Ascoltatemi bene, banda di snob : Wade Guyton (nato nel 1972) ci propone da oltre vent’anni una partitura sottile e perversa con le sue stampanti Epson, ed è ora di parlarne seriamente.
Lasciate che vi racconti una storia: quella di un ragazzino dell’Indiana che odiava disegnare a tal punto da far fare i compiti di arte plastica dal padre. Un bambino cresciuto in una piccola città del Tennessee, figlio di un operaio metallurgico morto troppo presto, e che alla fine diventa uno degli artisti più influenti della sua generazione stampando tele come si stampa un documento in ufficio. Solo che i suoi “documenti” oggi si vendono a diversi milioni di euro.
Questa storia non è solo una rivincita sociale, è soprattutto una rivoluzione concettuale che interroga profondamente la natura stessa dell’arte nell’era digitale. Guyton è riuscito a creare un nuovo linguaggio pittorico détournando la tecnologia più banale che ci sia: la stampante a getto d’inchiostro. Una Epson Stylus Pro 9600, per la precisione, che spinge al limite, costringendola a stampare su tela di lino mentre è progettata per la carta fotografica.
La prima parte importante del suo lavoro: il glitch come firma artistica. Quando Guyton invia i suoi file digitali alla stampante, non cerca la perfezione tecnica. Al contrario, abbraccia gli incidenti, gli errori, gli inceppamenti di carta. Questi errori diventano la sua grammatica visiva. Le bande orizzontali che appaiono quando l’inchiostro scarseggia, le scie quando la tela si piega nella macchina, gli spostamenti quando deve ripiegare il tessuto per adattarlo alla larghezza limitata della stampante, tutto ciò costituisce il suo vocabolario estetico.
Questo approccio richiama il pensiero di Walter Benjamin sulla riproduzione meccanica dell’arte, ma lo spinge in una direzione totalmente inaspettata. Se Benjamin vedeva nella riproduzione tecnica la perdita dell’aura dell’opera d’arte, Guyton reintroduce paradossalmente l’unicità nel processo stesso della riproduzione. Ogni “errore” di stampa è unico e impossibile da replicare identico. L’artista trasforma così la riproducibilità tecnica in uno strumento per creare unicità.
Questa dialettica tra meccanico e unico ci riporta alle riflessioni di Theodor Adorno sull’industria culturale. Ma dove Adorno vedeva nella standardizzazione la morte dell’arte, Guyton trova un terreno fertile per una nuova forma di creazione. Usa gli strumenti della standardizzazione, il computer, la stampante, per produrre opere che resistono proprio alla standardizzazione attraverso le loro imperfezioni volute.
Prendiamo i suoi celebri monocromi neri. A prima vista, nulla di più semplice: un file digitale completamente nero stampato su tela. Ma osservando più da vicino, si scopre un mondo di sfumature e texture. Le zone in cui l’inchiostro ha colato creano effetti materici che ricordano la pittura astratta tradizionale. Le linee bianche che appaiono quando la stampante si guasta evocano gli “zip” di Barnett Newman. È come se Guyton orchestrasse un dialogo tra la storia dell’arte moderna e la cultura digitale contemporanea.
Un altro aspetto fondamentale del suo lavoro riguarda il suo rapporto con il tempo e l’informazione. Le sue serie recenti basate su schermate del sito web del New York Times sono particolarmente rivelatrici. Stampando queste pagine web su tela, cristallizza un momento preciso del flusso costante d’informazioni che caratterizza la nostra epoca. Queste opere funzionano come fossili digitali, preservando non solo le notizie del giorno ma anche l’impaginazione, le pubblicità, i commenti, tutto l’ecosistema visivo del web.
Questo approccio ci rimanda alla teoria dell’accelerazione sociale sviluppata da Hartmut Rosa. In un mondo in cui tutto si accelera costantemente, dove l’informazione invecchia istantaneamente, Guyton crea momenti di pausa, di contemplazione. Le sue tele sono come istantanee dello zeitgeist digitale, ma istantanee che paradossalmente prendono il tempo della pittura.
Un’altra parte importante: il rapporto con il corpo e lo spazio. Perché contrariamente a quanto si potrebbe pensare, il lavoro di Guyton non è disincarnato. Al contrario, c’è qualcosa di profondamente fisico nella sua pratica. Deve letteralmente lottare con le sue tele per farle passare nella stampante, piegarle, spiegazzarle, trascinarle sul pavimento del suo studio. Le tracce di queste manipolazioni restano visibili nell’opera finale: polvere incrostata nell’inchiostro ancora umido, pieghe marcate al centro delle tele, impronte di passi.
