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Zhang Xiaogang: I fantasmi della memoria

Pubblicato il: 1 Febbraio 2025

Di: Hervé Lancelin

Categoria: Critica d’arte

Tempo di lettura: 9 minuti

Nei ritratti enigmatici di Zhang Xiaogang, ogni volto è uno strato aggiuntivo di memoria collettiva. Attraverso le sue linee rosse e le sue macchie misteriose, l’artista rivela le cicatrici invisibili di una generazione segnata dalla storia, creando una meditazione profonda sull’identità.

Ascoltatemi bene, banda di snob, è tempo di parlare di Zhang Xiaogang, nato nel 1958, quell’artista che probabilmente vi fa pensare di stare guardando foto di famiglia ritoccate da un fantasma malinconico. Ma non fatevi ingannare, perché dietro quei volti lisci e quegli sguardi vuoti si nasconde una delle riflessioni più profonde sulla memoria collettiva e sull’identità individuale che l’arte contemporanea abbia prodotto.

Quando Zhang dipinge i suoi ritratti della serie “Bloodline”, è come se ci invitasse a una seduta spiritica in cui gli spettri del passato comunista cinese venissero a infestare il presente. Questi volti, congelati in un’espressione di una neutralità inquietante, ci ricordano stranamente le fotografie ufficiali dell’era maoista, dove ogni individuo doveva proiettare l’immagine perfetta del cittadino modello. Ma Zhang va ben oltre la semplice critica politica. Si ispira direttamente al pensiero di Walter Benjamin sull’aura delle immagini e sulla loro capacità di incarnare la memoria collettiva. Benjamin, nel suo saggio “L’opera d’arte nell’epoca della sua riproducibilità tecnica”, parlava di quella qualità misteriosa che fa sì che un’immagine possa trascendere la sua semplice materialità per diventare il ricettacolo di una memoria condivisa. Zhang, riproducendo questi ritratti di famiglia con le loro imperfezioni deliberate, le macchie misteriose e le linee rosse che collegano i personaggi, crea precisamente ciò che Benjamin chiamava “immagini dialettiche”, immagini che cristallizzano la tensione tra passato e presente.

Questi ritratti sono di un’uniformità inquietante, come se un’intera generazione fosse stata colata nello stesso stampo. I volti pallidi, quasi traslucidi, sembrano emergere da una nebbia di memoria collettiva. Eppure, guardate attentamente: ogni volto porta un piccolo segno, un’imperfezione, come una crepa nella facciata dell’uniformità. È qui che risiede il genio di Zhang. Non si limita a documentare un’epoca, ma ne rivela le crepe, le cicatrici invisibili che segnano ogni individuo.

La filosofia di Maurice Halbwachs sulla memoria collettiva trova qui un’illustrazione straordinaria. Secondo Halbwachs, i nostri ricordi personali sono sempre incastonati in un quadro sociale più ampio. Zhang materializza questa teoria creando ritratti che sono contemporaneamente profondamente personali e inevitabilmente collettivi. Le linee rosse che attraversano i suoi dipinti, come fili di sangue che collegano i personaggi, non sono solo una semplice metafora familiare, ma rappresentano i legami invisibili che uniscono ogni individuo alla storia collettiva del suo Paese.

Prendete ad esempio la sua opera “Bloodline: Big Family No. 3” del 1995. A prima vista, è un ritratto di famiglia banale: padre, madre, bambino, tutti vestiti con uniformi simili, tutti con lo stesso sguardo distante. Ma osservate più attentamente: i volti sono segnati da macchie rosate, come bruciature o stigmi. Questi segni non sono difetti tecnici, ma cicatrici simboliche, tracce lasciate dalla storia sulla pelle stessa dei suoi soggetti. Zhang ci costringe a vedere ciò che forse preferiremmo ignorare: come la storia collettiva si inscrive nella carne stessa dell’individuo.

Zhang non si limita a dipingere ritratti, crea stratificazioni visive in cui ogni strato di pittura corrisponde a una strata di memoria. Il grigio dominante delle sue tele non è scelto a caso, è il colore stesso dell’ambiguità, dell’intermedio, di quelle zone sfocate tra ricordo e oblio. I volti che dipinge sembrano fluttuare in uno spazio indeterminato, né del tutto presenti, né completamente assenti, come fantasmi che si rifiutano di scomparire ma non possono più manifestarsi completamente.

