Ascoltatemi bene, banda di snob, lasciatemi parlare di Zhu Xinjian (1953-2014), quell’artista la cui brutalità sincera ha scosso l’establishment artistico cinese come un terremoto. Ecco un uomo che ha osato dipingere con il cuore piuttosto che seguire le convenzioni, trasformando l’arte tradizionale cinese in qualcosa di pericolosamente moderno, scandalosamente autentico. Un artista che ha fatto tremare le mura dei musei e digrignare i denti ai custodi della tradizione, creando al contempo un’opera di una bellezza così cruda, così viscerale, che continua a ossessionarci oggi.
Negli anni 1980, mentre la Cina emergeva lentamente dal suo bozzolo ideologico, Zhu si distinse come una forza dirompente all’interno del movimento artistico della Nuova Ondata del 1985. Laureato all’Accademia d’Arte di Nanchino nel 1980, avrebbe potuto seguire la strada tracciata dai suoi predecessori, producendo opere politicamente corrette ed esteticamente sicure. Invece scelse di far esplodere le convenzioni, creando uno stile così personale che fece tremare i pavimenti del Museo Nazionale d’Arte della Cina sotto i bastoni degli artisti anziani scandalizzati. Questi venerabili anziani, aggrappati ai loro bastoni come alle loro certezze, non potevano sopportare la vista delle sue donne con i piedi bendati, sensuali e provocanti, che sembravano danzare sulle rovine della loro preziosa tradizione.
Osservate attentamente le sue prime opere degli anni 1980. La tecnica è già presente, padroneggiata e poi deliberatamente decostruita, come un musicista virtuoso che sceglie di suonare con una sola corda per raggiungere una verità più pura. Zhu ha compreso qualcosa che Nietzsche aveva afferrato un secolo prima: la vera arte nasce da una tensione tra l’apollineo e il dionisiaco, tra ordine e caos, tra tradizione e trasgressione. Come scriveva Nietzsche in “La nascita della tragedia”: “L’arte deve soprattutto abbellire la vita, quindi renderci noi stessi tollerabili agli altri e piacevoli se possibile”. Zhu ha preso questa idea a cuore, ma l’ha portata ai suoi limiti più estremi, creando opere che non ci rendono solo sopportabili agli altri, ma ci confrontano con i nostri desideri più profondi, le nostre contraddizioni più intime.
Prendete la sua serie “Dipinti della bellezza”, iniziata negli anni 1980. Queste opere non sono semplici rappresentazioni erotiche, ma una completa decostruzione della tradizione pittorica cinese. In “Bellezza a riposo” (1987), una donna sdraiata occupa lo spazio con una grazia che ricorda i nudi di Matisse, ma il trattamento dell’inchiostro e del tratto è risolutamente cinese. Zhu ha osato integrare elementi della cultura popolare, testi di canzoni contemporanee ed espressioni familiari nelle sue opere, creando uno stile che il critico d’arte Li Xianting ha definito la “cultura teppista”. Questo approccio non era semplicemente una provocazione gratuita, ma piuttosto un sincero tentativo di creare un nuovo linguaggio artistico che potesse esprimere l’autenticità della vita contemporanea.
La sua tecnica della linea, così caratteristica, è molto interessante. Osservate come nelle sue opere degli anni ’90, il tratto diventi sempre più libero, quasi selvaggio, pur mantenendo una padronanza assoluta del gesto. È ciò che i cinesi chiamano “il pennello ubriaco con uno spirito sobrio”, una spontaneità possibile solo dopo anni di pratica rigorosa. In “Loto dorato” (1992), le linee danzano sul foglio con una libertà che fa invidia ai graffiti più audaci delle nostre strade parigine.
La filosofia di Roland Barthes sulla morte dell’autore trova un’eco affascinante nell’opera di Zhu. Proprio come Barthes sosteneva che il senso di un testo non appartiene al suo autore ma emerge nell’interazione con il lettore, Zhu creava opere che sfidavano l’interpretazione tradizionale. I suoi dipinti di donne nude con i piedi fasciati, per esempio, non sono semplicemente rappresentazioni erotiche, ma commenti complessi sulla storia cinese, la tradizione e la modernità. Come scriveva Barthes: “Un testo non è fatto da una linea di parole che sprigiona un senso unico, (…) ma uno spazio a dimensioni multiple, dove si fondono e si contendono scritture varie, nessuna delle quali è originaria.” Questa molteplicità di letture possibile è particolarmente evidente in opere come “Bellezza che contempla la luna” (1995), dove i riferimenti alla poesia classica cinese si mescolano alle influenze dell’arte contemporanea occidentale.
Il suo trattamento dello spazio pittorico è altrettanto rivoluzionario. Nella pittura tradizionale cinese, lo spazio vuoto è importante quanto le forme rappresentate. Zhu sovverte questa convenzione creando composizioni dove il vuoto diventa paradossalmente più carico del pieno. In “Sogno primaverile” (1989), le zone non dipinte vibrano di una tensione erotica che fa arrossire gli spazi negativi dei maestri antichi. Questo uso dello spazio ricorda le teorie di Maurice Merleau-Ponty sulla percezione e l’incarnazione, dove il visibile e l’invisibile sono inestricabilmente legati.