Questa dimensione corporea è particolarmente evidente nelle sue installazioni. Quando ricopre il pavimento di una galleria con compensato nero, come ha fatto più volte, crea uno spazio in cui lo spettatore vive fisicamente l’esperienza dell’opera. Il pavimento diventa un’estensione delle sue tele, trasformando l’esposizione in un ambiente immersivo.
Queste installazioni ci ricordano le teorie di Maurice Merleau-Ponty sulla fenomenologia della percezione. L’esperienza dell’arte non è solo visiva, ma coinvolge tutto il corpo. I grandi formati di Guyton, i suoi pavimenti modificati, creano un rapporto fisico con l’opera che contrasta con l’origine digitale delle immagini.
La bellezza del lavoro di Guyton risiede in queste apparenti contraddizioni: tra digitale e fisico, tra riproduzione e unicità, tra la velocità dell’informazione e la lentezza della contemplazione. Non cerca di risolvere queste tensioni ma al contrario le sfrutta come motore creativo.
La sua opera pone domande fondamentali su cosa significhi fare arte oggi. Come creare quando gli strumenti di produzione sono standardizzati? Come conservare una forma di autenticità in un mondo di riproduzione infinita? Come dare senso alle immagini in un’epoca saturata di informazioni visive?
La risposta di Guyton è allo stesso tempo umile e audace: utilizzare gli strumenti più banali della nostra epoca, computer, stampante, ma spingerli ai limiti, farli guastare in modo produttivo. È una forma di resistenza dall’interno, che non rifiuta la tecnologia ma la sovverte.
Questo approccio lo rende uno degli artisti più rilevanti della nostra epoca. Non perché utilizzi la tecnologia, molti artisti lo fanno, ma perché ha trovato un modo unico di farla balbettare, per usare l’espressione di Gilles Deleuze. Questo balbettio tecnologico produce una poesia visiva che parla profondamente della nostra condizione contemporanea.
La forza del lavoro di Guyton risiede nel trasformare i vincoli in opportunità creative. Le limitazioni tecniche della sua stampante diventano fonti di creazione. Gli errori sono accolti come momenti di grazia. Il banale viene trasceso in sublime.
In un mondo ossessionato dalla perfezione tecnica, dall’immagine ad alta definizione, dalla riproduzione senza difetti, Guyton ci ricorda la bellezza dell’imperfezione, la poesia dell’errore, il valore dell’incidente. La sua opera è una celebrazione del glitch come forma estetica, un’ode alla bellezza del malfunzionamento.
E forse questo è il messaggio più profondo del suo lavoro: in un mondo sempre più automatizzato, standardizzato, ottimizzato, la vera creatività forse risiede nella nostra capacità di far deragliare la macchina, di farla funzionare diversamente, di trasformare i suoi limiti in nuove possibilità.
Wade Guyton non è solo un artista che usa la tecnologia, è un artista che ci mostra come la tecnologia può essere deviata, sovvertita, reinventata. In questo senso, la sua opera è profondamente politica, anche se non affronta direttamente temi politici. È una lezione sulla possibilità di creare bellezza e senso in un mondo dominato dalla standardizzazione tecnica.
È anche una riflessione sottile sulla natura stessa dell’arte nell’era digitale. Cos’è un’immagine quando tutto può essere indefinitamente copiato, modificato, condiviso? Cos’è l’originalità quando la riproduzione è la norma? Come creare valore artistico in un mondo di riproduzione infinita?
La risposta di Guyton è paradossale: è proprio nel processo di riproduzione che trova una nuova forma di originalità. Le sue opere sono uniche non nonostante ma grazie al loro modo di produzione meccanico. Ogni “errore” di stampa, ogni glitch, ogni incidente diventa una firma impossibile da riprodurre.
Questo approccio lo rende uno degli artisti più influenti della sua generazione. Ha aperto una nuova via per pensare la pittura nell’era digitale, mostrando che è possibile creare opere profondamente contemporanee senza rinunciare alla tradizione pittorica.
La sua influenza si avverte ben oltre il mondo dell’arte contemporanea. Mostrando come deviare creativamente la tecnologia, propone una lezione più ampia sul nostro rapporto con gli strumenti digitali. In un mondo in cui dipendiamo sempre di più dalla tecnologia, la sua opera ci ricorda che possiamo mantenere il controllo, che possiamo far deragliare la macchina in modo produttivo.
Wade Guyton è quindi molto più di un semplice artista che usa la tecnologia: è un filosofo dell’era digitale, un pensatore che usa l’arte per riflettere sulla nostra condizione contemporanea. La sua opera ci invita a ripensare il nostro rapporto con la tecnologia, con l’immagine, con la riproduzione e, in ultima analisi, con noi stessi.
















