelliscono il passato senza cancellarlo, preservano la memoria nell’atto stesso che sembra distruggerla.
La serie “+40m” (2012), questa linea unica incisa nel legno per quaranta metri di lunghezza, costituisce l’epilogo di questa riflessione. Quest’opera, esposta al Museo nazionale d’arte della Cina, proponeva un’economia minimale dell’arte: un solo gesto, ripetuto per sei ore, per produrre l’essenziale. In una società di sovrapproduzione artistica, Tan Ping ritrova i gesti primitivi della creazione, la lentezza arcaica del lavoro artigianale.
Questa economia della scarsità contrasta radicalmente con l’inflazione artistica contemporanea. Quando il mercato dell’arte privilegia la novità perpetua e la moltiplicazione delle opere, Tan Ping propone la pazienza e la ripetizione. Le sue opere non cercano di sedurre l’occhio consumatore, chiedono tempo, attenzione, un investimento personale dello spettatore.
Le sue pitture in situ radicalizzano questa economia alternativa. Queste opere effimere, destinate a scomparire alla fine dell’esposizione, sfuggono completamente alla logica mercantile. Non possono essere vendute, collezionate, capitalizzate. Esistono nel puro presente della loro esposizione, proponendo un’economia dell’esperienza piuttosto che del possesso.
Questa filosofia dell’effimero si riallaccia alle preoccupazioni ecologiche contemporanee sulla sostenibilità dei nostri stili di vita. Di fronte alla crisi ambientale, l’arte di Tan Ping propone un modello alternativo: meno oggetti, più esperienza; meno produzione, più trasformazione; meno consumo, più contemplazione.
Le sue ultime opere, create durante la pandemia del 2020, approfondiscono questa riflessione. La mostra “2020” al centro d’arte Artron di Shenzhen trasformava lo spazio architettonico in opera totale, dove l’artista creava in situ per tre giorni consecutivi. Questa performance maratona proponeva un’economia del dono totale, dove l’artista offriva il suo tempo e la sua energia senza controparte mercantile.
Le opere di Tan Ping interrogano anche il nostro rapporto con il lavoro e la produttività. Le sue lunghe sessioni di ricoprimento, dove dipinge e ridipinge instancabilmente le stesse superfici, evocano tanto le meditazioni buddhiste quanto i gesti ripetitivi dell’operaio industriale. Questa ambivalenza rivela la complessità del lavoro artistico contemporaneo, a un tempo liberazione creativa e alienazione produttiva.
Trasformando la distruzione in creazione, lo spreco in bellezza, l’inefficienza in poesia, Tan Ping propone una critica in azione del produttivismo contemporaneo. Le sue opere non denunciano, incarnano un’alternativa. Mostrano che un altro rapporto con il tempo, lo spazio, la materia è possibile. In un mondo ossessionato dall’ottimizzazione e dalla redditività, esse ristabiliscono la dignità della lentezza e della gratuità.
Questa economia paradossale trova il suo compimento nella filosofia zen che irrora tutto il suo lavoro. Lo zen insegna che la vera ricchezza nasce dal disvestimento, che la pienezza emerge dal vuoto, che la bellezza nasce dalla cancellazione. Le opere di Tan Ping incarnano questa saggezza millenaria aggiornandola nel contesto dell’arte contemporanea. Propongono una via cinese verso la modernità artistica, che non copia né rifiuta l’Occidente, ma inventa la propria sintesi [1].
Questa sintesi culturale costituisce forse il contributo più prezioso di Tan Ping all’arte contemporanea mondiale. Al tempo in cui la globalizzazione uniforma le pratiche artistiche, egli mostra che un’autentica contemporaneità può nascere dall’approfondimento delle tradizioni locali. Le sue opere non sono né cinesi né occidentali in senso esclusivo, sono decisamente contemporanee nella loro capacità di sintetizzare i molteplici patrimoni della nostra epoca globalizzata.
In questa prospettiva, l’economia della scomparsa sviluppata da Tan Ping non costituisce solo una strategia artistica, ma una proposta civilizzazionale. Di fronte alle sfide ecologiche e sociali del nostro tempo, suggerisce vie alternative fondate sulla sobrietà, la contemplazione e il rispetto delle temporalità naturali. In questo, l’arte di Tan Ping supera ampiamente i confini del mondo artistico per interrogare la nostra epoca nelle sue stesse fondamenta.
L’arte della presenza perpetua
Ciò che colpisce nelle ultime opere di Tan Ping è la loro capacità di creare spazi di presenza assoluta. Le sue grandi tele nere, le sue installazioni luminose, le sue performance in situ generano ambienti in cui il tempo sembra sospeso, dove l’attenzione si concentra sul momento presente con un’intensità rara. Questa qualità di presenza costituisce forse il suo contributo più singolare all’arte contemporanea.
A differenza delle opere che cercano di impressionare o sorprendere, quelle di Tan Ping invitano alla contemplazione prolungata. Esse si svelano solo all’osservazione paziente, rivelando progressivamente le loro sottigliezze cromatiche e testurali. Questa lentezza imposta allo spettatore costituisce un atto di resistenza nella nostra epoca dell’immediatezza e della distrazione permanente.
I suoi dipinti in situ spingono questa logica di presenza al suo parossismo. Queste opere che traboccano dal quadro tradizionale per invadere lo spazio architettonico creano ambienti totali in cui lo spettatore è letteralmente immerso nell’arte. Il confine tra l’opera e il suo contesto si sfuma, generando un’esperienza sensoriale globale che coinvolge il corpo tanto quanto lo spirito.