Nel 2008, quando la malattia lo costrinse a dipingere con la mano sinistra, Zhu trasformò questa limitazione in una nuova forma di espressione artistica. Queste opere tarde, create con la mano non dominante, possiedono una qualità quasi infantile che ricorda la teoria di Jean Dubuffet sull’Art Brut. Come Dubuffet, Zhu credeva che l’arte vera emergesse da una spontaneità pura, non corrotta dalla formazione accademica o dalle convenzioni culturali. Le sue opere di questo periodo, come “Meditazione alla luce della luna” (2010), mostrano una fragilità toccante che contrasta con la padronanza tecnica dei suoi primi anni.
Questo periodo della sua vita artistica rivela una verità profonda sulla natura dell’arte: la tecnica è solo un mezzo, non un fine a sé. In “Ritratto di una bellezza addormentata” (2012), dipinto con la mano sinistra, le linee tremolanti creano una vulnerabilità che trascende ogni considerazione tecnica. Come diceva lui stesso: “La vita dovrebbe essere piacevole, e la pittura dovrebbe essere divertente. Finché si esprimono direttamente le proprie emozioni, non importa se la tecnica non è perfetta.” Questa filosofia ricorda quella di Cy Twombly, un altro artista che ha fatto dell’imperfezione controllata un tratto distintivo.
L’influenza della letteratura classica cinese sulla sua opera è altrettanto interessante. Le sue serie ispirate a “Jin Ping Mei”, romanzo erotico della dinastia Ming, non sono semplici illustrazioni, ma una reinterpretazione audace della tradizione letteraria cinese. In “Scena del capitolo 27” (1988), Zhu cattura l’essenza stessa del romanzo: non tanto l’erotismo quanto la critica sociale che si nasconde dietro. Utilizzando uno stile che mescola la calligrafia tradizionale con elementi della cultura pop contemporanea, crea un dialogo affascinante tra passato e presente. Questo approccio ricorda la teoria dell’intertestualità di Julia Kristeva, secondo la quale ogni testo (o in questo caso, ogni dipinto) è un crocevia di altri testi, altre influenze.
Il suo utilizzo del colore, sebbene spesso sottile, è rivoluzionario nel contesto della pittura a inchiostro cinese. In “Bellezza sotto la pioggia” (1993), le pennellate di rosso non sono semplicemente decorative ma creano una tensione psicologica che richiama le teorie di Vassily Kandinsky sulla spiritualità nell’arte. Zhu comprendeva che il colore non era solo un elemento visivo, ma un linguaggio emotivo capace di trascendere le barriere culturali.
Zhu ha chiamato il suo studio “Vivere come un immortale tranne che per mangiare”, una dichiarazione che cattura perfettamente il suo approccio all’arte e alla vita. Questo atteggiamento ricorda la filosofia epicurea, che sostiene la ricerca del piacere come via verso la saggezza. Ma a differenza dell’edonismo superficiale, l’approccio di Zhu era profondamente radicato in una comprensione sofisticata dell’arte e della cultura. Le sue opere tardive, come “Contemplazione notturna” (2013), rivelano una serenità che trascende i piaceri terreni pur celebrandoli.
La sua influenza sulla calligrafia contemporanea è spesso trascurata. In opere come “Poema d’autunno” (1991), reinventa l’arte calligrafica incorporando elementi di graffiti ed espressionismo astratto. Questa fusione audace ricorda le sperimentazioni di Franz Kline con la calligrafia orientale, ma spinte in una direzione risolutamente contemporanea e cinese.
La questione dell’autenticità nella sua opera è particolarmente rilevante nella nostra epoca di riproduzioni digitali e arte generata dall’intelligenza artificiale. Zhu credeva nella presenza fisica dell’artista nell’opera, una convinzione manifestata in ogni tratto di pennello. Anche nelle sue ultime opere, dipinte con la mano sinistra, questa presenza rimane palpabile. Come ha notato Walter Benjamin, l’aura di un’opera d’arte risiede nella sua autenticità, e le opere di Zhu possiedono questa aura in abbondanza.
Alcuni critici hanno accusato Zhu di volgarità, soprattutto riguardo alle sue rappresentazioni erotiche. Ma queste critiche mancano l’essenziale: la sua arte non era volgare ma viscerale, non licenziosa ma liberatoria. In “Bellezza al bagno” (1994), la sensualità non è gratuita ma serve a esplorare questioni profonde sul corpo, il desiderio e la tradizione. Come ha osservato il critico d’arte Jia Fangzhou: “Zhu Xinjian sceglie un atteggiamento artistico che è anche l’atteggiamento di vita a cui ha sempre aderito. Questa confessione vera e sincera non deriva solo dalla sua comprensione dell’arte, ma anche dalla sua comprensione della vita.”
