Ascoltatemi bene, banda di snob, questo Yang Ermin non è un piccolo giocatore nel panorama artistico contemporaneo. È quel tipo di artista che destabilizza per la capacità di far convivere i contrasti: tradizione millenaria e modernità fulminea, Oriente eterno e Occidente frenetico, paesaggi immutabili e nature morte vibranti. Nato nel 1966 a Quyang, nella provincia cinese di Hebei, questo pittore è diventato il leader indiscusso della pittura a lavaggio policromo, trasformando una tecnica ancestrale in un linguaggio pittorico perfettamente contemporaneo.
Potrei parlarvi per ore della sua tecnica prodigiosa, della sua abilità di unire inchiostro e colore sulla carta xuan, del suo modo unico di applicare strati successivi fino a quando il lavaggio si frammenta e appare come usurato nelle sue opere più recenti. Ma sarebbe perdere di vista l’essenziale. Perché ciò che rende grande Yang Ermin è la sua capacità di dialogare con la storia dell’arte rimanendo ancorato al suo tempo.
La forza di Yang Ermin risiede nel suo rapporto filosofico con il colore, che si inscrive in una riflessione profonda sulla temporalità dell’arte. Qui devo invocare Henri Bergson, la cui concezione del tempo come durata pura illumina meravigliosamente l’opera del nostro artista cinese. Per Bergson, il tempo reale non è quel tempo spazializzato, diviso in istanti successivi come i punti di una linea, ma una continuità indivisibile, un flusso perpetuo in cui passato e presente si interpenetrono costantemente. Non è esattamente ciò che realizza Yang Ermin nella sua pittura? Reinserendo il colore nel lavaggio tradizionale cinese, non solo modernizza una tecnica millenaria, ma crea uno spazio, un tempo pittorico dove il presente più vivido si mescola indissolubilmente al passato più remoto.
Prendiamo i suoi paesaggi. Non sono semplici rappresentazioni di montagne e fiumi come quelle che i pittori cinesi producono da secoli. Sono spazi mentali in cui il tempo si dilata e si contrae. “Il tempo è invenzione o non è niente affatto”, scriveva Bergson in L’Évolution créatrice [1]. Yang Ermin sembra aver fatto propria questa massima: ciascuna delle sue opere è un’invenzione temporale. I suoi colori vivaci non cercano di riprodurre fedelmente la natura, ma di catturare quella “durata pura” bergsoniana, quel movimento perpetuo della vita che sfugge a ogni misura meccanica.
Guardate attentamente le sue composizioni dove le forme sembrano simultaneamente crearsi e disfarsi, dove il lavis frammentato evoca quel flusso continuo della coscienza di cui parlava il filosofo francese. “Il nostro passato ci segue, arricchendosi continuamente del presente che raccoglie sul suo cammino”, scriveva ancora Bergson [2]. Le opere di Yang Ermin incarnano visivamente questa concezione del tempo: accumulano le tracce di un gesto pittorico ancestrale assorbendo al tempo stesso la vivacità cromatica della nostra epoca.
Ed è qui che interviene il secondo concetto che mi sembra fondamentale per comprendere Yang Ermin: la nozione di equilibrio tra rappresentazione e astrazione, che si ritrova nel pensiero estetico di Étienne Souriau. Questo filosofo francese del XX secolo, nel suo volume Les différents modes d’existence [3], sviluppa l’idea che l’arte istauri enti singolari, dotati di un’esistenza propria, né totalmente astratti né semplicemente mimetici.
Quando si osservano le nature morte di Yang Ermin, si è colpiti da questa continua tensione tra il riconoscibile e l’inafferrabile. Le sue composizioni floreali, i suoi arrangiamenti di frutta e oggetti quotidiani oscillano perennemente tra figurazione e astrazione. Souriau parlerebbe qui di un'”esistenza sovraesistente” dell’opera d’arte, che supera la sua semplice materialità per raggiungere una modalità d’essere superiore. “L’arte è il grande intensificatore dell’esistenza”, affermava [4]. E non è proprio questo che fa Yang Ermin con i suoi lavis colorati? Intensifica l’esistenza stessa degli oggetti che rappresenta, conferendo loro una presenza che trascende la loro banalità quotidiana.
