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Urs Fischer: Il grande maestro della metamorfosi

Pubblicato il: 20 Gennaio 2025

Di: Hervé Lancelin

Categoria: Critica d’arte

Tempo di lettura: 6 minuti

Urs Fischer trasforma la distruzione in creazione, manipolando cera, pane e tecnologie per creare opere monumentali che interrogano il nostro rapporto con il tempo e lo spazio. Le sue sculture effimere e le installazioni partecipative ridefiniscono i confini dell’arte contemporanea.

Ascoltatemi bene, banda di snob, è giunto il momento di parlare di Urs Fischer, nato nel 1973, questo scultore svizzero che si diverte a sfidare le nostre aspettative con un’arte che oscilla costantemente con la distruzione. Sì, avete letto bene: la distruzione. Ma non una qualunque. Fischer pratica l’arte della decomposizione come un maestro pasticcere maneggerebbe i suoi ingredienti, con una precisione chirurgica e un acuto senso dello spettacolo.

In questa giungla artistica contemporanea dove ogni creatore tenta disperatamente di distinguersi, Fischer ha scelto la via della metamorfosi perpetua, ricordando stranamente il concetto eracliteo del “panta rhei”, tutto scorre, tutto cambia. Le sue sculture di cera che si consumano lentamente, le sue installazioni che marciscono deliberatamente, le sue strutture architettoniche che sembrano sfidare la gravità: tutto nella sua opera ci urla che nulla è permanente. È come se Eraclito in persona avesse preso possesso di una galleria d’arte contemporanea per dimostrarci che non ci si può mai bagnare due volte nello stesso fiume.

Prendiamo le sue celebri sculture di cera. Nel 2011, crea una replica a grandezza naturale de “Il ratto delle Sabine” di Giambologna, quell’opera magistrale del Rinascimento, per trasformarla in una gigantesca candela che si consuma per tutta la durata della Biennale di Venezia. Ecco una magistrale appropriazione del concetto nietzschiano dell’eterno ritorno, ma con una torsione ironica: invece di tornare eternamente, l’opera si autodistrugge metodicamente, mettendo in discussione il nostro rapporto ossessivo con la conservazione dell’arte.

Le sue sculture di cera che si consumano lentamente ci costringono a confrontarci con la nostra stessa mortalità, ma in un modo stranamente gioioso. C’è qualcosa di liberatorio nel modo in cui abbraccia la distruzione come parte integrante del processo creativo. È un memento mori che non ci deprimere, ma ci invita piuttosto a celebrare il momento presente.

Nel mondo di Fischer, la distruzione non è una fine in sé, ma un mezzo di creazione. Le sue installazioni monumentali, come “You” (2007), dove fa scavare un buco enorme nel pavimento di una galleria, non sono semplici atti di vandalismo istituzionale. No, esse rappresentano una riflessione profonda sulla natura stessa dello spazio e sul nostro rapporto con esso. È come Gordon Matta-Clark sotto acido, se volete, ma con una dose extra di provocazione svizzera.

La pratica di Fischer è caratterizzata da una dualità affascinante tra il monumentale e l’effimero. Le sue sculture giganti in alluminio, come “Big Clay #4” (2013-2014), un’opera colossale alta 12 metri, sembrano sfidare il tempo celebrando allo stesso tempo l’insignificanza del gesto creativo. Ed è proprio qui che risiede il suo genio: nella capacità di trasformare un semplice pizzico di argilla in un monumento titanico, conservando al contempo la traccia del gesto originario, come un memento mori contemporaneo che ci ricorda che anche le opere più imponenti sono solo il frutto di un momento fugace.

Fischer gioca con le scale come un prestigiatore con le sue carte. Ingigantisce smisuratamente oggetti quotidiani, creando situazioni surreali che avrebbero fatto sorridere André Breton. Ma, contrariamente ai surrealisti che cercavano di trascendere la realtà, Fischer si sforza di riportarci ad essa, ricordandoci costantemente la materialità delle cose. Le sue opere sono ancorate in una realtà fisica ineludibile, anche quando sembrano sfidare le leggi della fisica.

Il lavoro di Fischer si inscrive in una tradizione filosofica che risale a Democrito e al suo concetto di atomismo. Proprio come il filosofo greco vedeva il mondo composto da atomi in continuo movimento nel vuoto, Fischer crea un universo artistico dove oggetti, materiali e concetti sono in perpetua ricomposizione. Le sue installazioni non sono statiche ma vive, in costante mutamento, come se l’artista avesse catturato l’essenza stessa del cambiamento.

Prendiamo i suoi “Problem Paintings”, questa serie in cui sovrappone immagini di frutta o di oggetti quotidiani ai ritratti di attori hollywoodiani degli anni ’40. Queste opere non sono semplici esercizi di stile post-pop art. No, rappresentano una critica acerba della nostra società dell’immagine, dove celebrità e anonimato si incontrano in un balletto assurdo. È come se Andy Warhol incontrasse René Magritte in un ascensore guasto, se volete un’immagine.