Il suo approccio alla prospettiva è particolarmente innovativo. Mentre la pittura tradizionale cinese utilizza la prospettiva mobile, Zhu gioca in modo radicale con i punti di vista. In “Vista del giardino” (1996), combina più prospettive simultaneamente, creando uno spazio pittorico che sfida la logica pur rimanendo stranamente coerente. Questa manipolazione dello spazio ricorda le sperimentazioni cubiste di Picasso e Braque, ma con una sensibilità profondamente cinese.
L’aspetto performativo della sua pratica artistica è spesso trascurato. Zhu considerava l’atto di dipingere come una performance in sé, una danza con il pennello che lasciava la sua traccia sulla carta. Questo approccio richiama l’action painting di Jackson Pollock, ma con una consapevolezza acuta della tradizione calligrafica cinese. Anche negli ultimi anni, mentre dipingeva con la mano sinistra, ogni colpo di pennello era un atto di resistenza contro le limitazioni fisiche e le convenzioni artistiche.
Il suo rapporto con la tradizione è particolarmente complesso. Pur dominando perfettamente le tecniche tradizionali, le sovverte costantemente. In “Paesaggio d’inverno” (1999), usa le convenzioni del paesaggio tradizionale cinese per creare un’opera che parla dell’alienazione contemporanea. Questa tensione tra rispetto e sovversione della tradizione ricorda il modo in cui James Joyce ha trasformato il romanzo rispettando profondamente la tradizione letteraria che decostruiva.
Tuttavia, la vera grandezza di Zhu risiede forse nella sua capacità di rimanere autentico di fronte alla controversia e alla critica. Anche quando le sue opere provocavano l’indignazione dei conservatori o venivano respinte come “rifiuti feudali puri”, è rimasto fedele alla sua visione artistica. Questa integrità artistica richiama le parole di Camus: “La vera generosità verso il futuro consiste nel dare tutto al presente.”
Gli ultimi anni della sua vita, quando dipingeva con la mano sinistra, dimostrano forse al meglio la sua filosofia artistica. Queste opere, tecnicamente meno compiute ma emotivamente potenti, rivelano un artista che capiva che la vera arte trascende la tecnica. In “Ultima danza” (2013), le linee tremolanti creano un’emozione più pura di qualsiasi dimostrazione di virtuosismo tecnico. Come ha detto il suo amico artista Li Jin: “Capiva davvero che l’essenza della pittura cinese risiede nella fusione perfetta tra forma e tratto del pennello.”
Contrariamente alla tradizione che privilegiava l’idealizzazione, Zhu cercava di catturare l’essenza stessa dei suoi soggetti, le loro imperfezioni diventando segni della loro umanità. In “Ritratto di una donna che ride” (2000), i tratti apparentemente maldestri rivelano una verità emotiva che nessuna tecnica perfetta potrebbe esprimere. Questo approccio ricorda i ritratti tardi di Rembrandt, dove il virtuosismo tecnico si dissolve di fronte alla ricerca della verità psicologica.
Il suo uso dell’umorismo e dell’ironia nell’arte è altresì notevole. Attraverso iscrizioni scherzose e composizioni giocose, infonde alla tradizione austera della pittura letterata una salutare dose di umorismo. In “Saggio che contempla la luna” (2002), il personaggio tradizionale del letterato è rappresentato in una posa deliberatamente comica, ricordando che la saggezza non esclude il sorriso. Questo approccio riecheggia le teorie di Michail Bachtin sul carnevalesco e il potere liberatorio del riso.
Mentre il mondo dell’arte è sempre più dominato dal mercato e dallo spettacolo, la sincerità cruda di Zhu diventa più preziosa che mai. Le sue opere ci ricordano che l’arte può essere allo stesso tempo sofisticata e viscerale, tradizionale e rivoluzionaria, personale e universale. Come scriveva Antonin Artaud: “Là dove puzza di merda, c’è l’essere.” Zhu avrebbe apprezzato questa brutalità franca, lui che non si è mai tirato indietro davanti agli aspetti più crudi dell’esperienza umana.
La prossima volta che guarderai un’opera di Zhu, non soffermarti sulla tecnica o sulla controversia. Guarda piuttosto la verità cruda che ha osato esprimere, la libertà che ha conquistato tratto dopo tratto, e la pura gioia della creazione che permea ogni pennellata. Perché è qui che risiede la vera grandezza di Zhu Xinjian: non nella sua padronanza della tradizione, ma nel suo coraggio di trascenderla, mostrandoci che è possibile essere contemporaneamente rispettosi del passato e radicalmente contemporanei, profondamente cinesi e risolutamente universali.
In un mondo artistico spesso paralizzato dal conformismo e dalla paura della controversia, Zhu ci ricorda che l’arte vera nasce sempre da un atto di coraggio. Ci mostra che la tradizione non è un vincolo ma un trampolino verso nuove possibilità espressive, che la tecnica è solo un mezzo al servizio della verità artistica, e che la bellezza più pura può emergere dai gesti più imperfetti. Il suo lascito non è solo un corpus di opere straordinarie, ma una lezione di libertà creativa di cui abbiamo più che mai bisogno.
