Questa intensificazione passa in lui attraverso una sottile derealizzazione del soggetto rappresentato. I suoi fiori, i suoi vasi, i suoi paesaggi sono riconoscibili, certo, ma sono trasfigurati da un trattamento pittorico che li strappa alla loro esistenza ordinaria. Come scriveva Souriau, “l’arte non riproduce il visibile, rende visibile” [5], formula generalmente attribuita a Paul Klee, ma che illustra perfettamente il percorso di Yang Ermin. Le sue composizioni non riproducono servilmente il reale; rendono visibile un’altra dimensione di questo reale, più intensa, più vibrante, più essenziale.
Ma vi sento già, con il vostro solito cinismo: “Un altro artista cinese che ricicla le vecchie ricette aggiungendo un tocco di modernità per sedurre i collezionisti occidentali!” Sbagliate. Yang Ermin non è nella posa, è nella autentica ricerca di un linguaggio pittorico personale che possa trascendere le frontiere culturali senza rinnegare le sue radici.
La sua formazione è del resto rivelatrice di questa ambizione: dopo gli studi all’Accademia d’Arte di Nanchino, ha proseguito il suo percorso in Giappone, dove ha conseguito un dottorato in estetica e letteratura. Questo doppio ancoraggio culturale gli ha permesso di sviluppare una visione singolare, profondamente nutrita dalla tradizione cinese e aperta alle influenze occidentali. Conosce Monet, Cézanne, Van Gogh alla perfezione, ma non li imita mai servilmente. Dialoga con loro come fa con i maestri della pittura tradizionale cinese.
È questa capacità di dialogo a renderlo un artista veramente contemporaneo. In un mondo dell’arte spesso polarizzato tra un attaccamento nostalgico alle tradizioni e una corsa frenetica alla novità, Yang Ermin traccia una via mediana, fertile, inventiva. La sua pittura è quel luogo raro dove il tempo non scorre in modo lineare, ma si dispiega in strati sovrapposti, dove passato e presente coesistono senza annullarsi.
Torniamo alla filosofia bergsoniana per comprendere meglio questo fenomeno. Per Bergson, la memoria non è un semplice serbatoio di ricordi da cui attingiamo occasionalmente; costituisce la nostra esperienza presente, colora costantemente la nostra percezione attuale. Allo stesso modo, l’arte di Yang Ermin non cita il passato: lo fa vivere nel presente della creazione. Il lavaggio tradizionale non è per lui una tecnica da preservare come una reliquia, ma un linguaggio vivo da arricchire e trasformare.
“Il passato e il presente non sono due momenti successivi, ma due elementi che coesistono: il presente è l’elemento attivo e il passato, l’elemento che agisce”, scriveva Bergson [6]. Questa coesistenza attiva di passato e presente è al cuore dell’opera di Yang Ermin. Quando introduce colori brillanti nei suoi lavaggi, non rompe con la tradizione: la fa respirare diversamente, le dà un nuovo respiro, una nuova vita.
Questa vitalità è particolarmente percepibile nei suoi paesaggi. Contrariamente alle rappresentazioni tradizionali cinesi, dove le montagne appaiono spesso in una nebbia eterea, immerse in toni scuri e monocromatici, quelle di Yang Ermin vibrano di colori intensi. Ma questi colori non sono applicati artificialmente sulle forme; emergono organicamente dal lavaggio, come se fossero sempre stati lì, in potenza, in attesa di essere rivelati dalla mano dell’artista.