Le installazioni alimentari di Fischer meritano una riflessione approfondita. La sua “Bread House” (2004-2005), una casa costruita interamente di pane, non è solo uno scherzo architettonico. È una meditazione profonda sulla natura effimera delle nostre costruzioni più ambiziose. Il pane, questo alimento fondamentale, diventa qui un materiale da costruzione destinato alla decomposizione, creando una tensione palpabile tra permanenza e impermanenza. È come se Fischer avesse deciso di prendere il concetto heideggeriano dell’essere-per-la-morte e trasformarlo in un’esperienza sensoriale totale.

L’artista spinge ancora più lontano questa riflessione con le sue installazioni partecipative come “YES” (2013), dove invita il pubblico a creare sculture di argilla che si asciugheranno e si disintegreranno col tempo. Questa democratizzazione dell’atto creativo ricorda i happening degli anni ’60, ma Fischer aggiunge una dimensione in più: la consapevolezza acuta della finitudine. Ogni partecipante diventa allo stesso tempo creatore e distruttore, in una danza macabra che celebra la creatività umana accettandone la natura effimera.

Gli specchi giocano un ruolo importante nell’opera di Fischer, non come semplici superfici riflettenti, ma come portali verso altre dimensioni della percezione. Le sue installazioni specchiate ci riflettono la nostra stessa immagine deformata, frammentata, moltiplicata, creando un dialogo complesso tra lo spettatore e l’opera. È come se Lacan avesse deciso di diventare un artista contemporaneo: lo stadio dello specchio diventa un’esperienza fisica, tangibile, a volte persino vertiginosa.

Fischer eccelle particolarmente nella sua capacità di creare momenti di sorpresa assoluta. Le sue sculture motorizzate, come quelle sedie da ufficio che si muovono autonomamente nello spazio espositivo, creano situazioni in cui l’inaspettato diventa la norma. È un teatro dell’assurdo in cui gli oggetti prendono vita, non per intrattenerci, ma per confrontarci con le nostre stesse aspettative riguardo all’arte e alla realtà.

L’artista manipola anche la nostra percezione dello spazio con una maestria sconcertante. Le sue aperture nei muri delle gallerie non sono semplici buchi, ma portali che rivelano la natura costruita dei nostri spazi espositivi. È come se Fischer avesse deciso di prendere il concetto kantiano di spazio come forma a priori della sensibilità e di rivoltalo come un guanto.

In un mondo dell’arte contemporanea spesso prevedibile, dove ogni artista sembra aver trovato la sua nicchia confortevole, Fischer resta sfuggente. Rifiuta di lasciarsi rinchiudere in una firma stilistica unica, preferendo esplorare costantemente nuove direzioni. Questo approccio potrebbe sembrare dispersivo, ma rivela in realtà una profonda coerenza: quella di un artista che comprende che l’arte, come la vita stessa, è in perpetuo movimento.

Fischer non esita a confrontarsi con le contraddizioni insite nel mondo dell’arte contemporanea. Le sue opere monumentali, prodotte con mezzi tecnologici sofisticati, convivono con interventi più modesti, quasi artigianali. Questa tensione tra high-tech e low-tech, tra lo spettacolare e l’intimo, crea una dinamica affascinante che riflette i paradossi della nostra epoca.

La sua pratica artistica mette anche in discussione il nostro rapporto con il valore nell’arte. Come valutare un’opera destinata a scomparire? Cosa resta quando una scultura di cera ha terminato di consumarsi? Queste domande ci riportano a interrogativi filosofici fondamentali sulla natura dell’arte e sul suo posto nella nostra società mercantile. Fischer non propone risposte semplici, ma ci invita a riflettere su queste questioni in modo ludico e provocatorio.

L’uso che Fischer fa delle nuove tecnologie è particolarmente interessante. Le sue sculture digitalizzate in 3D e poi ingrandite a una scala monumentale rappresentano una fusione affascinante tra il gesto artistico tradizionale e le possibilità offerte dalla tecnologia contemporanea. È come se l’artista cercasse di riconciliare l’artigianato tradizionale con l’era digitale, creando opere che esistono simultaneamente in più dimensioni della realtà.

Ciò che rende l’opera di Fischer così pertinente oggi è la sua capacità di catturare lo spirito della nostra epoca: un periodo segnato dall’instabilità, dall’incertezza e dalla trasformazione continua. La sua arte ci ricorda che la bellezza può risiedere nell’impermanenza, che la distruzione può essere creativa, e che l’arte più significativa è quella che osa mettere in discussione le proprie fondamenta.

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Riferimento/i

Urs FISCHER (1973)
Nome: Urs
Cognome: FISCHER
Genere: Maschio
Nazionalità:

  • Svizzera

Età: 52 anni (2025)

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