Ascoltatemi bene, banda di snob, lasciate che vi parli di Winfred Rembert (1945-2021), un artista il cui percorso straordinario incarna le ore più oscure della storia americana. Nato nella Georgia segregazionista, fu affidato fin dalla nascita alla sua prozia e iniziò a lavorare nei campi di cotone a sei anni. Il suo impegno nel movimento per i diritti civili negli anni ’60 gli costò un arresto e, dopo un tentativo di fuga, fu vittima di un tentativo di linciaggio da cui miracolosamente sopravvisse. Condannato a sette anni di prigione, lì imparò l’arte della lavorazione della pelle da un compagno di reclusione. Fu solo all’età di cinquantuno anni, incoraggiato dalla moglie Patsy, che iniziò a trasformare questa tecnica in arte, incidendo e dipingendo sulla pelle le scene del suo passato. La sua opera, oggi riconosciuta a livello internazionale e premiata postumamente con il Pulitzer per la biografia nel 2022, è una testimonianza toccante della segregazione razziale e una celebrazione della resilienza umana.
È un artista che ha trasformato le sue cicatrici in capolavori, che ha metamorfosato l’inferno in bellezza. Winfred Rembert non è uno di quegli artisti che hanno appreso il loro mestiere nelle stanze silenziose delle scuole d’arte. No, la sua università è stata la Georgia segregazionista, i suoi insegnanti sono stati il dolore e la resilienza, e il suo mezzo prediletto, la pelle, è stato un dono ironico dei suoi anni di prigionia. In un mondo sommerso da installazioni concettuali spesso vuote di significato, ecco un uomo che incide letteralmente la sua vita nella pelle, come Kafka incideva i suoi incubi sulla carta. E come lo scrittore praghese, Rembert ci immerge in un universo kafkiano dove l’assurdo si contende con l’inaumano.
Guardate “All Me” (2002), quest’opera allucinante in cui i prigionieri in uniforme a righe si moltiplicano come in uno specchio rotto. Non è solo una semplice rappresentazione del lavoro forzato, è una meditazione profonda sulla frammentazione dell’identità sotto l’effetto della violenza istituzionale. Come in “La metamorfosi” di Kafka, assistiamo alla trasformazione di un essere umano sotto la pressione di un sistema disumanizzante. Ma laddove Gregor Samsa diventa un insetto, Rembert si moltiplica per sopravvivere, creando ciò che lui stesso chiama “all of me”, tutte le versioni di sé necessarie per sopportare l’inferno del penitenziario.
Le sue opere sul lavoro nei campi di cotone non sono semplici documentari storici. No, quelle infinite file di punti bianchi su sfondo scuro sono come i versi de “La Bateau Ivre” di Rimbaud: un’ebbrezza di motivi che trascende la semplice narrazione per raggiungere una dimensione poetica. Come il poeta maledetto che trasformava la sua discesa all’inferno in versi abbaglianti, Rembert trasforma la sofferenza in bellezza formale. I campi di cotone diventano sotto le sue mani costellazioni, galassie di punti bianchi che danzano sulla pelle nera, creando una tensione visiva che parla tanto della storia dell’oppressione quanto della resistenza attraverso la bellezza.
Prendete “The Dirty Spoon Café” (2002), questa scena di ballo popolare dove coppie danzano su un pavimento a scacchi. L’opera vibra di un’energia che richiama le descrizioni dei bar clandestini in “Il Grande Gatsby” di Fitzgerald. Come lo scrittore americano che utilizzava questi luoghi di festa per rivelare le contraddizioni dell’America degli anni ’20, Rembert usa questi spazi di gioia per mostrare come la comunità nera creasse sacche di libertà in un sistema oppressivo. Il pavimento a scacchi diventa una metafora del complesso gioco sociale necessario per sopravvivere nel Sud segregazionista.
Ma non fatevi ingannare: se le sue opere sono belle, non sono mai decorative. Ogni colpo di cesello nella pelle è come un’incisione nella nostra coscienza collettiva. Prendete “Wingtips” (2001), che mostra l’artista appeso per le caviglie, sul punto di essere linciato. La composizione è di una precisione chirurgica, ogni dettaglio, fino alle scarpe del torturatore, inciso con una nitidezza che fa male. È il Goya americano, implacabile come “I Disastri della Guerra”, ma con questa differenza fondamentale: Rembert era sia l’artista che la vittima.