Questa ricerca della presenza totale affonda le radici nella tradizione zen che alimenta profondamente il suo lavoro. L’artista è profondamente influenzato dalla cultura zen tradizionale cinese e dal minimalismo occidentale [2]. Ma ben lungi dal pasticheare le forme tradizionali, Tan Ping inventa uno zen contemporaneo, adattato alle condizioni dell’arte moderna e alle sfide della nostra epoca.
Le sue opere recenti esplorano in particolare questa dimensione meditativa dell’arte. Le tele della serie “Internal Circulation” (2022) propongono superfici quasi monocromatiche dove le variazioni più infinitesimali assumono un’importanza considerevole. Queste opere richiedono uno sguardo educato, capace di percepire le sfumature nell’uniformità apparente. Educano l’occhio alla sottigliezza, formano l’attenzione alla pazienza.
Questa estetica della sfumatura si collega alle preoccupazioni dell’arte minimalista occidentale, ma se ne distingue per la sua esplicita dimensione spirituale. Quando un Donald Judd o un Dan Flavin cercavano la purezza formale, Tan Ping mira alla trasformazione interiore dello spettatore. Le sue opere non sono solo oggetti da contemplare, ma supporti di meditazione, strumenti di trasformazione della coscienza.
Questa ambizione spirituale assume pienamente la sua dimensione politica. In una società cinese in rapida mutazione, dove i punti di riferimento tradizionali scompaiono sotto la pressione della modernizzazione, le opere di Tan Ping offrono spazi di ristoro e stabilità. Propongono una modernità alternativa, non fondata sulla velocità e la novità, ma sull’approfondimento e la permanenza.
La mostra “2020” al centro Artron di Shenzhen illustrava perfettamente questa dimensione politica della sua arte. Tan Ping scrive nella prefazione: “Nel 2020, l’arrivo improvviso dell’epidemia di coronavirus ha fatto sentire a ciascuno di noi l’avvicinarsi della morte. Nei momenti più oscuri, l’arte è diventata la luce che è premuta di fronte alla morte” [3]. Questa creazione in situ, realizzata per tre giorni consecutivi di fronte al pubblico, trasformava l’atto artistico in un rito collettivo di resistenza all’angoscia contemporanea.
Questa dimensione rituale della sua arte merita di essere sottolineata. Le sue lunghe sessioni di sovrapposizione, le sue performance pubbliche, le sue creazioni collettive restaurano una dimensione cerimoniale spesso assente nell’arte contemporanea. Propongono momenti di comunione estetica dove l’arte ritrova la sua funzione antropologica primaria: riunire la comunità intorno a esperienze condivise di bellezza e trascendenza. Questa ambizione trasformativa trova un eco particolare nella diversità delle sue esposizioni internazionali, da Shanghai fino al museo Rothko in Lettonia [4].
L’arte di Tan Ping si inserisce così in una lunga tradizione di resistenza spirituale alla modernità disincantata. Come i romantici di fronte all’industrializzazione nascente, come le avanguardie storiche di fronte alla razionalizzazione borghese, propone spazi di esperienza alternativa dove l’arte ritrova la sua dimensione trasformativa.
Questa ambizione si manifesta particolarmente nelle sue collaborazioni con altri artisti e istituzioni. Il suo dialogo con l’artista svizzero Luciano Castelli al museo Helmhaus di Zurigo nel 2016 ha dato vita a opere ibride dove le tradizioni artistiche orientali e occidentali si fecondano reciprocamente. Questi incontri interculturali mostrano la via verso un’arte veramente contemporanea, capace di sintetizzare le molteplici eredità della nostra epoca globalizzata.
L’evoluzione recente del suo lavoro verso forme sempre più dematerializzate testimonia questa ricerca di universalità. Le sue installazioni luminose, le sue performance efimere, le sue creazioni video sfuggono alle categorie tradizionali dell’arte per proporre esperienze pure, momenti di grazia estetica che parlano a tutti al di là delle differenze culturali.
Questa dimensione universale della sua arte non significa affatto l’abbandono delle sue radici cinesi. Al contrario, Tan Ping dimostra che l’autenticità culturale può essere un trampolino verso l’universalità, che l’approfondimento delle tradizioni locali può generare proposte artistiche che parlano a tutta l’umanità. In questo, la sua opera traccia una via preziosa per l’arte contemporanea, troppo spesso divisa tra il ripiegamento identitario e l’uniformazione globale.
Questa sintesi riuscita tra tradizione e modernità, locale e universale, spiritualità e contemporaneità fa di Tan Ping una delle figure più importanti dell’arte contemporanea internazionale. La sua opera mostra che un’altra modernità è possibile, fondata non sulla rottura e sul tavolo rasa, ma sulla trasformazione e la sintesi creativa. Essa apre vie future per un’arte capace di riconciliare l’uomo con le sue tradizioni perdute accompagnandolo allo stesso tempo nelle sfide del suo tempo.
Di fronte alle molteplici crisi che attraversano il nostro tempo, ecologica, sociale e spirituale, l’arte di Tan Ping propone risorse preziose. Le sue opere non pretendono di risolvere queste crisi, ma offrono spazi di riflessione e di rinnovamento, momenti di bellezza e grazia che ridanno senso e speranza. In questo, esse compiono la missione più alta dell’arte: rivelare all’umanità la propria grandezza e darle le forze necessarie per continuare il suo cammino.
- Artlyst, “Tan Ping: Art On The Edge Rothko Museum Latvia”, 9 Giugno 2024
- Galleria Wei, biografia di Tan Ping, consultata ad agosto 2025
- Sito ufficiale di Tan Ping, biografia 1960, tanpingstudio.com (visitato ad agosto 2025)
- Yuz Museum Shanghai, “Duet: A Tan Ping Retrospective”, dal 15 giugno 2019 al 22 settembre 2019
















