Ascoltatemi bene, banda di snob! Vi parlerò di Yeh Tzu-Chi, nato nel 1957 a Hualien, Taiwan. Non fatemi quella faccia annoiata come se conoscessi già tutto della scena artistica taiwanese. Non è perché avete sorseggiato champagne in tre vernissage a Taipei che potete pretendere di comprendere la profondità della sua opera.
Sono trascorsi diciannove anni che ha passato a New York, dal 1987 al 2006, prima di tornare nella sua isola natale come un Ulisse asiatico che rientra nella sua Itaca personale. Ma non fatevi ingannare, questo ritorno alle origini non è una ritirata bucolica né una fuga romantica. È una scelta radicale, quasi militante, in un mondo dell’arte contemporanea ossessionato dalla velocità e dallo spettacolare.
Prendi le sue serie di alberi, che dipinge ossessivamente dal 1998. Ogni quadro richiede tra i due e i cinque anni di lavoro intenso. Nella nostra epoca del tutto-digitale e dell’immediatezza, questa lentezza deliberata potrebbe sembrare un vezzo. Ma è tutt’altro. Essa si inscrive in una riflessione profonda sulla natura stessa del tempo e dell’esperienza artistica. Henri Bergson, nel suo “Saggio sui dati immediati della coscienza”, stabiliva una distinzione fondamentale tra il tempo degli orologi, meccanico e spazializzato, e la durata pura, quell’esperienza interiore del tempo che sfugge a ogni misura quantitativa. I quadri di Yeh Tzu-Chi sono manifestazioni perfette di questa durata bergsoniana.
Quando passa anni ad osservare e dipingere un solo albero, non è per manierismo o perfezionismo patologico. Egli si immerge in ciò che Bergson chiamava “la continuità indivisa del cambiamento”. Ogni pennellata non è semplicemente l’aggiunta di un dettaglio ulteriore, ma la registrazione di un momento vissuto, di un’esperienza diretta della durata. Le sottili variazioni della luce, i cambiamenti impercettibili della vegetazione, i minimi movimenti dell’aria, tutto questo viene catturato non come una successione di istanti fissi, ma come un flusso continuo di coscienza.
Questo approccio riecheggia il pensiero di Martin Heidegger sull’essenza dell’opera d’arte. In “L’origine dell’opera d’arte”, il filosofo tedesco sviluppa l’idea che l’arte vera non è una semplice rappresentazione del reale, ma una “messa in opera della verità”. Per Heidegger, questa verità non è l’adeguatezza tra una rappresentazione e il suo modello, ma un svelamento, un “aletheia”, che fa apparire l’essere delle cose nella loro essenza. I paesaggi di Yeh Tzu-Chi, con la loro precisione quasi sovrannaturale, non sono esercizi di virtuosismo tecnico, ma tentativi di rivelare la verità nascosta della natura taiwanese.
Guardate le sue serie di montagne di Taroko. La precisione della resa potrebbe far credere a un approccio puramente mimetico. Ma è proprio in questa tensione tra l’iperrealismo della rappresentazione e la dimensione contemplativa del processo creativo che si rivela la profondità del suo lavoro. Ogni dettaglio minuziosamente rappresentato non c’è per impressionare lo spettatore, ma per partecipare a ciò che Heidegger chiama il “combattimento tra mondo e terra”, quella lotta fondamentale dove l’opera d’arte fa sorgere un mondo preservando il mistero della materia.
I suoi paesaggi marini, specialmente quelli realizzati dal suo ritorno a Taiwan, illustrano perfettamente questo approccio. In “A Ship on the Misty Ocean”, il mare grigio e le nuvole si fondono in un’atmosfera che trascende la semplice descrizione. La tradizione cinese del “shan shui” si reinventa attraverso il prisma della sua esperienza occidentale. Non è più una questione di influenza o stile, ma di verità ontologica. L’acqua, le nuvole, l’orizzonte incerto, tutto partecipa a ciò che Heidegger chiama “l’apertura dell’ente nel suo essere”.
La dimensione temporale del suo lavoro non si limita alla durata della creazione. Essa impregna l’esperienza stessa dello spettatore di fronte alle sue opere. I suoi nature morte floreali non sono semplici studi botanici, ma meditazioni sulla temporalità. La precisione quasi clinica con cui rende ogni petalo crea un effetto di presenza così intenso che diventa metafisico. Questi fiori congelati nella loro perfezione ci confrontano con ciò che Bergson chiamava “i due aspetti della vita”, uno orientato all’azione immediata, l’altro alla pura contemplazione.
Il ritorno di Yeh Tzu-Chi a Hualien non è una semplice scelta geografica, è un posizionamento filosofico. In un’epoca in cui l’arte contemporanea spesso si perde in gesticolazioni concettuali vuote, egli afferma la possibilità di una pittura che sia al tempo stesso radicata nella tradizione e radicalmente contemporanea. La sua tecnica iperrealista non è un fine in sé ma un mezzo per raggiungere ciò che Heidegger chiamava “la terra”, questa dimensione irriducibile del reale che resiste a ogni tentativo di oggettivazione.
I paesaggi che dipinge dal suo ritorno a Taiwan non sono semplici rappresentazioni di luoghi familiari. Essi incarnano ciò che Bergson chiamava “la memoria pura”, quella forma di ricordo che non è una semplice immagine del passato ma una presenza attiva nel presente. Ogni quadro è il frutto di un’osservazione paziente dove il tempo cronologico si dissolve nella durata pura dell’esperienza artistica. La lentezza del suo processo creativo non è una scelta estetica ma una necessità ontologica.
In un mondo dell’arte dominato dall’effimero e dallo spettacolare, Yeh Tzu-Chi ci ricorda che la pittura può ancora essere un atto di rivelazione, una ricerca di verità che va oltre le categorie stabilite. La sua opera ci mostra che l’iperrealismo, lungi dall’essere un vicolo cieco tecnico, può diventare il veicolo di un’esperienza metafisica profonda. In questo, si unisce al pensiero di Bergson per cui l’arte vera ci permette di accedere a una percezione più pura, liberata dalle costrizioni dell’azione pratica.
I suoi alberi, le sue montagne, i suoi mari non sono copie del reale ma manifestazioni di ciò che Heidegger chiamava “l’essere-opera” dell’opera d’arte. Ogni quadro è un mondo a sé, un luogo dove la verità si realizza, dove il visibile e l’invisibile si incontrano in una tensione creatrice. La pazienza quasi monastica con cui lavora non è una posa ma un metodo per accedere a questa dimensione fondamentale dell’esperienza artistica.
Allora sì, potete continuare ad estasiarvi sulle ultime installazioni alla moda dei vostri artisti concettuali preferiti. Ma non dimenticate che a Hualien, di fronte all’oceano Pacifico, un uomo continua pazientemente a dipingere, giorno dopo giorno, anno dopo anno, non per seguire una moda o impressionare le gallerie, ma per testimoniare questa verità semplice e profonda: l’arte può ancora essere una forma di conoscenza, una via d’accesso all’essenza stessa del reale.
















