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Thomas Schütte: Il disagio monumentale

Pubblicato il: 2 Marzo 2025

Di: Hervé Lancelin

Categoria: Critica d’arte

Tempo di lettura: 10 minuti

Thomas Schütte modella antieroi, personaggi sconfitti con corpi deformi e proporzioni strane, che resistono a ogni estetica convenzionale. Le sue sculture conservano una strana dignità nella loro deformità, come se la loro resistenza fosse una forma di coraggio morale.

Ascoltatemi bene, banda di snob. Thomas Schütte non è l’artista che credete di conoscere. Questo tedesco di Düsseldorf, nato nel 1954, ha costruito un’opera che vi sfugge continuamente, proprio nel momento in cui pensate di averla afferrata. È un camaleonte deliberato, un provocatore silenzioso che si nasconde dietro le sue sculture monumentali mentre si prende gioco delle convenzioni che amate tanto.

Per cominciare, smettiamo di fare la solita masturbazione intellettuale. Schütte è allievo di Gerhard Richter, sì, proprio QUESTO Richter, ma a differenza del suo maestro che si è rinchiuso nella sua torre d’avorio concettuale, il nostro uomo si diverte a giocare con le forme, i materiali, le scale, come un bambino terribile… no, scusate, come un bambino BRILLANTE che avrebbe scoperto un modo per trasformare la sua scatola di Play-Doh in un commento tagliente sulla nostra epoca.

La sua serie “United Enemies” esprime tutto ciò che adoro nel suo lavoro. Piccole figure patetiche dai volti deformati, legate insieme sotto campane di vetro come campioni di laboratorio. Questi burocrati impotenti, questi politici in fine carriera, queste coppie male assortite ma condannate a coesistere vi ricordano qualcosa? Certo! Siamo noi! È la nostra società disfunzionale! È il matrimonio di convenienza tra Est e Ovest dopo la caduta del Muro, è la vostra stessa vita interiore divisa! Schütte non ha bisogno di dircelo, ce lo mostra, e la metafora è tanto più potente quanto mai esplicitata.

Fermiamoci un attimo sul rapporto di Schütte con la filosofia esistenzialista, in particolare quella di Jean-Paul Sartre. L’opera di Schütte è intrisa di ansia esistenziale, ma a differenza dell’astrazione lirica che seguì la Seconda Guerra Mondiale, egli confronta questa angoscia con un umorismo nero caustico. “L’inferno sono gli altri”, scriveva Sartre in Huis clos [1]. E cosa fa Schütte? Literalizza questa frase legando due figure l’una all’altra, come prigionieri condannati all’ergastolo. I suoi “United Enemies” sono l’incarnazione stessa del concetto sartriano dello sguardo oggettivante, dove la presenza dell’altro ci trasforma in oggetto, ci congela in un’essenza che non abbiamo scelto.

Questo sguardo che ci trasforma in cosa, Schütte lo rivolge contro noi stessi nei suoi busti monumentali e nelle teste in ceramica. Teste grottesche, volti deformati che ci fissano con il loro sguardo vuoto, ricordando stranamente le teste espressive di Franz Xaver Messerschmidt, quello scultore austriaco che catalogava le espressioni umane nel XVIII secolo. Il riferimento non è casuale: come Messerschmidt che cercava di catturare “lo spirito del tempo” attraverso le sue “teste di carattere”, Schütte ci offre un ritratto psicologico del nostro tempo [2]. I suoi “Ceramic Sketches” sono come studi psicoanalitici modellati nell’argilla, dove ogni deformazione facciale traduce una nevrosi contemporanea.

Ma la filosofia è solo uno dei prismi per approcciare questa opera poliforme. Passiamo ora al teatro, perché sì, Schütte è fondamentalmente un uomo di teatro che non ha mai messo piede su un palcoscenico.

L’opera di Schütte è profondamente teatrale, ma un teatro che deve più a Samuel Beckett che a Shakespeare. Le sue figure sono attori tragici immobilizzati in posizioni scomode, come in attesa di un Godot che non arriverà mai. Prendete “Mann im Matsch” (Uomo nel fango), questa figura patetica incagliata fino alle ginocchia in un basamento fangoso. Non è forse Estragone o Vladimir, condannati all’immobilità ma a mantenere una postura degna? O Winnie in “Oh i bei giorni”, sepolta fino alla vita poi fino al collo, ma che continua il suo monologo come se nulla fosse? Come scrive Martin Esslin nella sua definizione del teatro dell’assurdo, “questo teatro esprime la sensazione che le certezze e i presupposti fondamentali dell’epoca precedente siano stati spazzati via, che hanno perso la loro validità.” [3]

L’approccio di Schütte è perfettamente beckettiano: “Provare ancora. Sbagliare ancora. Sbagliare meglio.” [4] Ci presenta il fallimento come condizione umana fondamentale, ma un fallimento che conserva una strana dignità. I suoi personaggi non sono mai semplicemente patetici; conservano una sorta di nobiltà nella loro deformità, come se la loro resistenza all’estetica convenzionale fosse una forma di coraggio morale.