La pelle stessa diventa un elemento simbolico potente. Materiale vivo, porta le cicatrici della sua trasformazione, proprio come il corpo e l’anima dell’artista. Ogni incisione, ogni segno cesellato nella pelle riecheggia le ferite della storia. Ma a differenza della tela che accoglie passivamente la pittura, la pelle resiste, bisogna lavorarla, convincerla, stabilire un dialogo fisico con essa. Questa lotta con il materiale riflette perfettamente la lotta di Rembert con i suoi ricordi, con la storia, con l’arte stessa.
Il genio di Rembert risiede nella sua capacità di creare un’opera che trascende la semplice illustrazione dell’ingiustizia per raggiungere una dimensione universale. Le sue composizioni sono ritmate come il jazz, con motivi che si ripetono e si trasformano, creando una musica visiva che parla a tutti, anche a coloro che vorrebbero chiudere gli occhi sulla storia che raccontano.
In “Cracking Rocks” (2011), i carcerati lavorano con martelli in una coreografia macabra. I colpi ripetuti degli attrezzi sulla pietra diventano una sorta di partitura visiva, un ritmo spietato che struttura lo spazio della composizione. Ogni figura è allo stesso tempo individuale e parte di un insieme più vasto, come gli strumenti in un’orchestra jazz dove l’individualità si fonde in un’armonia collettiva senza però perdersi.
Il suo uso del colore non è mai gratuito. Le tonalità vibranti che applica sulla pelle lavorata non sono lì per essere belle. Funzionano come i colori nei quadri di Van Gogh: esprimono emozioni, stati d’animo, verità psicologiche. Il blu profondo del cielo nelle sue scene di lavoro nei campi non è il blu sereno di un paesaggio pastorale, è il blu implacabile di un sistema che schiaccia, che controlla, che opprime.
Osservate come tratta i volti nelle sue opere. Ogni fisionomia è unica, individualizzata, anche nelle scene di gruppo. È il suo modo di restituire umanità a coloro che il sistema voleva ridurre a numeri, a manodopera anonima. Questa attenzione ai dettagli individuali ricorda i ritratti del Rinascimento, dove ogni volto, anche in una folla, portava il segno della sua singolarità.
La composizione “G.S.P. Reidsville” (2013) è particolarmente impressionante nel suo modo di usare lo spazio. Le figure sono compresse nel quadro, creando una tensione claustrofobica che ci fa percepire fisicamente la reclusione. Questa organizzazione dello spazio ricorda alcune opere di Jacob Lawrence, ma Rembert vi aggiunge una dimensione tattile unica, grazie al lavoro della pelle che conferisce un rilievo fisico all’oppressione rappresentata.
Nelle sue scene di lavori forzati, le uniformi a righe bianche e nere creano un motivo ipnotico che struttura lo spazio in modo quasi astratto. Queste strisce non sono solo un semplice segno di identificazione dei prigionieri, diventano un elemento formale che ritma la composizione, creando una tensione tra l’ordine geometrico imposto e il movimento organico dei corpi al lavoro.
C’è anche una dimensione profondamente paradossale nella sua arte, che ne fa la sua forza unica. Le scene più dure sono spesso le più belle dal punto di vista formale. Questa tensione tra la bellezza dell’esecuzione e l’orrore del soggetto crea un disagio produttivo nello spettatore, obbligandolo a confrontarsi con le proprie reazioni contraddittorie. È esattamente ciò che faceva Bertolt Brecht con il suo teatro epico, creando un distanziamento che permette una presa di coscienza più profonda.
Il lavoro di Rembert sulla memoria è particolarmente affascinante. Non dipinge i suoi ricordi in maniera sfocata o impressionista. Al contrario, ogni scena è resa con una precisione quasi fotografica, come se il trauma avesse congelato quei momenti in una chiarezza surreale. Questa iperacutezza del ricordo ricorda le descrizioni di Proust in “Alla ricerca del tempo perduto”, dove il minimo dettaglio diventa il portale di una memoria più vasta.
Ma mentre Proust si immergeva nella memoria involontaria scatenata da una madeleine, Rembert si immerge volontariamente nei suoi ricordi più difficili, li affronta, li lavora come lavora la pelle, fino a quando diventano qualcos’altro: arte. È un atto di trasformazione alchemica, dove la sofferenza diventa bellezza senza perdere la sua verità essenziale.
