Ascoltatemi bene, banda di snob, Wang Xingwei non è semplicemente un pittore come tanti altri nel panorama artistico contemporaneo cinese. È l’illusionista che gioca con le vostre certezze, il narratore che vi conduce in un labirinto di immagini dove i riferimenti culturali si scontrano con la forza di una collisione cosmica. Questo nativo di Shenyang, educato lontano dalle prestigiose accademie d’arte centrali, ha tracciato il suo percorso con la sicurezza di un funambolo su un filo teso tra Oriente e Occidente, tra passato e presente, tra realismo socialista e surrealismo particolare.
Pensate alla sua opera “The Oriental Way” (1995), dove sostituisce la figura eroica di Mao nel celebre quadro “Chairman Mao Goes to Anyuan” (1967) di Liu Chunhua con la propria silhouette vista di spalle. Un sacrilegio? Una profanazione? No, una decostruzione chirurgica del racconto ufficiale. Wang Xingwei si appropria dell’immaginario politico per sovvertirlo dall’interno, come un virus che riscrive il codice genetico del suo ospite. Ci offre ciò che Roland Vinçon chiama “un’immagine che pensa e che ci fa pensare” [1], una ricostruzione critica del visivo che espone i meccanismi della fabbricazione mitologica.
Esplorando il lavoro di Wang, non si può che pensare alla teoria del simulacro sviluppata da Jean Baudrillard. “La simulazione non è più quella di un territorio, di un essere referenziale, di una sostanza. Essa è la generazione tramite modelli di un reale senza origine né realtà: iperreale”, scriveva il filosofo francese [2]. Le opere di Wang incarnano proprio questa iperrealtà, quel vertigine della rappresentazione che rimanda solo ad altre rappresentazioni. Quando dipinge infermiere con il volto sostituito da un vaso di fiori in “Untitled (Watering Flowers)” (2003), o i suoi pinguini feriti in “North Pole” (2002), non rappresenta la realtà, ma piuttosto la nostra percezione mediata e frammentata di essa.
L’opera di Wang Xingwei opera in quella che definirei una “zona di indeterminatezza semiotica” dove i segni fluttuano e si ricombinano liberamente, sganciati dal loro ancoraggio originario. Prendete il suo “Poor Old Hamilton” (1996), dove coesistono la Gioconda con un baffo (un cenno a Duchamp), un bambino cinese timido e la figura di Richard Hamilton (il padre della pop art britannica) accucciato con le pantofole cinesi come una guardia di sicurezza. Non è una semplice citazione erudita, ma una vera trasmutazione alchemica dei riferimenti culturali, un collage concettuale che confonde i confini tra alta e bassa cultura, tra Est e Ovest.
Ma la vera forza di Wang risiede nel suo ostinato rifiuto di sottomettersi a uno stile unico, a una “firma” riconoscibile che soddisfi le aspettative del mercato. “Considero l’artista come un fattore. Non dovrebbe essere troppo curioso di ciò che si trova all’interno delle buste che consegna”, ha dichiarato [3]. Questa posizione radicale riecheggia la filosofia di Gilles Deleuze sul divenire, dove l’identità non è mai fissa ma sempre in processo, sempre in trasformazione. Wang Xingwei diventa successivamente realistico, surrealista, espressionista, pop, concettuale, non per indecisione, ma per una decisione consapevole di resistere alla reificazione della sua arte in merce identificabile.
Questo camaleontismo stilistico non è un semplice gioco formale, ma una posizione etica di fronte all’industrializzazione dell’arte contemporanea cinese negli anni ’90 e 2000. Come ha osservato Giorgio Agamben, “la firma non è solo ciò che autentica l’opera come appartenente a un autore, è anche ciò che rende l’opera stessa funzionale in un sistema economico” [4]. Rifiutando la firma stilistica, Wang sovverte il funzionamento stesso del mercato dell’arte che richiede prodotti coerenti e identificabili.