Qui il pensiero di Souriau ci aiuta nuovamente a comprendere l’approccio di Yang Ermin. Per il filosofo francese, l’artista è meno un creatore ex nihilo che un “istauratore” che fa venire alla luce forme già presenti virtualmente nella materia. “L’artista dialoga con la sua materia, e questa gli risponde”, scriveva [7]. Yang Ermin dialoga con l’inchiostro, la carta xuan, i pigmenti colorati, e da questo dialogo nascono opere che sembrano essere sempre esistite, tanto appaiono necessarie ed evidenti una volta realizzate.
Questa evidenza non deve però farci dimenticare la complessità tecnica del suo lavoro. Yang Ermin è un virtuoso che domina perfettamente gli strumenti tradizionali della pittura cinese, il pennello, l’inchiostro, la carta, pur spingendoli verso territori inesplorati. La sua tecnica di applicazione del lavaggio in strati successivi, che finiscono per frammentarsi e apparire usurati, traduce visivamente questa concezione bergsoniana del tempo come accumulo continuo di esperienze.
Ma la tecnica non è mai un fine a sé stessa per Yang Ermin. Essa è al servizio di una ricerca di armonia, un equilibrio sottile tra forme e colori che caratterizza l’intera sua opera. Come dice lui stesso: “Cerco l’equilibrio tra forme e colori per raggiungere l’armonia nelle mie composizioni.” Questa ricerca di armonia non è solo formale; ha una dimensione esistenziale profonda, che si riallaccia nuovamente al pensiero di Bergson sulla coscienza come flusso continuo e armonioso.
Per il filosofo francese, la coscienza autentica non è frammentata in percezioni, sentimenti o idee separate, ma costituisce una melodia continua dove ogni nota si fonde nella successiva. Allo stesso modo, le composizioni di Yang Ermin non semplicemente giustappongono forme e colori: le fanno fondere l’una nell’altra in un movimento fluido che evoca quella continuità melodica di cui parlava Bergson.
C’è qualcosa di profondamente musicale nella pittura di Yang Ermin, una qualità ritmica che trascende la semplice visualità. Le sue opere non si offrono in un solo colpo alla vista; si dispiegano nel tempo, invitano a una contemplazione prolungata che riecheggia la concezione bergsoniana del tempo come esperienza vissuta piuttosto che come successione di istanti.
Questa dimensione temporale è rafforzata dall’aspetto frammentato, quasi consumato, dei suoi lavaggi recenti. I colori sembrano essere stati erosi dal tempo, rivelando strati sottostanti, come se l’opera contenesse in sé stessa la propria storia. Anche qui, il pensiero di Bergson ci illumina: “La durata è il progresso continuo del passato che consuma il futuro e che si gonfia avanzando” [8]. Le opere di Yang Ermin incarnano letteralmente questo “consumo” del tempo, questa erosione continua che, paradossalmente, arricchisce piuttosto che impoverire.
Parallelamente, la teoria di Souriau sui “diversi modi di esistenza” ci offre una chiave ulteriore per comprendere la pluralità ontologica delle opere di Yang Ermin. Per il filosofo francese, gli oggetti artistici possiedono un’esistenza plurale: esistono fisicamente come oggetti materiali, ma anche esteticamente come portatori di valori sensibili, simbolicamente come vettori di significati culturali, e realmente come entità dotate di una potenza propria.
I dipinti di Yang Ermin manifestano pienamente questa pluralità esistenziale. Essi sono allo stesso tempo oggetti fisici (inchiostro e pigmenti su carta xuan), composizioni estetiche (giochi di colori e forme), eredi di una tradizione millenaria (il lavaggio cinese) e presenze autonome che sembrano irradiare una vita propria. Come scriveva Souriau, “l’opera d’arte compiuta ha una sorta di presenza sovrana” [9]. Questa sovranità è percepibile nelle migliori creazioni di Yang Ermin, che si impongono allo sguardo con un’autorità tranquilla.