I modellini architettonici di Schütte ricordano le scenografie minimaliste di Beckett: spazi ridotti all’essenziale, distopici, in cui i personaggi sono intrappolati. Il suo “Model for a Museum” somiglia più a un crematorio che a un luogo di cultura. Il suo “Schutzraum” (Rifugio) è uno spazio protettivo che non protegge nulla. Come in “Fine partita”, l’architettura diventa una metafora della nostra condizione: siamo rinchiusi in strutture che noi stessi abbiamo creato, ma che non ci offrono alcun conforto.

Questa teatralità è rafforzata dal suo modo di giocare con le scale. Producendo modellini architettonici che non saranno mai costruiti (o che lo saranno, ma solo come sculture), trasforma lo spettatore in Gulliver, ora gigante che domina un mondo in miniatura, ora lillipuziano schiacciato da figure monumentali. È un gioco di potere costante, dove l’osservatore è continuamente destabilizzato, come lo spettatore di un’opera di Pirandello che non sa più se è dentro o fuori dalla finzione.

Ciò che mi piace di Schütte è il suo ostinato rifiuto dell’eroismo. Contrariamente a tanti altri scultori tedeschi come Josef Thorak o Arno Breker che hanno servito l’ideologia nazista creando figure idealizzate, muscolose, trionfanti, Schütte crea anti-eroi, personaggi sconfitti, esitanti. La sua versione di “Vater Staat” (Padre Stato) non è un colosso imponente ma una figura avvolta in un mantello troppo grande, senza braccia, come un fantasma del potere piuttosto che la sua manifestazione.

Questa sovversione dei monumenti pubblici è uno degli aspetti più politici del suo lavoro. In Germania, paese dove i monumenti hanno giocato un ruolo così controverso nella costruzione dell’identità nazionale, produrre anti-monumenti è un atto profondamente sovversivo. Schütte non si limita a criticare l’estetica della monumentalità; reinventa ciò che può essere un monumento nell’era post-ideologica.

Se confrontiamo Schütte con un altro grande scultore contemporaneo, Anish Kapoor, la differenza è evidente. Kapoor crea oggetti seducenti, sensuali, che aspirano a una sorta di trascendenza mistica. Schütte, al contrario, ci riporta costantemente verso il basso, verso il terreno, verso il fango. Non c’è elevazione, non c’è sublimazione, solo un confronto brutale con la nostra condizione terrena.

Le “Frauen” (Donne) di Schütte, queste sculture monumentali in bronzo e acciaio che rappresentano nudi femminili, sono particolarmente impressionanti. Contrariamente alle odalische tradizionali, queste donne non sono lì per il nostro piacere visivo. I loro corpi deformati, le loro proporzioni strane, le loro posture scomode resistono a qualsiasi erotizzazione. Evocano le donne di Willem de Kooning, se non fosse che da Schütte, la violenza non è nel gesto pittorico ma nella torsione stessa della forma.

Ecco dove risiede il genio contorto di Schütte: utilizza i materiali nobili della scultura classica, bronzo, acciaio, ceramica, ma per creare forme che sfidano la tradizione che rappresentano. Come se Prassitele avesse improvvisamente deciso di scolpire esseri deformi piuttosto che dei olimpici.

E poi c’è questa ossessione per le figure binarie: “United Enemies”, “Mann und Frau”, sempre coppie mal assortite, duetti improbabili. Non è forse una metafora della nostra stessa dualità interiore? Di questa divisione fondamentale tra ciò che siamo e ciò che pretendiamo di essere? Tra i nostri impulsi e i nostri principi morali? Freud avrebbe adorato queste sculture che materializzano così perfettamente il conflitto tra l’Es e il Super-Io, lasciando il povero Io a dibattersi in mezzo.

Passiamo ad altro: il suo rapporto con la materia. Adoro il modo in cui Schütte manipola i suoi materiali. C’è qualcosa di quasi tattile, di sensuale nel suo modo di lavorare l’argilla, il legno, il metallo. Le sue impronte digitali rimangono visibili nelle sue piccole maquette di plastilina, come per ricordarci che dietro queste opere monumentali c’è sempre la mano di un uomo, fallibile, imperfetta. È un artigianato di alto livello che non cerca mai di nascondere le proprie debolezze.

Contrariamente a Jeff Koons che produce oggetti di una perfezione industriale asettica, Schütte lascia apparire il processo, la lotta con la materia. Le sue sculture conservano la traccia della loro fabbricazione, come i pentimenti in un dipinto di Rembrandt. Ci mostrano che la creazione è una battaglia, non una produzione in serie.