Il percorso di Wang Xingwei è affascinante: nato nel nord-est della Cina, inizia a dipingere nella piccola città di Haicheng, lontano dai centri artistici, prima di trasferirsi a Shanghai e poi a Pechino. Questo percorso geografico riflette una tensione costante tra periferia e centro, tra marginalità e riconoscimento istituzionale. È proprio questa posizione di outsider (anche quando diventa insider) che conferisce al suo lavoro questa particolare acutezza, questa capacità di vedere la cultura cinese con uno sguardo al tempo stesso intimo e distaccato.
In un saggio brillante, Jacques Rancière evoca la “politica dell’estetica” come “il modo in cui le pratiche e le forme di visibilità dell’arte intervengono nella condivisione del sensibile e nella sua riconfigurazione” [5]. L’opera di Wang Xingwei incarna perfettamente questa politica dell’estetica, ridefinendo continuamente ciò che può essere visto, detto e pensato nel contesto specifico della Cina post-Tiananmen e della sua integrazione accelerata nell’economia globale.
Prendiamo la sua serie “Untitled (Old Lady)” (2010-2012), ispirata da una brochure pubblicitaria per un corso preparatorio all’esame di ammissione all’Accademia Centrale delle Belle Arti. Wang si appropria di questa immagine banale di una vecchia signora che infila un ago (simbolo della “saggezza della vecchiaia”) per farne nove variazioni ossessive. Questo gesto apparentemente assurdo, dedicare due anni della sua produzione a un soggetto scoperto per caso, rivela in realtà una riflessione profonda sulla standardizzazione dell’educazione artistica e la meccanizzazione della creatività nel sistema accademico cinese.
La temporalità nell’opera di Wang è particolarmente interessante. I suoi quadri sembrano sospesi in un tempo intermedio, né del tutto ancorati al presente né completamente nostalgici del passato. Questa sospensione temporale fa eco a ciò che Jean-François Lyotard identificava come la condizione postmoderna, caratterizzata da “incredulità nei confronti dei metaracconti” [6]. I grandi racconti storici, il progresso socialista, la modernizzazione capitalista, sono frammentati nell’opera di Wang in scene enigmatiche che resistono a qualsiasi narrazione lineare.
Guardate “My Beautiful Life” (1993-1995), dove Wang si rappresenta in abito viola davanti a un paesaggio urbano in transizione. Il titolo ironico sottolinea lo scarto tra le promesse della “vita bella” e la realtà vissuta in una Cina in piena trasformazione economica e sociale. Ciò che Wang cattura qui, con una precisione chirurgica, è quello che l’antropologo Arjun Appadurai chiama “la produzione sociale della differenza” in un contesto di globalizzazione accelerata [7].
Questa lucidità di fronte alle trasformazioni sociali della Cina contemporanea attraversa tutta l’opera di Wang Xingwei. I suoi quadri sono come sismografi che registrano i tremori identitari di una società presa tra tradizione e ipermodernità. “Shenyang Night” (2018) ne è forse l’illustrazione più eloquente: ispirato compositivamente a “La Libertà che guida il popolo” di Delacroix, mostra quattro figure dai destini divergenti nella città natale dell’artista nei primi anni ’90. Il personaggio centrale, appoggiato contro una barriera stradale, guarda con disperazione una bandiera bianca abbandonata, simbolo di una sconfitta o di una resa.
Al di là delle referenze storiche e teoriche, l’opera di Wang possiede una qualità che definirei profondamente cinematografica. Non solo si ispira talvolta direttamente al cinema (come nei suoi quadri che fanno riferimento ai film di guerra anti-giapponesi), ma il suo modo di costruire le scene, di inquadrare i suoi personaggi, di giocare con la luce, rivela una sensibilità vicina al settimo arte. Questa dimensione cinematografica è stata brillantemente analizzata da Pascal Bonitzer, che scrive: “La pittura moderna è ossessionata dalla fotografia e dal cinema… Deve negoziare con questi fantasmi, o esorcizzandoli o incorporandoli” [8]. Wang Xingwei sceglie chiaramente l’incorporazione, trasformando la sua arte pittorica in un dispositivo che dialoga costantemente con gli altri regimi di immagini.
