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Martedì 18 Novembre

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Yoshitomo Nara : Gli angeli della collera

Pubblicato il: 19 Novembre 2024

Di: Hervé Lancelin

Categoria: Critica d’arte

Tempo di lettura: 7 minuti

Yoshitomo Nara trasforma la solitudine della sua infanzia in un linguaggio visivo universale. I suoi bambini con teste sovradimensionate non sono semplici caricature carine – sono gli avatar di una condizione umana complessa, gli araldi di una resistenza silenziosa contro l’assurdità del mondo adulto.

Ascoltatemi bene, banda di snob, è tempo di parlare di Yoshitomo Nara (nato nel 1959). Sapete, quell’artista giapponese che fa tremare il mercato dell’arte con le sue bambine dagli occhi enormi e i suoi cani pensierosi. Ma attenzione, non fatevi ingannare, non è solo un altro artista che cavalca l’onda kawaii, né un semplice seguace del movimento Superflat di Takashi Murakami. No, Nara è molto più di questo, è l’incarnazione stessa di quella resistenza silenziosa che caratterizza la nostra epoca.

Crescendo nell’isolamento di Hirosaki, a 300 chilometri a nord di Tokyo, il giovane Nara trascorreva le sue giornate da solo, i suoi genitori lavorando molte ore durante il miracolo economico giapponese. La sua unica compagnia? Le onde della radio Far East Network, che trasmettevano musica rock americana dalla base militare vicina. Questa solitudine forzata ha forgiato una sensibilità unica, dove la ribellione adolescenziale si mescola a una profonda malinconia esistenziale. È in questo isolamento che ha sviluppato quello sguardo penetrante che sarebbe diventato la sua firma artistica.

Nara trasmuta questa esperienza personale in un linguaggio visivo universale. I suoi bambini con teste sovradimensionate non sono semplici caricature carine, sono gli avatar di una condizione umana complessa, gli eroi di una resistenza silenziosa contro l’assurdità del mondo adulto. Come avrebbe detto Theodor Adorno, queste figure incarnano la “negazione determinata” della nostra società normativa. Ogni colpo di pennello è un atto di sfida contro la standardizzazione dell’esperienza umana.

Se pensate che le sue opere siano semplicistiche, vi sbagliate. Prendete la sua serie iconica dei bambini armati. Queste bambine che brandiscono coltelli o seghe non sono simboli di violenza gratuita, ma piuttosto manifestazioni di quella che Herbert Marcuse chiamava la “Grande Opposizione”, una rivolta contro la repressione sociale. Quando Nara afferma che queste armi sono “come dei giocattoli”, mette in luce l’impotenza fondamentale dei suoi personaggi di fronte ai “grandi cattivi” che li circondano. È un commento pungente sul nostro mondo dove l’innocenza è costantemente minacciata dalle forze dell’autorità e del conformismo. Queste piccole ribelli dagli sguardi accusatori sono le nostre stesse frustrazioni incarnate.

Ma ciò che rende davvero affascinanti queste figure è la loro ambiguità fondamentale. Oscillano costantemente tra vulnerabilità e sfida, tra innocenza e conoscenza. Come in “Dead Flower Remastered” (2020), dove una bambina con un sorriso inquietante tiene una sega, con sangue che le scende dalla bocca. L’immagine è allo stesso tempo comica e inquietante, ricordando ciò che Georges Bataille chiamava “l’informe”, quella zona oscura dove le categorie stabilite si dissolvono.

La seconda tematica che attraversa l’opera di Nara è quella dell’isolamento esistenziale. Le sue figure solitarie, fluttuanti in spazi monocromi, evocano ciò che Jean-Paul Sartre descriveva come la “contingenza” dell’esistenza. Questi bambini con sguardi accusatori o malinconici sono i testimoni muti della nostra stessa alienazione. Come in “In the Deepest Puddle II” (1995), dove una bambina dal volto bendato ci fissa dalle profondità di una pozza, metafora toccante dell’anima ferita che cerca di emergere dalla sua solitudine.

Ciò che è notevole è il modo in cui Nara riesce a creare una tensione costante tra il personale e l’universale. Le sue figure, sebbene ispirate dal suo proprio sentimento di isolamento, trascendono la loro origine autobiografica per diventare archetipi della condizione contemporanea. Come avrebbe detto Carl Jung, esse toccano l’inconscio collettivo della nostra epoca, incarnando le nostre paure e i nostri desideri più profondi.

L’evento che ha segnato profondamente una svolta nella sua opera è stato il disastro di Fukushima nel 2011. Le sue figure sono diventate più introspettive, più spirituali. Gli sguardi accusatori hanno lasciato il posto a una meditazione silenziosa sulla fragilità della nostra esistenza. In “Miss Forest” (2010), questa testa monumentale dagli occhi chiusi richiama le divinità shinto, creando un ponte tra il cosmo e l’umanità. È come se Nara avesse scoperto ciò che Martin Heidegger chiamava la “serenità” (Gelassenheit), una forma di resistenza contemplativa di fronte alla tecnocrazia moderna.