L’approccio di Zhang è tanto più interessante perché trascende la semplice critica politica per raggiungere una dimensione universale. I suoi ritratti non parlano solo della Cina o del comunismo, ci parlano di come ogni società tenta di plasmare i suoi membri, della tensione permanente tra individuo e collettivo, di quelle tracce invisibili che la Storia lascia su ognuno di noi.

Guardate come tratta la luce nei suoi quadri. Quei bagliori strani che sembrano emanare dal nulla, quegli aloni che talvolta circondano i volti, non sono semplici effetti pittorici. Evocano quei momenti di lucidità in cui la memoria penetra improvvisamente il velo dell’oblio, dove il passato emerge con una chiarezza abbagliante nel presente. È come se Zhang ci dicesse che la verità non risiede nella nitidezza del ricordo, ma nelle sue zone d’ombra, in ciò che resiste all’eliminazione così come alla piena luce.

L’artista utilizza una tavolozza volutamente ristretta, dominata da grigi e neri, punteggiata talvolta da tocchi di rosso, ovviamente il colore del sangue, ma anche quello della Rivoluzione culturale. Questa scelta cromatica non è solo estetica, è profondamente politica. Spogliando i suoi ritratti del colore, Zhang ci mostra come l’ideologia può svuotare gli individui della loro vitalità lasciando al contempo tracce indelebili.

Nelle sue opere più recenti, Zhang ha iniziato a introdurre oggetti di uso quotidiano, lampadine, fili telefonici, vecchie radio. Questi oggetti non sono semplici accessori, sono testimoni silenziosi della storia, reliquie di un’epoca in cui la modernità si infiltrava lentamente nella società cinese. Ogni oggetto porta con sé una carica memoriale, come quelle vecchie fotografie di famiglia che si conservano gelosamente senza sapere più esattamente chi rappresentano.

Zhang crea immagini che funzionano simultaneamente su più livelli. A livello personale, sono ritratti intimi, carichi di emozione contenuta. A livello sociale, documentano un’epoca e i suoi traumi. A livello filosofico, interrogano la natura stessa della memoria e dell’identità. E a livello artistico, reinventano il genere del ritratto infondendo una dimensione spettrale che li rende indimenticabili.

Ciò che è particolarmente straordinario nel lavoro di Zhang è il suo modo di trattare il tempo. I suoi ritratti non sono fissati in un momento preciso, sembrano esistere in un intertempo, tra passato e presente, tra ricordo e oblio. Questo approccio riecheggia la concezione del tempo di Henri Bergson, per il quale la durata non è una successione di momenti distinti ma un flusso continuo in cui passato e presente si mescolano inestricabilmente. I volti dipinti da Zhang incarnano perfettamente questa concezione: sono allo stesso tempo qui e altrove, presenti e assenti, contemporanei e storici.

La tecnica pittorica di Zhang è altrettanto affascinante quanto il suo tema. Il suo modo di lavorare la superficie della tela, applicando molteplici strati di pittura che poi liscia meticolosamente, crea un effetto di profondità paradossale. I volti sembrano emergere dalla tela pur restando imprigionati in essa, come ricordi che affiorano alla coscienza senza mai rivelarsi completamente. Questa tensione tra superficie e profondità, tra ciò che viene mostrato e ciò che è nascosto, costituisce una delle firme visive più riconoscibili dell’artista.

Zhang non si limita a dipingere ritratti, crea enigmi visivi che ci costringono a interrogare il nostro stesso rapporto con la memoria e la storia. I suoi quadri sono come specchi che non ci restituiscono il nostro riflesso, ma quello di un’umanità segnata dai grandi sconvolgimenti della storia. Ed è forse lì che risiede la loro maggiore forza: nella capacità di farci vedere, al di là dei singoli volti, il volto collettivo di un’epoca e le sue cicatrici invisibili.

L’arte di Zhang Xiaogang è una profonda meditazione sul modo in cui la storia si inscrive nei corpi e nei volti, come plasma gli individui pur superandoli. I suoi ritratti non sono semplicemente rappresentazioni di persone, ma finestre aperte sulla complessità della memoria collettiva e individuale. In un mondo dove l’immagine è diventata onnipresente ma spesso svuotata di significato, il suo lavoro ci ricorda che alcune immagini hanno ancora il potere di ossessionarci, di interrogarci e forse anche di trasformarci.