La dimensione temporale nelle sue opere è particolarmente interessante. Sebbene rappresenti scene del passato, le sue composizioni hanno una qualità atemporale che le rende terribilmente contemporanee. Prendete “Inside the Trunk” (2002), che mostra il momento in cui è stato tirato fuori dal bagagliaio di un’auto per essere linciato. La composizione, con il suo inquadramento stretto e la sua prospettiva distorta, ricorda stranamente i video di violenze della polizia filmati con gli smartphone. Senza volerlo, Rembert ha creato un’immagine che risuona profondamente con la nostra epoca.
In “Chain Gang Picking Cotton #4” (2007), fonde due forme di oppressione, il penitenziario e il lavoro nei campi di cotone, in un’unica immagine di potenza devastante. I prigionieri in uniforme a righe si chinano sulle piante di cotone, i loro corpi formano una coreografia della servitù che attraversa le epoche. È una metafora visiva della continuità dell’oppressione razziale, del passaggio dalla schiavitù al sistema carcerario.
Ciò che è notevole è che mantiene un equilibrio perfetto tra testimonianza storica e creazione artistica. Le sue opere non cadono mai nella trappola del semplice documentario, né in quella dell’estetizzazione gratuita della sofferenza. Ogni pezzo è allo stesso tempo documento e poesia, prova e trasfigurazione.
C’è qualcosa di profondamente americano nella sua arte, ma non nel senso superficiale del termine. Il suo lavoro si inscrive nella grande tradizione degli autodidatti americani che hanno trasformato la loro esperienza personale in arte universale, come il blues nato dalla sofferenza per diventare una forma di espressione universale. Come i grandi bluesmen, Rembert trasforma la sua storia personale in un’opera che parla a tutti.
Guardate le sue scene di vita quotidiana, come “The Gammages (Patsy’s House)” (2005). La composizione è piena di dettagli: le lenzuola stese al sole, i bambini che giocano, gli adulti intenti nelle loro occupazioni. È un Bruegel americano, con quella stessa attenzione ai dettagli della vita ordinaria, quella stessa capacità di trasformare il quotidiano in un’epopea visiva.
In “Michael Jordan Cemetery” (1998), crea un’opera di complessità notevole che tratta della cultura del consumo e della violenza che essa genera nelle comunità nere. Le tombe con i nomi di giovani uccisi per le loro scarpe Nike si affiancano all’immagine di Jordan stesso, creando un commento sociale incisivo sulle contraddizioni del successo nero nell’America contemporanea.
L’ironia suprema è che questo artista, che ha passato tanti anni in catene, ha creato un’opera di una libertà formale straordinaria. Le sue composizioni sfidano le convenzioni, creano il proprio spazio, la propria logica. Utilizza la prospettiva in modo intuitivo, creando spazi impossibili che funzionano perfettamente sul piano emotivo, come gli spazi deformati nei dipinti di El Greco.
La sua arte ci ricorda che la bellezza non è un lusso, ma una forma di resistenza. Nelle condizioni più disumane, creare bellezza diventa un atto di sfida, un’affermazione della propria umanità. Ogni opera di Rembert è una testimonianza di questa verità: l’arte forse non ci salva, ma ci permette di trasformare la nostra esperienza, darle significato, condividerla.
La traiettoria di Rembert, dal penitenziario ai più grandi musei americani, potrebbe sembrare una favola moderna. Ma sarebbe un errore vederla così. Il suo successo tardivo non riscatta le ingiustizie che ha subito, non ripara i traumi. Ciò che fa è mostrarci come l’arte possa trasformare, ma non cancellare, la sofferenza in qualcosa che arricchisce la nostra comprensione collettiva dell’esperienza umana.
L’opera di Winfred Rembert è una testimonianza potente della capacità dell’arte di trascendere il proprio contesto originale pur restando profondamente radicata in esso. È un’arte che ci costringe a guardare la storia in faccia, ma che ci mostra anche come la bellezza possa emergere dalle circostanze più oscure. Non come una facile consolazione, ma come una trasformazione difficile e necessaria dell’esperienza in consapevolezza.
