Ciò che è particolarmente interessante in questo artista è la sua capacità di navigare tra diverse tradizioni pittoriche senza mai cadere nell’eclettismo superficiale. Non giustappone elementi cinesi e occidentali; li integra organicamente in un linguaggio coerente. Questa integrazione richiama la concezione bergsoniana dell’evoluzione creatrice, dove ogni nuovo stato conserva in sé qualcosa degli stati precedenti pur trasformandoli.
La pittura di Yang Ermin è veramente evolutiva in questo senso bergsoniano: conserva l’essenza della tradizione cinese del lavaggio arricchendola con apporti nuovi, in particolare il colore, che la trasformano profondamente senza snaturarla. È una pittura che onora le proprie radici proiettandosi risolutamente nel futuro.
Si potrebbe vedere in questo approccio una forma di conservatorismo, una volontà di preservare a tutti i costi una tradizione minacciata. Ma sarebbe ignorare la radicalità del suo progetto artistico. Yang Ermin non conserva la tradizione del lavaggio come si conserva un esemplare in formalina; la fa vivere, respirare, evolvere. Incorpora ciò che Bergson chiamava “l’élan vital”, quell’impulso creativo che attraversa tutta l’evoluzione della vita e che si esprime con un’intensità particolare nell’arte.
Yang Ermin è molto più di un abile sincretista che miscela tradizioni orientali e occidentali. È un artista che riflette profondamente sulla temporalità della sua arte, che inserisce ciascuna delle sue opere in un dialogo fecondo tra passato e presente, tra memoria e creazione. La sua pittura è una meditazione visiva sulla durata bergsoniana, su quella continuità indivisibile del tempo vissuto che trascende la semplice successione cronologica.
Allo stesso tempo, le sue opere instaurano presenze sensibili che superano la loro semplice materialità, incarnando questa “sovraesistenza” di cui parlava Souriau, questa intensificazione dell’essere che è propria dell’arte vera. Tra la fluidità temporale di Bergson e la pluralità ontologica di Souriau, Yang Ermin traccia un percorso singolare nell’arte contemporanea, un cammino che appartiene solo a lui ma che ci invita tutti a seguirlo.
Allora, la prossima volta che incontrerete un’opera di Yang Ermin in una galleria o in un museo, fermatevi. Prendetevi il vostro tempo. Lasciatevi impregnare dai suoi colori vibranti, dalle sue composizioni allo stesso tempo strutturate e fluide. E forse allora sentirete ciò che Bergson chiamava “la durata pura” e Souriau “la presenza instaurata”, quella qualità ineffabile che fa delle grandi opere d’arte non semplici oggetti da contemplare, ma esperienze da vivere pienamente.
Perché è proprio di questo che si tratta con Yang Ermin: non di ammirare da lontano una tecnica virtuosa o un sapiente miscuglio di influenze, ma di entrare in uno spazio-tempo pittorico dove la nostra stessa coscienza può fiorire, dilatarsi, fondersi in quel flusso continuo di forme e colori che è la firma di questo grande artista cinese contemporaneo.
- Henri Bergson, L’evoluzione creatrice, Parigi, PUF, 1907.
- Henri Bergson, Materia e memoria, Parigi, PUF, 1896.
- Étienne Souriau, I diversi modi di esistenza, Parigi, PUF, 1943.
- Étienne Souriau, La corrispondenza delle arti, Parigi, Flammarion, 1969.
- Étienne Souriau, Vocabolario di estetica, Parigi, PUF, 1990.
- Henri Bergson, L’energia spirituale, Parigi, PUF, 1919.
- Étienne Souriau, Il futuro dell’estetica, Parigi, Alcan, 1929.
- Henri Bergson, L’evoluzione creatrice, Parigi, PUF, 1907.
- Étienne Souriau, I diversi modi di esistenza, Parigi, PUF, 1943.
