Ma non lasciatevi ingannare, la sottigliezza con cui Zhang tratta questi temi complessi non toglie nulla alla loro potenza. Al contrario, è proprio in questa riserva, in questa economia di mezzi, che risiede la sua forza. Prendete ad esempio la sua serie “Green Wall”, dove dipinge interni domestici di una banalità quasi opprimente. I muri, dipinti di verde fino a metà altezza secondo la moda dell’epoca maoista, diventano sotto il suo pennello attori a tutti gli effetti del dramma silenzioso che si svolge. Quegli spazi vuoti, quelle stanze abitate solo da pochi oggetti quotidiani, una sedia, una lampadina che pende dal soffitto, una radio, sono carichi di una presenza fantasmagorica che ci parla di assenza, perdita, scomparsa.

L’artista eccelle particolarmente nella sua maniera di trattare i dettagli apparentemente insignificanti. Una lieve asimmetria in un volto, un filo elettrico che attraversa la tela in modo improbabile, una macchia di luce che sembra fluttuare nello spazio, ciascuno di questi elementi è portatore di senso, contribuendo a creare un’opera che funziona come un vero e proprio sistema di segni. Questa attenzione ai dettagli non è gratuita: fa parte di una strategia visiva sofisticata che mira a farci vedere oltre la superficie delle cose.

Nelle sue sculture recenti, Zhang spinge ancora più avanti questa esplorazione della memoria e dell’identità. Trasformando in bronzo oggetti di uso quotidiano, libri, penne, bottiglie, conferisce loro una dimensione monumentale che li strappa alla loro banalità per farne reliquie di un’epoca passata. Questi oggetti, fissati nel metallo, diventano testimoni muti di una storia che continua a infestare il presente.

Ciò che colpisce nell’evoluzione del lavoro di Zhang è la sua costanza nell’esplorazione di questi temi pur rinnovando costantemente il suo linguaggio plastico. Se i suoi primi ritratti della serie “Bloodline” erano caratterizzati da un approccio quasi clinico, le sue opere più recenti mostrano una maggiore libertà nel trattamento pittorico, senza però perdere il loro potere evocativo. Le linee rosse che collegavano i personaggi nei suoi primi dipinti hanno lasciato il posto a connessioni più sottili ma altrettanto significative.

L’influenza di Zhang sull’arte contemporanea cinese è considerevole, ma la sua importanza va ben oltre i confini del suo paese. Creando opere che parlano simultaneamente dell’intimo e del collettivo, del personale e del politico, ha sviluppato un linguaggio visivo che risuona molto oltre il suo contesto d’origine. I suoi ritratti non sono semplicemente documenti di un’epoca specifica della storia cinese, sono meditazioni universali sul modo in cui la storia segna gli individui, come la memoria plasma la nostra identità e come l’arte possa servire da testimone a questi processi complessi.

In un mondo dove l’immagine è diventata onnipresente ma spesso superficiale, dove la memoria collettiva è costantemente minacciata dall’accelerazione del tempo e dalla moltiplicazione delle informazioni, il lavoro di Zhang ci ricorda l’importanza della contemplazione, della riflessione, della profondità. Le sue opere ci invitano a rallentare, a guardare attentamente, a interrogarci sul nostro stesso rapporto con la storia e la memoria.

Zhang Xiaogang ha creato un’opera che sfida le categorie semplici. È arte politica? Arte concettuale? Ritratto contemporaneo? È tutto questo insieme, e molto di più. È un’arte che ci parla della condizione umana in tutta la sua complessità, che esplora le zone d’ombra della nostra storia collettiva mentre ci ricorda la nostra vulnerabilità di fronte alle forze della storia.

Ciò che fa la grandezza di Zhang Xiaogang è che trasforma esperienze profondamente personali in una riflessione universale sulla natura della memoria e dell’identità. I suoi ritratti non sono semplicemente immagini di persone, sono specchi in cui tutti possiamo riconoscerci, finestre aperte sulla complessità del nostro rapporto con il passato, il presente e il futuro.

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Riferimento/i

ZHANG Xiaogang (1958)
Nome: Xiaogang
Cognome: ZHANG
Altri nome/i:

  • 張曉剛 (Cinese tradizionale)
  • 张晓刚 (Cinese semplificato)
  • Zhāng Xiǎogāng

Genere: Maschio
Nazionalità:

  • Cina

Età: 67 anni (2025)

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