Questa evoluzione spirituale non significa però un abbandono della sua dimensione critica. Al contrario, le sue opere recenti, come “No War” (2019) e “Stop the Bombs” (2019), mostrano un impegno politico più diretto, pur conservando quella qualità meditativa che caratterizza il suo periodo post-Fukushima. È ciò che Jacques Rancière chiamerebbe una “politica dell’estetica”, un modo di riconfigurare il sensibile per aprire nuovi spazi di resistenza.

A livello tecnico, il suo uso dell’acrilico, con contorni netti e silhouette semplificate, non è una scelta arbitraria. Fa parte di quello che Roland Barthes chiamava il “grado zero della scrittura”, un tentativo di trovare un linguaggio visivo che sfugga alle convenzioni pur rimanendo leggibile. I suoi colpi di pennello, apparentemente semplici, celano ore di lavoro meticoloso.

Nara trascende le frontiere culturali rimanendo profondamente radicato nella sua esperienza personale. A differenza di alcuni artisti che si limitano a riciclare cliché pop, Nara scava nelle profondità della psiche umana. Le sue opere sono come specchi che ci riflettono la nostra stessa vulnerabilità, la nostra stessa resistenza di fronte a un mondo sempre più disumanizzato.

L’uso che Nara fa dei materiali “poveri”, cartone, legno recuperato, buste usate, non è una semplice scelta estetica. È una dichiarazione politica, un rifiuto del feticismo della merce che domina il mondo dell’arte contemporanea. Come avrebbe detto Walter Benjamin, questi materiali portano le tracce della loro “vita precedente”, creando un’autenticità che sfida la riproduzione meccanica. In “My Drawing Room” (2008), questo approccio raggiunge il suo apice, trasformando materiali di recupero in uno spazio sacro di creazione.

La musica punk, che ha tanto influenzato Nara, non è solo un semplice riferimento culturale nella sua opera. Incorpora ciò che Friedrich Nietzsche chiamava lo spirito dionisiaco, una forza creativa che sfida le convenzioni apollinee dell’ordine sociale. Le sue figure ribelli sono le eredi dirette di quell’energia sovversiva, brandendo la loro solitudine come un’arma contro la normalizzazione. Ogni opera è come un grido silenzioso, una canzone punk tradotta in immagine.

L’evoluzione recente del suo lavoro verso opere più contemplative non rappresenta un attenuarsi della sua critica sociale. Al contrario, come in “Midnight Tears” (2023), questi volti monumentali dalle lacrime silenziose sono ancor più accusatori nella loro calma apparente. Ci ricordano ciò che Emmanuel Levinas chiamava la “responsabilità per l’altro”, un’esigenza etica che precede ogni teorizzazione. Il dolore che esprimono è tanto più struggente quanto è contenuto.

Nelle sue installazioni recenti, Nara spinge più avanti questa riflessione sullo spazio e l’intimità. “Fountain of Life” (2001/2014/2022), con le sue teste di bambini impilate formando una fontana celeste, crea ciò che Gaston Bachelard chiamerebbe una “poetica dello spazio”, un luogo dove l’interiorità psichica si materializza nello spazio fisico. Le lacrime che scorrono silenziose dagli occhi dei bambini diventano una metafora della trasmissione intergenerazionale della sofferenza.

Ciò che distingue veramente Nara dai suoi contemporanei è la sua capacità di mantenere un’autenticità viscerale nonostante il successo commerciale. Contrariamente ad altri che si sono lasciati sedurre dalle sirene del mercato, Nara continua a creare da questo spazio di solitudine che lo ha formato. Le sue opere rimangono atti di resistenza, manifestazioni di ciò che Jacques Rancière chiama il “condividere il sensibile”, una redistribuzione dei modi di percezione che sfida le gerarchie stabilite.

L’arte di Nara non è lì per confortarci con immagini carine. È lì per confrontarci con la nostra stessa alienazione, con il nostro bisogno di ribellione. I suoi bambini dagli sguardi penetranti sono i custodi di una verità scomoda: siamo tutti questi piccoli esseri vulnerabili e ribelli, alla ricerca del nostro posto in un mondo che spesso sembra ostile alla nostra umanità fondamentale.

In un panorama artistico spesso dominato dal cinismo postmoderno e dalla superficialità commerciale, Nara rimane un radicale autentico. Le sue opere sono atti di resistenza poetica, manifesti silenziosi per un’umanità più profonda. Come avrebbe detto Gilles Deleuze, esse creano “linee di fuga” che ci permettono di sfuggire ai territori segnati della cultura dominante.

Guardate “Little Thinker” (2021), questo piccolo disegno di una testa senza corpo su sfondo giallo. Nella sua estrema economia di mezzi, cattura tutto ciò che rende grande Nara: la precisione del tratto, la profondità psicologica, la tensione tra semplicità apparente e complessità emotiva. È un’impresa che ci ricorda che l’arte più potente non è necessariamente la più spettacolare.

E forse qui risiede il vero genio di Nara: trasforma la solitudine in connessione, la vulnerabilità in forza, il personale in universale. Nara ci ricorda che la vera radicalità risiede nell’autenticità emotiva e nell’impegno esistenziale.

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Riferimento/i

Yoshitomo NARA (1959)
Nome: Yoshitomo
Cognome: NARA
Altri nome/i:

  • 奈良美智 (Giapponese)

Genere: Maschio
Nazionalità:

  • Giappone

Età: 66 anni (2025)

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