Questa qualità cinematografica si ritrova particolarmente nel suo modo di trattare le serie. Le sue variazioni su uno stesso tema, che si tratti della vecchia signora, dei pinguini o delle infermiere, funzionano come sequenze filmiche, piani successivi che costruiscono una narrazione frammentata ma coerente. Ogni quadro diventa un “piano” in un montaggio più vasto che decostruisce e ricostruisce la nostra percezione del reale.
Ma Wang non si limita a prendere in prestito dal cinema le sue tecniche narrative, ne riprende anche l’ambizione totalizzante. Come ha sottolineato Jacques Aumont, “il cinema è un’arte totale che può incorporare tutte le altre arti” [9]. Allo stesso modo, la pittura di Wang aspira a una forma di totalità, non nel senso di un’unificazione armoniosa, ma piuttosto di un accumulo vertiginoso di riferimenti, di stili e di temporalità che riflettono la complessità del mondo contemporaneo.
Questa aspirazione alla totalità si esprime soprattutto nella sua mostra retrospettiva all’UCCA di Pechino nel 2013, dove ha scelto di organizzare le sue opere non cronologicamente, ma secondo l’angolo di vista dei personaggi raffigurati: viste di fronte, di spalle e di profilo. Questo dispositivo museografico inedito rivela una coscienza acuta del modo in cui l’atto di vedere ed essere visti struttura il nostro rapporto con il mondo. Fa eco a ciò che Jean-Louis Schefer chiamava “il corpo del visibile”, questa incarnazione dello sguardo che definisce il nostro essere-nel-mondo [10].
Nella sua serie “The Code of Physiognomy” (2019), Wang Xingwei spinge ancora più oltre questa riflessione sul visibile appropriandosi dei codici della fisiognomonia, questa pseudo-scienza che pretende di dedurre il carattere e il destino di una persona dai suoi tratti fisici. Giocando con questi codici obsoleti, interroga la nostra propensione contemporanea a giudicare dalle apparenze, a ridurre l’identità a un’immagine. Come scrive Susan Sontag, “il reale è stato sempre più inteso come ciò che è mostrato dalle telecamere” [11]. Wang ci costringe a confrontarci con questa riduzione del reale alla sua rappresentazione.
L’umorismo gioca un ruolo importante nell’opera di Wang Xingwei, non come semplice intrattenimento, ma come strumento di distanziamento critico. La sua ironia pungente, talvolta vicina all’assurdo, ricorda ciò che Milan Kundera descriveva come “la tenda strappata” dell’umorismo che “ci fa improvvisamente scoprire l’inverosimiglianza della nostra situazione” [12]. Quando Wang dipinge una coppia elegante che posa davanti a dei bagni pubblici in “A Sunday Afternoon in the Youth Park” (2009), non si limita a farci sorridere, ci fa riflettere sui paradossi della Cina contemporanea, sui contrasti sorprendenti tra ambizioni individuali e infrastrutture collettive.
Ciò che distingue Wang Xingwei da molti artisti contemporanei cinesi è che è profondamente locale pur essendo risolutamente universale. Attinge alla sua esperienza personale del nord-est della Cina, alle specificità della vita a Shenyang, Haicheng o Shanghai, ma questi elementi locali diventano i vettori di una riflessione più ampia sulla condizione umana in un mondo globalizzato. Come ha teorizzato Édouard Glissant, realizza una forma di “mondialità” che “mantiene la presenza dei popoli” piuttosto che una globalizzazione che standardizza e cancella le differenze [13].