Ciò che mi colpisce anche di Schütte è che è profondamente tedesco pur sfuggendo agli stereotipi dell'”arte tedesca”. Non ha la pesantezza espressionista di un Baselitz, né l’austerità concettuale di un Kiefer. Crea piuttosto un linguaggio visivo che dialoga con la storia dell’arte tedesca pur sovvertendola costantemente.

La sua serie “Krieger” (Guerrieri) è l’esempio perfetto. Queste figure militari, con volti grossolanamente modellati, coiffati con tappi di bottiglia come elmi a punta, prendono in giro tutta la tradizione militarista prussiana. Ricordano le sculture espressioniste di Ernst Barlach, ma svuotate del loro pathos, ridotte a caricature quasi comiche. Schütte smantella l’eroismo militare senza cadere nel discorso moralista. Mostra semplicemente l’assurdità e il ridicolo dove altri vedrebbero soltanto grandezza e tragedia.

C’è qualcosa di profondamente liberatorio in questo approccio. In un paese dove il peso della storia è così opprimente, Schütte trova un modo di affrontarla che non è né nella negazione né nell’auto-flagellazione. Crea una distanza critica che permette di vedere la storia tedesca con lucidità ma senza lasciarsi paralizzare da essa.

Forse è per questo che il suo lavoro risuona così fortemente oggi, in un’epoca in cui tante nazioni sono costrette a riesaminare il proprio passato. Schütte ci mostra che è possibile confrontarsi con la storia senza affogare in essa, creare un’arte che riconosce i traumi del passato guardando però al futuro.

Penso alla sua scultura “Großer Respekt” (Grande Rispetto), dove minuscole figure umane venerano una statua posta su un basamento esageratamente elevato. È una magistrale satira del nostro rapporto con i monumenti, del nostro bisogno di eroi e figure di autorità. Schütte ci fa prendere coscienza della nostra stessa piccolezza di fronte alle costruzioni simboliche che abbiamo eretto noi stessi.

Ciò che mi piace di più in Schütte è il suo rifiuto di dirci cosa pensare. Contrariamente a tanti artisti contemporanei che evidenziano il loro messaggio politico con un evidenziatore fluorescente, lascia che le sue opere irradino ambiguità. Sono aperte all’interpretazione, resistono a qualsiasi lettura univoca. Come scriveva il filosofo Theodor Adorno, “L’arte non consiste nel mettere in evidenza delle alternative, ma nel resistere, attraverso la forma e nient’altro, contro il corso del mondo che continua a minacciare gli uomini come una pistola premuta contro il loro petto.” [5]

Ciò non significa che Schütte sia apolitico, ben lontano da ciò. Tutta la sua opera è attraversata da una riflessione sul potere, l’autorità, la memoria collettiva. Ma comprende che l’arte più potente da un punto di vista politico è spesso quella che non si presenta come tale, quella che trasforma la nostra percezione piuttosto che assestare un messaggio.

In fondo, ciò che Schütte ci offre è una forma di resistenza. Resistenza alla standardizzazione, all’omogeneizzazione, alla semplificazione. In un mondo che valorizza la perfezione, l’efficienza, la funzionalità, crea oggetti deliberatamente imperfetti, inefficienti, disfunzionali. Ed è proprio questa resistenza che rende la sua arte una forza liberatrice.

Allora sì, alcuni di voi mi diranno che Schütte è diventato parte integrante del sistema che critica. Che le sue opere si vendono a prezzi d’oro da Christie’s, che è collezionato da tutti i grandi musei, che è diventato un valore sicuro nel mercato dell’arte. È vero. Ma il suo lavoro mantiene nonostante tutto una strana radicalità, una capacità di disorientarci, di farci vedere il mondo in modo diverso.

E forse questo è, in definitiva, il test ultimo per un grande artista: non la capacità di scandalizzare o piacere, ma la capacità di trasformare in modo duraturo la nostra percezione. Schütte supera questo test a mani basse. Dopo aver visto le sue opere, non guarderete mai più un monumento pubblico, una figura di autorità o anche il vostro stesso riflesso nello specchio allo stesso modo.

Quindi la prossima volta che vi troverete davanti a una scultura di Thomas Schütte, prendetevi il tempo di fermarvi davvero. Lasciatevi destabilizzare. Accettate di sentirvi a disagio. Perché è proprio in questo disagio che risiede la potenza della sua arte.


  1. Sartre, Jean-Paul. Guerra aperta, Gallimard, 1947.
  2. Belting, Hans. Faccia e Maschera: una doppia storia, Princeton University Press, 2017.
  3. Esslin, Martin. Il teatro dell’assurdo, Vintage Books, 1961.
  4. Beckett, Samuel. Procedendo verso il peggio, Les Éditions de Minuit, 1991.
  5. Adorno, Theodor W. Appunti sulla letteratura, Flammarion, 1984.
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Riferimento/i

Thomas SCHÜTTE (1954)
Nome: Thomas
Cognome: SCHÜTTE
Genere: Maschio
Nazionalità:

  • Germania

Età: 71 anni (2025)

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