Questa tensione tra locale e globale si manifesta anche nella sua tecnica pittorica. Wang padroneggia perfettamente le convenzioni del realismo accademico europeo e del realismo socialista cinese, ma le devia costantemente, le ibrida con altre tradizioni visive. I suoi prestiti stilistici non sono mai copie servili, ma appropriazioni critiche che rivelano i fondamenti ideologici di ogni stile pittorico.
La sua relazione ambivalente con la tradizione pittorica cinese merita di essere sottolineata. Contrariamente ad alcuni artisti della sua generazione che hanno rigettato in blocco l’eredità culturale cinese o, al contrario, l’hanno idealizzata in una postura neotradizionalista, Wang adotta un approccio più sfumato. Integra elementi dell’immaginario tradizionale cinese confrontandoli con i codici visivi occidentali, creando così quello che François Jullien definirebbe uno “spazio dell’intermezzo” [14], un luogo di dialogo e di tensione produttiva tra diverse tradizioni culturali.
Questa posizione intermedia fa di Wang Xingwei una figura singolare nel panorama artistico cinese contemporaneo. Né del tutto allineato con gli artisti ufficiali, né completamente assimilato alle avanguardie sperimentali, occupa uno spazio liminale che gli permette una libertà critica eccezionale. Questa liminalità, teorizzata dall’antropologo Victor Turner come uno stato “betwixt and between” [15], diventa in Wang un principio creativo che informa tutta la sua pratica artistica.
Ciò che rende grande Wang Xingwei è che trasforma le contraddizioni della Cina contemporanea, tra tradizione e modernità, tra autoritarismo politico e liberalismo economico, tra nazionalismo e cosmopolitismo, in un’opera visiva di coerenza paradossale. I suoi dipinti non risolvono queste contraddizioni, le mantengono in una tensione produttiva che riflette la complessità del nostro mondo globalizzato.
Allora, la prossima volta che vi troverete di fronte a un quadro di Wang Xingwei, non cercate di classificarlo in una categoria predefinita, non tentate di ridurlo a una formula o a uno stile. Lasciatevi piuttosto destabilizzare dalla sua ironia mordace, dalle sue giustapposizioni inaspettate, dalle sue metamorfosi stilistiche. Perché è proprio in questa destabilizzazione che risiede la forza emancipatrice della sua arte, un’arte che non ci conferma nelle nostre certezze, ma ci invita a vedere il mondo diversamente, attraverso il prisma di un’immaginazione sfrenata che trasforma il familiare in straniero e lo straniero in familiare.
- Vinçon, Roland. “L’image comme lieu de pensée”, Cahiers philosophiques, no. 122, 2010.
- Baudrillard, Jean. Simulacres et simulation. Galilée, 1981.
- Wang Xingwei, citato in “Wang Xingwei Mashes Up Eastern and Western Styles for Witty Effect”, Sotheby’s, 19 giugno 2013.
- Agamben, Giorgio. Signatura rerum : Sur la méthode. Vrin, 2008.
- Rancière, Jacques. Le partage du sensible : esthétique et politique. La Fabrique, 2000.
- Lyotard, Jean-François. La condition postmoderne. Minuit, 1979.
- Appadurai, Arjun. Modernity at Large: Cultural Dimensions of Globalization. University of Minnesota Press, 1996.
- Bonitzer, Pascal. Décadrages : peinture et cinéma. Cahiers du cinéma, 1985.
- Aumont, Jacques. L’image. Nathan, 1990.
- Schefer, Jean-Louis. Du monde et du mouvement des images. Cahiers du cinéma, 1997.
- Sontag, Susan. Sur la photographie. Christian Bourgois, 2000.
- Kundera, Milan. Le rideau. Gallimard, 2005.
- Glissant, Édouard. Introduction à une poétique du divers. Gallimard, 1996.
- Jullien, François. L’écart et l’entre. Galilée, 2012.
- Turner, Victor. The Ritual Process: Structure and Anti-Structure. Aldine, 1969.
















